Tradizioni Celtiche

Come si può diventare Bretoni e Celti?

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13 Marzo 2014

Parata delle Nazioni celtiche al Festival Interceltique di Lorient


La prima volta che misi piede sul suolo bretone, nulla mi invogliò a restarci più dello stretto necessario. Ero appena sceso alla vecchia stazione di Saint-Malo dal treno notturno di Parigi – sì, ce n'era uno all'epoca - essendo partito qualche giorno prima dalla Svezia, con in tasca una lettera di raccomandazione per insegnare il francese in un corso estivo, organizzato dall'Università di Rennes. Era buio, molto buio. Gli altri pochi passeggeri sparirono rapidamente, non so dove. Io restai incredulo davanti alla stazione, a guardare un cane randagio che si grattava freneticamente in mezzo alla strada, davanti ad alcuni palazzi fatiscenti.

Era questa Saint-Malo, dove dovevo passare il mese successivo?

Mi diressi verso il solo luogo da cui provenivano dei segni di vita umana, sotto forma di un barlume giallognolo, che faticava ad attraversare le finestre sporche... o forse appannate. Alcuni minuti dopo mi trovai in un caffé, scoraggiato, davanti a un espresso e un croissant. Se ci fosse stato un treno che ripartiva subito per Parigi, molto probabilmente l'avrei preso.

Una volta terminata la colazione, domandai al gestore del caffé dov’era il centro della città... se ce n'era uno! Mi disse di prendere la prima via a sinistra e di andare sempre dritto fino a vedere i bastioni. Questa parola, “i bastioni”, risvegliò un po' di speranza. Quasi mi vergogno di ammettere la mia ignoranza di allora, ma partendo da casa, non sapevo praticamente nulla della Bretagna, e meno ancora di Saint-Malo, nonostante avessi un diploma in francese e avessi vissuto più di un anno a Parigi.

Mentre proseguivo faticosamente per corso Louis Martin, trascinando una valigia di una ventina di chili – all’epoca nessuno aveva ancora avuto l'idea geniale di mettere delle rotelle alle valigie -, il sole sorse. E io vidi! Dapprima i bastioni imponenti di Saint-Malo, poi il porto, più tardi i vicoletti tra gli edifici di granito e, infine, il mare, le isole al largo e il Sillon (la spiaggia di Saint-Malo, NdT). Il mio umore cambiò in un batter d'occhio. Raramente mi era capitato di vedere un luogo così bello, così forte, così seducente, nel suo rigore accogliente e vitale. Perché a quei tempi il centro di Saint-Malo non era solamente una meta turistica, ma una città a tutti gli effetti, con droghieri, panettieri, caffé e negozi per tutti. Allora, ma questo finì presto, i marinai e i pescatori bevevano forte in via della Sete.


Saint-Malo in Bretagna, città fortificata con una cintura di bastioni

Non tardai a mettere radici. Sentivo, vagamente ma distintamente, che in questo paesaggio di rocce e di mare c’era qualcosa che mi andava a genio. Alla fine del mio soggiorno, mi ero fatto degli amici, abitanti di Saint-Malo da generazioni, che accettarono lo straniero che io ero con spontaneità, ospitalità e generosità. Ritornai l'estate seguente, e quella dopo e ancora altre in seguito.

Con il tempo, scalavo le mura per scoprire il mondo oltre i bastioni, come gli abitanti di Saint-Malo avevano sempre fatto nel corso della storia; non avendo il diritto di essere proprietari delle terre, erano obbligati a partire in mare per vivere e sopravvivere.

Raramente ho incontrato tanta gente così combattuta tra il sogno di partire e il desiderio di rimanere.

Un'estate, con un'amica facemmo un'escursione in bicicletta da Roscoff fino a Saint-Malo. Essendomi accostato al surf con i miei amici di Saint-Malo, avevamo anche individuato un posto dove ci potevano essere delle onde, ovvero la punta della Torche, nel profondo Finistère.

Sono non poco fiero di essere stato tra i primi a scoprire questo spot, come si dice oggi, dove si è svolto in seguito il campionato mondiale di surf. Ma è anche qui che ho scoperto un altro volto della Bretagna, quello dei “Bigoudines”, quello dei pescatori che parlano bretone, quello in cui uno straniero poteva essere anche un abitante di Saint-Malo o un francese, per non parlare di uno svedese.

Sempre a Saint-Malo iniziai a sognare di fare vela, o piuttosto, di vivere da solo sulla mia barca e solcare i mari sulle tracce di Slocum e di Moitessier. Mi iscrissi dunque a un corso di barca a vela con deriva, al porto di Bas-Sablons, con dei ragazzi che si domandavano cosa ci facesse lì un vecchio come me... avevo venticinque anni... erano però molto contenti quando il vento si metteva a soffiare per davvero e io potevo fare il trapezio! Quando parlavo con i miei amici dei miei sogni di navigazione, promettendo che un giorno sarei arrivato a Saint-Malo sulla mia barca, loro abbozzavano dei sorrisi scettici. È vero che il mare intorno alla Bretagna, soprattutto quella del Nord, non perdona l'inesperienza, con le sue forti correnti di marea che cambiano costantemente di direzione e onde di tempesta fino a dodici metri.


Parata di Bagad, le tipiche bande militari bretoni con le cornamuse della Bretagna

Quattro anni dopo, nel 1985, vidi apparire davanti alla prua del mio Folkboat di 26 piedi Capo Fréhel, dopo un mese di navigazione nel Mare del Nord e nella Manica. Fu uno dei momenti più belli della mia vita!

Fino a quel momento, comunque, la Bretagna non rappresentava per me altro che un luogo dove amavo ritrovare me stesso, dove mi sentivo bene, come se fossi a casa mia… o, piuttosto, dove ero anche a casa mia... e dove avevo degli ottimi amici.

Tutto questo cambiò quando, l'anno successivo, mollai nuovamente gli ormeggi, questa volta per andare in Scozia. Già a Fraserburgh, il nostro primo porto dopo quattro giorni in mare, ritrovai le sensazioni che avevo conosciuto in Bretagna. Ancora una volta, è stato come se fossi a casa mia, ma altrove. Avevo l'impressione di ritrovare qualcosa che già conoscevo. Ma cosa?

Questa domanda si fece più pressante nel corso dei due mesi di navigazione errante di ormeggio in ormeggio – di porti ce n'erano pochi e di attracchi turistici ancora meno – nelle isole Ebridi. Non erano soltanto le scogliere e il mare che i due paesi avevano in comune. Era anche la gente, una certa maniera di affrontare la vita in un ambiente spesso ostile, una musica, in senso letterale e figurato, la facilità degli incontri con dei perfetti conosciuti, il tempo mutevole, imprevedibile e a volte violento; anche il senso della storia, che emergeva in ogni conversazione, anche con persone poco istruite. Contrariamente a me, gli Scozzesi, come i Bretoni che avevo conosciuto, avevano un senso di appartenenza. Erano radicati.

Ricordo l'incontro, su uno dei “lochs” (laghi, NdT) del Canale di Caledonia, con un giovane pescatore-bracconiere, che avevamo invitato a bordo. Quando espressi rammarico per il fatto che il castello di fianco fosse caduto in rovina, il nostro giovane amico protestò vivamente. L'Invergarry Castle era appartenuto a un clan di traditori, i MacLeod, che avevano sostenuto gli Inglesi. Non fu che giustizia mettere a fuoco il castello e raderlo al suolo. I trecento anni che erano passati non sembravano aver avuto alcun effetto sulla rabbia del giovane pescatore. Per lui, la storia non era del passato, ma del presente.


Insediamento del nuovo Grand Druido di Bretagna all’interno di un sito megalitico

Ricordo anche un altro incontro con Jim, in un attracco da sogno sull'isola di Canna. Jim ci era andato con la sua piccola imbarcazione per visitare due chiesette sull'isola, oggi in rovina. Jim espresse la sua tristezza per l'abbandono di una gran parte del patrimonio scozzese e ci raccontò che donava ogni mese venti sterline a un'associazione che lavorava per la salvaguardia dei monumenti storici. Venti sterline non erano poche all'epoca per Jim, che lavorava come pompiere part-time, con un magro salario.

Tornando a casa mi misi a riflettere seriamente su cosa mi avesse attirato sia in Bretagna sia in Scozia. Cominciai a rovistare nelle librerie – all'epoca internet non esisteva – per cercare delle opere che mi potessero dare dei chiarimenti. Uno dei primi libri che mi capitò tra le mani, per caso, fu una rivelazione – ambigua - , vale a dire “Comment peut-on être breton?” (Come si può essere bretoni?) di Morvan Lebesque. Appresi, con stupore, che la Repubblica francese, che si vantava di essere la patria dei diritti umani, e che era inoltre il mio paese d'adozione per la lingua e la sua letteratura, aveva condotto una politica di discriminazione e di ostracismo nei confronti dei Bretoni e della lingua bretone nel corso dei secoli, e che fino agli anni sessanta, si potevano trovare, a Parigi, dei manifesti su cui era scritto che non si volevano stranieri o Bretoni! Certo, avevo imparato dai libri di “civilizzazione francese” studiati all'università, che la Repubblica francese, rivendicando l'universalità dei suoi diritti umani, aveva imposto un centralismo radicale per costituirsi come nazione. Ma ignoravo completamente la tragica realtà retrostante: che i bambini venivano puniti se parlavano in bretone, loro lingua madre, durante gli intervalli a scuola, che la Francia mandava sistematicamente degli insegnanti francofoni per sradicare il bretone, che pure è una lingua a tutti gli effetti, che la proporzione di Bretoni chiamati sotto le armi e uccisi durante la Grande guerra superava di gran lunga quella dei Francesi.


Un Fest Noz nel Morbihan, antica festa celtica dove centinaia di persone ballano le danze bretoni collettive al suono delle musiche tradizionali

Ma se scoprire la vera storia dei Bretoni mi indignò, non posso dire di essermene stupito. Era “soltanto” una variante della stessa storia che si era ripetuta innumerevoli volte dall'avvento degli Stati-nazione, a spese di culture più antiche e minoritarie.

Eppure, non fu venendo a sapere che i Bretoni e la loro lingua erano stati oppressi che il mio interesse per la cultura bretone si infiammò e divenne ciò che è oggi, allo stesso tempo un’indagine e una ricerca, allo stesso tempo un’attrazione e una messa in dubbio, accompagnata da una riflessione, intellettuale ed emozionale, sul valore dei valori veicolati da questa cultura, diversa dalla mia. Mi mancava sempre una ragione “particolare” per lanciarmi alla ricerca di ciò che mi aveva attirato all’inizio.

Trovai questa ragione quando, qualche anno più tardi, mentre vivevo a bordo della mia barca, “il Rustica”, mi venne offerto su un piatto d’argento l’inizio di un romanzo, sotto forma di un catamarano che, una sera tardi di gennaio, rientrava al porto di Dragør da una tempesta di neve con un finlandese a bordo. Quando mollai gli ormeggi, letterari e reali, per seguire in Scozia le tracce dello skipper misterioso del catamarano, credevo che i “cattivi” fossero l’IRA o gli UFF nell’Irlanda del Nord (Ulster Freedom Fighters, NdT), all’epoca in piena guerra di reciproca vendetta. Tuttavia, più procedevo nelle mie letture e nel Mare del Nord, più mi rendevo conto che il fitto mistero intorno a Pekka aveva radici molto più profonde. Quello che scoprii fu infatti la dimensione “celtica” della storia della Bretagna e della Scozia.

Le mie letture e le mie ricerche in situ presero di conseguenza un’altra direzione, imprevista, che dapprima mi portò indietro di millenni all’epoca in cui i Celti dominavano tutta l’Europa attuale, e in seguito, attraverso una ricerca sulla Bretagna e i racconti irlandesi, mi portò fino alla comparsa dei movimenti celtici e druidici nel XVII secolo, per finire alla soglia di quel che ora viene chiamato rinascimento celtico, innanzitutto nella musica, ma anche in politica, nelle aspirazioni dei paesi celtici a una maggiore indipendenza.


Suonatori di bagpipe scozzesi. La cornamusa, strumento tradizionale della Scozia, è presente in molte varianti nella cultura di tutte le Nazioni celtiche

Questo viaggio, contemporaneamente nella letteratura e nella realtà, sulla mia barca, “il Rustica”, navigando in Scozia, Irlanda, Cornovaglia, Bretagna e Galizia, l’ho raccontato, trasponendolo in letteratura, nel mio romanzo “Il cerchio celtico”, che è stato anche un tentativo di comprendere l’enigma della sopravvivenza della cultura celtica lungo la Storia. In effetti questo romanzo è in parte espressione e rimessa in campo di questa fascinazione che avevo sentito molto presto per la cultura della Bretagna e della Scozia.

E allora sono riuscito a rispondere alle molteplici domande che mi sono posto lungo il percorso? Ho potuto far luce sul mistero della cultura e dell’identità celtica? Ho dei dubbi. Se “Il cerchio celtico” continua a essere venduto e a trovare nuovi lettori un po’ ovunque in Europa, credo di sapere che una delle ragioni è proprio il fatto che l’enigma dell’identità e della specificità celtiche, se ce ne sono, non è risolto.

In parte, ci sono delle cause. Per prima cosa sappiamo che i Celti e i loro “intellettuali”, i druidi, avevano scelto - ma perché? - di non adottare la scrittura per trasmettere tradizioni, credenze e conoscenze. Per questo motivo rimaniamo nell’incertezza di poter sapere come vivevano in realtà, e di come ci dobbiamo collocare in rapporto ai Celti delle origini, contrariamente a quanto è successo ad esempio per i Greci e i Romani.

In secondo luogo, erano poche le fonti affidabili sui Celti antichi e moderni all’epoca in cui ho cominciato a scrivere il mio romanzo; succedeva prima del rinascimento celtico e prima della grande mostra a Venezia sui Celti, che improvvisamente ci ricordò che gli antenati di noi Europei furono veramente i Galli. Era anche l’epoca in cui esisteva ancora il muro di Berlino e sembrava inconcepibile che l’apparire sulla scena di nuove nazioni potesse ridisegnare la carta dell’Europa. Ciò che avevo immaginato ne “Il cerchio celtico”, vale a dire la possibilità che antichi paesi celtici diventassero indipendenti, collegati fra loro da una federazione all’interno dell’Europa, sembrava senza dubbio a molti un’idea assurda e non realistica, mentre invece oggi si sa che la Scozia e il Galles hanno intrapreso dei passi decisivi in questa direzione.


Un rito di neo-druidi nella foresta di Brocéliande, Bretagna

In terzo luogo, e forse è la cosa più importante, malgrado tutte le mie ricerche e letture per scrivere il mio romanzo, non ero molto sicuro di aver capito in cosa consisteva la “celticità”, né cosa mi attirava e mi affascinava in questa cultura sfuggente e inafferrabile. La cultura celtica era sopravvissuta per millenni senza un esercito, senza una nazione, senza una lingua e una letteratura comuni, e perfino senza una religione. Ma grazie a cosa, più precisamente?

Questa domanda me la sono posta innumerevoli volte dopo aver terminato “Il cerchio celtico”. Ho continuato a documentarmi e a leggere tutto quello che ho potuto trovare sui Celti antichi e moderni. Ho scritto parecchi testi sull’argomento, un capitolo di “La saggezza del mare”, uno studio, «Littérature, identité et nationalisme», (Letteratura, identità e nazionalismo), in “Identités et société. De Plougastel à Okinawa”, (Identità e società. Da Plougastel a Okinawa) per le Presses Universitaires de Rennes, e anche un lungo articolo sulla storia dei Celti, su richiesta, per il centenario delle logge druidiche in Svezia. Ho riflettuto sul problema dell’identità nel mio saggio “Bisogno di libertà” e in parecchi testi pubblicati in Italia.

Qui sotto c’è la bibliografia di tutte le mie letture alla ricerca di un inizio di risposta alla domanda su cosa realmente costituisca, fuori da ogni ideologia e mitologia, la specificità della cultura celtica. Non si dovrebbe, in tutte queste pagine erudite e documentate, trovare la risposta? Eppure, malgrado tutte le mie ricerche e riflessioni, devo confessare che non ho l’impressione di essere arrivato a vederci molto chiaro.

Qualcuno potrà dire, forse, sulla base di un’idea pericolosa che fa dell’identità una questione di sangue, che il mio fallimento deriva dal fatto che non sono Celta. O che non parlo nessuna lingua celtica. O che non vivo in un paese celtico.

Lascio da parte la questione del sangue, che è una mitologia ideologica odiosa: tutto ciò che la genetica può dirci è che esiste - eventualmente - una parentela fra popoli, ma la genetica non può dire nulla sulla natura delle somiglianze e delle differenze, e ancor meno, se possibile, sul loro valore morale. Il codice genetico non è altro che un codice, esattamente come le barre magnetiche su qualunque prodotto del supermercato: esso consente di dire che abbiamo a che fare con un prodotto diverso da un altro, ma non ci può informare sulle proprietà del prodotto.

Ma se la storia ci insegna qualcosa, è proprio che un’identità forte, anche minoritaria, non ha bisogno di una sola e della stessa lingua per sopravvivere. La prova: gli Ebrei e i Rom, fra gli altri. Un’identità forte, anche minoritaria, non ha nemmeno bisogno di uno Stato-Nazione o di un esercito, per continuare a esistere. La prova: gli Ebrei, i Baschi, i Lapponi e… i Celti. Si può addirittura pensare che le frontiere e il ripiegarsi su di sé alla lunga indeboliscono l’identità piuttosto che il contrario, che il fatto di sentirsi al riparo dietro i muri e i posti di controllo contro un’influenza esteriore crea una falsa impressione di sicurezza.


Ogni anno a Stonehenge, in Inghilterra, il Druid Order si ritrova per la celebrazione del Solstizio d’Estate

Quest’anno la Scozia organizzerà un referendum per la sua indipendenza. Capisco molto bene le ragioni politiche del voto: dalla guerra, gli Scozzesi hanno quasi esclusivamente votato per i lavoratori o per l’SNP (Scottish National Party, NdT), con il risultato che la Scozia è rimasta senza rappresentanza al governo per i lunghi periodi in cui i conservatori erano al potere. Ma non sono sicuro che sia quello il modo migliore di difendere, rafforzare e sviluppare l’identità scozzese.

Guardiamo l’esempio della musica celtica, che per secoli è ristagnata come musica folkloristica nei “fest-noz” in Bretagna e altrove. Solo quando dei giovani musicisti, sicuri della loro identità musicale, hanno osato aprirsi alle influenze esterne, il cosiddetto rinascimento celtico ha preso il via.

Questo esempio mostra anche qualcosa di molto importante, almeno per me, nell’atteggiamento da adottare verso coloro che difendono legittimamente, con tenacia e coraggio, la cultura, la lingua e l’identità celtiche. Una cultura, non importa quale, non deve soltanto essere una ricerca delle origini, un ritornare sul passato, ma anche un progetto rivolto verso il futuro, un’apertura agli altri, la speranza di un mondo migliore, più tollerante, più benevolo, più giusto, più imparziale. Perché, anche se si arrivasse a identificare ciò che da sempre è stata l’essenza della cultura celtica e bretone, bisognerà sempre domandarsi se varrà la pena di restare ciò che si è diventati. Una tradizione non ha valore - politico, culturale o etico - in sé. La domanda che vorrei porre, alla fine, da sradicato come io sono, è come si vorrà essere Celti e Bretoni per il futuro. E se, in questo futuro, ci sarà spazio per coloro che vorranno diventare Celti o Bretoni, senza esserlo per sangue o per suolo, ma per cuore, come ha detto Ronan Le Coadic. E d’altra parte, come saranno trattati coloro che a loro volta diventeranno minoritari nei nuovi paesi celtici, Bretagna compresa.


Björn Larsson è scrittore e professore di francese all’Università di Lund, Svezia. I suoi libri sono stati tradotti in 13 lingue in una sessantina di edizioni diverse e hanno ricevuto diversi premi letterari, tra cui il Premio Boccaccio per “Il cerchio celtico”


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