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Maghi, Fattucchiere e Utili Idioti |
31 Agosto 2021 | ||||||||||||||||
Con eccessiva facilità e superficialità, antiche credenze popolari vengono classificate come “pseudo-scienze”, e generano negli uomini di scienza più ortodossi ilarità e scetticismo. In realtà, è la scienza stessa a venire incontro alla tradizione, confermando con studi scientifici varie convinzioni popolari. Più in generale, l’atteggiamento arrogante e supponente tipico di alcuni divulgatori scientifici è anti-scientifico in sé, in quanto riferito a un approccio alla comunicazione scientifica obsoleto, datato, inefficace e superato da nuove evidenze, prima tra tutte il modello PEST – Public Engagement with Science and Technology. Negli ultimi secoli, la scienza ha prodotto innumerevoli scoperte che hanno di gran lunga migliorato la qualità della vita dell’uomo, pur generando un certo autocompiacimento tra gli addetti ai lavori. Tuttavia, le correlazioni significative tra velocità e modalità della comunicazione contemporanea sono ormai cosa acclarata: bolle informative, annegate nell’oceano digitale della post-verità; analfabetismo funzionale e di ritorno; eccesso di velocità; iper-semplificazione ai limiti dell’idiozia; incapacità di comprendere il contesto. Tutti questi elementi, compongono il pantano nel quale con difficoltà ci muoviamo ogni giorno, di device in device, di connessione in connessione: un mondo farcito di fake-news, tanto più pericolose tanto più toccano il più delicato dei temi, quello della salute, e – più estesamente – quello appunto della scienza, una delle poche certezze sulle quali ancora possiamo contare a questo mondo. Non sappiamo più da che parte girarci, tra “pseudo-scienza”, maghi, naturopati, fattucchiere, pillole magiche, integratori portentosi, erbe miracolose, medicine complementari e “non convenzionali”, e chi più ne ha più ne metta, anche perché – ammettiamolo – la frenesia nella quale siamo immersi non da molto tempo per distinguere. Meglio una cesura netta, quindi, per sicurezza: indicizzato o non indicizzato? Peer-review? Pubblicazione internazionale oppure no? Diversamente, ve ne prego, non fatemi perdere tempo.
E meno male che ci sono Wired, Focus, Next Quotidiano, e altre riviste “guardiane” dell’ortodossia, diversamente quel poco di “resistenza” alle male pratiche sanitarie sarebbe ancora più difficile da opporre. Basta fare un’innocente navigazione per trovare veramente di tutto. Ecco a titolo di esempio una breve carrellata di recenti assurdità pseudo-scientifiche reperite in rete in questi giorni, sedetevi comodi e divertitevi:
Potremmo continuare a lungo, e spesso la gentilezza di un commento del tipo “Nessuna prova scientifica conferma l’utilità di questo rimedio per un problema di tal genere” serve a poco. Ben venga allora il “metodo Burioni”: la scienza non è democratica, sei un ottuso cretino, e l’unica soluzione è dirtelo, condannarti alla pubblica derisione, e immediatamente dopo bannarti dalla pagina. Dal canto mio, però, avevo già sollecitato il dibattito su quanto rischi di rivelarsi fallace l’applicazione acritica del metodo “Evidence-base Medicine”, difeso ad oltranza – a volte rabbiosamente – da certi “sacerdoti della morale scientifica”: ovvio, è l’uomo che sbaglia e truffa, non certamente la scienza di per sé, ma un approccio meno arrogante e dogmatico – specie da parte degli uomini di scienza – è probabilmente consigliato. E se oltre che arroganti, fossimo davvero paladini del metodo scientifico, scopriremmo anche dell’altro. Lo Shinrin-Yoku, il “bagno di foresta”, è praticato da secoli dai giapponesi, i quali empiricamente gli hanno sempre attribuito benefici sulla salute. La Nippon Medical School dell’Università di Tokio ha compiuto analisi su un campione di soggetti, scoprendo che l’interazione con la natura è indispensabile agli esseri umani per mantenere un buon equilibro psicologico ed emotivo, e – come l’epigenetica e gli studi hanno dimostrato – questo riduce la produzione di ormoni dello stress – cortisolo e noradrenalina – e aumenta anche la produzione di linfociti NK, quelli attivi contro i virus, migliorando quindi le performance del sistema immunitario, il quale è influenzato positivamente dai monoterpeni, i composti organici dall’odore di resina emessi dagli alberi. “I linfociti NK si moltiplicano infatti ogni qual volta vengono esposti a queste sostanze”, ha confermato il Prof. Quing Li, che ha anche spiegato come per ottenere effetti benefici non basti certo una “passeggiatina”: “Per arrivare a una dose minima attiva di monoterpeni, servono da 10 a 12 ore di passeggiata nell’arco di 3 giorni, con l’accortezza di scegliere boschi che garantiscono un alto livello di questi elementi attivi, come foreste di lecci, faggi e castagni, che specie in primavera-estate ne emettono anche fino a 10 volte le normali conifere”. Ma pensa tu questi giapponesi bislacchi, che lo dicevano da un migliaio di anni. Cialtroni fino a ieri, ma oggi che lo dice la scienza… Il legame con la natura sembra fondamentale per il benessere psicologico ed emotivo dell’uomo. Non a caso ci piace inalare il profumo dei fiori, con cui, se possibile adorniamo la casa. Comunissimo l’utilizzo della lavanda, deliziosa pianta ornamentale, che grazie al suo odore intenso viene tradizionalmente utilizzata come deodorante per la biancheria ma anche come repellente per insetti, bagni tonificanti ed infusi rilassanti. E se vi dicessimo che l’olio essenziale di lavanda è un prezioso alleato nella gestione dell’ansia? A dimostrarlo una ricerca condotta da un team di ricerca italiano tra cui figura Fabio Firenzuoli medico esperto in fitoterapia e fitovigilanza, responsabile del CERFIT, Centro di Ricerca e Innovazione in Fitoterapia e Medicina integrata. La ricerca, pubblicata sulla rivista Fitoterapia 33, era volta a verificare l’efficacia della pianta nella riduzione dell’ansia procedendo con una revisione sistematica della letteratura disponibile al fine di sintetizzarne i risultati per verificare se l’uso tradizionale poggiasse su una base di evidenze scientifiche. I risultati delle meta-analisi hanno mostrato che l’olio essenziale di lavanda risulta efficace nel ridurre l’ansia se assunto per via orale sotto forma di medicinale. Inoltre dalla ricerca è emerso che anche la sola inalazione dell’aroma di olio essenziale di lavanda si dimostra efficace nel ridurre l’ansia conseguendo che il tradizionale uso che se ne fa risulta appropriato, utile ed un forte alleato per combattere lo stress.
Dolore al ginocchio e meteo? Il nesso tra dolori fisici e cambiamenti climatici è sempre stata una credenza popolare, ma – come hanno confermato vari studi pubblicati su riviste scientifiche e ben riassunti in chiave divulgativa in un lungo reportage dell’autorevole Wall Street Journal – l’emicrania può aumentare quando piove, l’umidità può influire sui dolori muscolari e il freddo può incidere sulla circolazione sanguigna, aumentando il rischio di problemi cardiovascolari. Ma come ci vedevano lungo le nostre nonne! Fatevi poi un nodo al fazzoletto per ricordarvi quando cadrà il prossimo equinozio di primavera, giorno che segnerà l’inizio della stagione mite: il freddo si allontanerà e le giornate si allungheranno. È da sempre credenza comune che tutti questi fattori contribuiscano ad allontanare la tristezza: Giancarlo Cerveri, psichiatra del Fatebenefratelli di Milano, ha confermato – citando vari studi – come la primavera porti beneficio soprattutto per chi soffre di “forme di depressione con un tipico andamento ciclico”, grazie a una maggiore esposizione alla luce solare, la quale provoca nel nostro organismo maggiore produzione di serotonina, che come è noto è un potente modulatore dell’umore, riducendo nel contempo la presenza di ormoni responsabili dello stress, nonché aumentando la produzione di vitamina D, che ha effetti benefici sul nostro corpo rinforzando le difese immunitarie, mediante un aumento della produzione di globuli bianchi e un miglioramento generale del metabolismo. E la luna? Oltre che riuscire ad alzare di metri il livello del mare, pare avere qualche influsso anche sulle piante, che pur non avendo ovviamente un complesso sistema nervoso centrale come gli animali, rispondono visibilmente ai cambiamenti dell’ambiente che le circonda. Ad esempio “cercano” la luce, in quanto massimizzare lo sfruttamento di essa per una pianta vuol dire vivere meglio e crescere più in fretta, e i riflessi luminosi lunari durante la fase di luna piena raggiungono un’intensità di 0.25 Lux, pari a una lampadina da 40 Watt posta a dieci metri di distanza; ma le piante sono sensibili anche alla gravità – quella terreste sicuramente, ma ricordate? Metri di mare su e giù ogni 6 ore… – come dimostrano i più recenti studi scientifici sul tropismo vegetale. La forma della pancia, la voglia di cibi particolari, malesseri gravidici più o meno forti: le credenze popolari che svelerebbero prima del tempo il sesso del nascituro sono tante e diverse, tramandate da una tradizione orale mai supportata da fondamenti scientifici. Tuttavia, nel caso di una recente ricerca, è proprio la scienza che identifica lo stress della futura mamma come indice dell’arrivo di un maschietto o di una femminuccia. Ad affermarlo uno studio pubblicato sulla rivista PNAS, the Proceedings of the National Academy of Sciences, e condotto presso la Columbia University Vagelos College of Physicians and Surgeons. La ricerca prevedeva un campione di 187 gestanti, tra i 18 ed i 45 anni, alle quali è stato misurato in modo “oggettivo” il livello di stress -sia fisico che mentale- utilizzando 24 indicatori diversi.Secondo i ricercatori il fenomeno si spiegherebbe a livello embrionale: gli embrioni maschi risultano più sensibili allo stress ambientale, mentre quelli femminili sarebbero più resistenti. Dunque, vi è più probabilità che nasca una bambina qualora la gestante fosse particolarmente stressata. Il 17% di loro soffriva di stress psicologico -ansia e depressione in particolare- e il 16% di stress fisico, con ipertensione o apporto calorico giornaliero molto elevato. La maggioranza, il 67%, si sentiva rilassato. Tutte le donne visitate durante i 9 mesi hanno poi riempito un questionario con 27 indicatori e sono state intervistate nuovamente dopo il parto. È emerso che in presenza di stress fisico (caratterizzato da indicatori quali un eccessivo introito calorico giornaliero o la pressione del sangue alterata) il rapporto tra i nati maschi e femmine è 4/9, in favore delle femmine; se lo stress è psicologico (caratterizzato, ad esempio, da disturbi depressivi e ansia) il rapporto è di 2 nati maschi ogni 3 femmine. La coordinatrice della ricerca Catherine Monk ha affermato che “L’utero materno è il primo ambiente ‘condizionante’. Ha la stessa importanza di quello in cui il figlio sarà allevato in futuro”, ricordando come questo fenomeno sia stato osservato anche dagli esperti di demografia, aggiungendo un dato significativo: “E’ stato evidenziato che nelle catastrofi storiche, come gli attentati terroristici dell’11 settembre, il numero di nati maschi è diminuito”.
Certamente non basterà una mela, per far riprendere queste mamme dallo stress del parto…ma certamente le manterrà più in salute. L’equipe di dietisti dell’Humanitas Gavazzeni di Milano sottolineano come la mela sia un frutto dalle capacità depurative, diuretiche – grazie all’elevata quantità di potassio che contiene – e regolatore dell’attività intestinale, poiché contiene fibre solubili e insolubili che regolano l’intestino contrastando problemi come la stitichezza o, a al contrario, la diarrea grazie alla presenza di tannino e alle pectine, che hanno proprietà astringenti e protettive. Inoltre, la presenza di vitamina PP nel frutto aiuta a regolare la permeabilità dei capillari e dei vasi linfatici, prevenendo malattie come l’aterosclerosi e l’infarto. É ricca di flavonoidi – composti con elevate capacità antiossidanti – che combattono la produzione di radicali liberi e, quindi, l’invecchiamento precoce. Nella polpa, poi, si trova anche il fitosterolo che contribuisce a bloccare l’assorbimento del colesterolo alimentare, abbassando nel sangue la quota di colesterolo cattivo. Una delle ultime ricerche coordinata dal Prof. Marco Romano, della Divisione di Gastroenterologia del Centro Interuniversitario per la Ricerca su Alimenti, Nutrizione e Apparato Digerente della II Università degli Studi di Napoli, infine, non esclude che mangiare 2 mele al giorno possa svolgere un’azione preventiva nell’insorgenza del tumore gastrico: i ricercatori hanno infatti dimostrato che somministrando per via orale estratti di mela Annurca, si avrebbe un significativo effetto protettivo a livello gastrico contro il danno indotto dai radicali liberi o dai farmaci anti-infiammatori, grazie al contenuto nella mela Annurca di composti anti-ossidanti quali catechina e acido clorogenico. E dopo aver contribuito a dare alla luce un pupo, i genitori non si “dimentichino” dell’importanza dell’amore l’uno per l’altro: gli studi scientifici dimostrano come un sentimento così piacevole come il sentirsi innamorati sia un potente immunostimolante, in grado di rafforzare il nostro sistema immunitario e incoraggiarlo a lavorare correttamente. L’innamoramento la fisiologia endocrina e nervosa, aumentando la produzione di ossitocina/vasopressina, che ci aiutano ad essere meno ansiosi, di feniletilamina, una vera e propria scarica positiva per l’organismo che così aumenta la quantità di ormoni sessuali, melatonina che aiuta il riposo e argina l’invecchiamento precoce, norepinefrina, che stimola l’attenzione, e dopamina, un neurotrasmettitore che ci rende più attivi ed euforici. Niente male, per quello che pareva essere solo uno stato dell’umore! E non discostandoci dalla cura degli infanti, i consigli alimentari delle nostre mamme e nonne non differiscono da ciò che divulgano gli studi delle scienze alimentari. Ad esempio il saggio ammonimento “mangia il pesce che ti fa bene” garantiva ai bambini di dormire meglio ed essere più intelligenti. A rivelarlo una ricerca svolta presso la University of Pennsylvania e pubblicata sulla rivista edita da Nature “Scientific Reports”. La ricerca infatti afferma che il consumo di pesce una volta a settimana nel piatto dei più piccoli migliora il sonno e potrebbe aumentare il quoziente intellettivo. In passato diversi studi hanno collegato la carenza di sonno a minori capacità cognitive nei bambini, nonché a disturbi anti-sociali. Altri studi hanno collegato il consumo di grassi omega-3, di cui è ricco il pesce, a migliore qualità del sonno e miglioramento dei disturbi anti-sociali. I ricercatori Usa in questo studio hanno voluto vedere se in qualche modo il pesce – proprio perché ricco di omega-3 – potesse rappresentare un fattore nutrizionale chiave per migliorare sonno e capacità mentali del bambino. La ricerca ha coinvolto 541 bambini di 9-11 anni in Cina, il 54% dei quali maschi. I bambini hanno compilato questionari alimentari per valutare la frequenza di consumo del pesce. I piccoli dovevano dire quante volte mangiassero il pesce, da circa una volta a settimana a mai o quasi mai. I rispettivi genitori nel frattempo hanno compilato un altro questionario, sulla qualità del sonno dei loro bambini, rispondendo a domande su durata del sonno, frequenza dei risvegli notturni, sonnolenza diurna. Infine i bambini sono stati sottoposti a un test classico per misurare il quoziente intellettivo. Ebbene, è emerso che i bimbi che dichiaravano di mangiare pesce almeno una volta a settimana (a parità di altri fattori influenti quali condizioni socioeconomiche della famiglia e livello di istruzione dei genitori) dormivano meglio e avevano in media 4,9 punti in più di quoziente intellettivo rispetto ai coetanei che non consumavano quasi mai il pesce. Secondo i ricercatori il nesso tra consumo di pesce e intelligenza passa proprio per gli effetti positivi esercitati dal consumo di questo alimento sul sonno che contribuirebbe, quindi, (attraverso il suo contenuto in omega-3) a un migliore sviluppo cognitivo.
E ancora, come non dare ascolto alle nonne? il brodo di pollo, una “coccola” nelle fredde giornate invernali, può essere anche una vera e propria “medicina” in caso di raffreddore. Ha infatti un effetto antinfiammatorio, che può alleviare le infezioni delle alte vite respiratorie. A evidenziarlo è uno studio del Nebraska Medical Center di Omaha, negli Usa, pubblicato sulla rivista Chest. Gli studiosi hanno preso in esame specificamente il movimento dei neutrofili – un tipo di globuli bianchi nel sangue, scoprendo che tale movimento risultava ridotto in presenza del brodo di pollo, cosa che suggerisce un possibile meccanismo anti-infiammatorio che potrebbe almeno teoricamente alleviare i sintomi del raffreddore. Infatti, la riduzione del movimento dei neutrofili potrebbe ridurre l’attività nel tratto respiratorio superiore che causa sintomi simili a questo così diffuso malanno di stagione. Lo studio è stato condotto in laboratorio e non sull’uomo, perciò gli studiosi avvertono che resta da vedere se si possano assorbire le sostanze che sembrano avere effetti benefici in laboratorio. Tuttavia, può valere la pena di provare: la versione dell’autore dello studio Stephen Rennard include gallina stufata, una confezione di ali di pollo, 3 cipolle, 1 patata dolce grande, 3 pastinaca, 2 rape, 11 o 12 carote, 6 gambi di sedano, un mazzetto di prezzemolo, sale e pepe a piacere. Anche un altro studio, condotto diversi anni fa, aveva riscontrato dei benefici del brodo di pollo (anche grazie all’aroma e alle spezie) nel riuscire a “pulire” le cavità nasali. Tranquillizziamo anche i fan di Wired, i quali probabilmente già invocavano l’arresto per abuso di professione medica: che la pianta del tasso abbia proprietà antitumorali non lo dice chi scrive, bensì il Dott. Maurizio Grandi, oncologo italiano di fama internazionale, che cita ricerche pubblicate su Journal of American Chemical Society: il tassolo è un metabolita con un’efficacia statisticamente significativa, che si esplica nella fase mitotica attraverso l’inibizione della depolimerizzazione dei microtubuli, strutture intracellulari costituite da una classe di proteine chiamate “tubuline”. Al di là dei tecnicismi propri del linguaggio dei ricercatori, è scientificamente dimostrato che questo principio attivo – sia quello “naturale” che l’omologo sintetizzato il laboratorio – è utile per integrare terapie anti-tumorali per varie neoplasie, come canciroma ovarico, tumore mammario e melanoma. Che dire poi di quei malesseri generalizzati forse dovuti allo stress? C’è chi corre dal medico, e chi si attacca alle cuffie, avendone ben d’onde. Da Beethoven ai Led Zeppelin, ascoltare la musica preferita fa innescare il meccanismo di rilascio della dopamina, e induce il cervello a rilasciare maggiori quantità di quell’ormone, che genera a sua volta sensazioni di benessere, come ha confermato uno studio scientifico della McGill University di Montreal pubblicato su Nature Neuroscience, che ha utilizzato scanner cerebrali su persone all’ascolto della loro musica preferita paragonando i dati con quando i medesimi soggetti ascoltavano la musica preferita da qualcun altro. Inoltre, la musica può essere un’efficace terapia analgesica, aiutando a ridurre il dolore cronico postoperatorio, come conferma un articolo su Journal Advanced Nursing, ed è efficace come i farmaci ansiolitici: uno studio pubblicato sulla Revista Espanola de Anestesiologia y Reanimacion, ha evidenziato come a metà dei pazienti sottoposti ad operazioni chirurgiche sia stato assegnato l’ascolto della loro musica preferita e a metà l’assunzione di farmaci ansiolitici, mentre gli scienziati registravano i dati relativi all’ansietà e ai livelli dell’ormone umano dello stress, il cortisolo, con il risultato che i pazienti che ascoltavano musica avevano la stessa diminuzione dell’ansia e livelli di cortisolo rispetto a quelli trattati con i farmaci, con buona pace dei produttori di ansiolitici, ai quali suggeriamo dosi massicce di… musica.
L’arte e la cultura fanno bene alla salute. Questo in Canada sembra un concetto largamente accolto dalla comunità scientifica. Il primo novembre dello scorso anno, infatti, è stato dato il via alla prima iniziativa al mondo che permette ai medici di prescrivere una visita al museo come terapia per malattie del corpo e della mente. “Ci sono sempre più prove scientifiche del fatto che la terapia dell’arte fa bene alla salute fisica”, ha dichiarato la dott.ssa Hélène Boyer, vicepresidente dei Medici francofoni del Canada e capo del gruppo di medicina di famiglia presso il CLSC St-Louis-du-Parc. “Aumenta il nostro livello di cortisolo e il nostro livello di serotonina. Quando visitiamo un museo secerniamo ormoni e questi ormoni sono responsabili del nostro benessere. Le persone tendono a pensare che questo sia positivo solo per problemi di salute mentale. Che questo sia utile solo per le persone che sono depresse o che hanno problemi di tipo psicologico. Ma non è così. È buono per i pazienti con diabete, per i pazienti in cure palliative, per le persone con malattie croniche. Dagli anni ’80 prescriviamo esercizi per i nostri pazienti perché sappiamo che l’esercizio aumenta esattamente gli stessi ormoni. Ma quando ho pazienti con più di 80 anni, ovviamente non posso prescrivere un esercizio per loro “.Il Montreal Museum of Fine Arts ha dato via ad un progetto pilota che dal novembre 2018 permette ai medici che sono membri di Médecins francophones du Canada di inviare pazienti in visita al MMFA, consentendo agli ammalati, accompagnati da operatori sanitari o familiari, di godere della salute e dei benefici di un viaggio nell’arte. A ciascuno dei medici sono consentite fino a 50 prescrizioni museali nel corso del progetto pilota. Ogni prescrizione consentirà l’ingresso per un massimo di due adulti e due bambini di età pari o inferiore a 17 anni e sarà utilizzato per affrontare un’ampia varietà di problemi fisici e di salute mentale. “L’idea è quella di migliorare il ‘benessere emotivo’ dei pazienti facendo appello alla loro sensibilità artistica”, spiega Nathalie Bondil, direttore generale del Museo delle Belle Arti di Montreal, “La nuova frontiera della cultura nel ventunesimo secolo è fare quello che le attività fisiche hanno fatto per la salute dell’uomo nei secoli passati”. In ultimo, anche se potrà generare stress ai più ortodossi, sottolineiamo come almeno un vantaggio la “fede” lo dia: l’incenso in effetti cura le infiammazioni, a prescindere dall’opinione dei saccenti utenti del web che non più tardi di pochi giorni fa si sono scatenati in un thread di discussione su una nota pagina Facebook “anti-complotto”, dando del ciarlatano a un utente che ne aveva raccomandato l’uso. Gli acidi boswellici contenuti nell’incenso, infatti, interagiscono con diverse differenti proteine che fanno parte delle reazioni infiammatorie, ma soprattutto con un enzima che è responsabile della sintesi della prostaglandina E2. Se questo articolo vi ha disorientato, ricordatevi che la notte porta consiglio: potete dormirci sopra e rileggerlo domani. Risolvere di mattina un problema lasciato in sospeso la sera precedente, infatti, è un’esperienza comune, come sottolinea il noto precitato proverbio. “Questo detto popolare corrisponde decisamente al vero”, ha spiegato Angelo Gemignani, dell’Istituto di Fisiologia Clinica del CNR. “Un esperimento pubblicato su ‘Nature’ ha dimostrato che il sonno facilita in modo significativo le capacità di intuito: una notte di sonno, rispetto a un periodo di uguale durata di veglia, agevola nel 60% dei soggetti sottoposti a test la risoluzione precoce di un semplice problema”, e uno studio pubblicato su ‘Biological Psychiatry’ ha rilevato un meccanismo analogo nel caso di ricordi emozionali. “Gli autori hanno ipotizzato che il REM, la fase del sonno in cui si sogna, possa favorire a livello cerebrale un ambiente fisiologico ideale per il miglioramento delle connessioni neurali alla base della memoria emozionale”, conclude il ricercatore.
Per concludere la nostra analisi – anche alla luce delle riflessioni che quanto abbiamo illustrato sopra dovrebbero aver stimolato – occorre a questo punto riflettere sul ruolo della comunicazione in scienza, e sul corretto atteggiamento da tenere per chi ha l’ambizione di rivestire il ruolo del “divulgatore”. Per farlo, torniamo per un attimo all’Inghilterra della Thatcher, anni caratterizzati da crisi economica, malcontento popolare e rifiuto delle “elites”, incluse quelle scientifiche. Come ci ricorda un bell’articolo del medico e pubblicista Roberta Villa pubblicato sull’edizione italiana di Wired, in quel contesto, gli scienziati capirono “quanto poteva essere importante uscire dai loro laboratori ed entrare in contatto con la società, e lo fecero nel modo al loro più consono: mettendosi in cattedra”. Nel 1985, la Royal Society, che riunisce la crème del mondo scientifico di Oltremanica, produsse un documento intitolato The Public Understanding of Science. In 46 pagine di analisi e proposte concrete, il testo rifletteva le basi dell’approccio che negli anni successivi avrebbe dominato la comunicazione della scienza: il cosiddetto deficit model. Secondo questa teoria piuttosto datata, che oggi, dopo oltre trent’anni, qualcuno in Italia vorrebbe rispolverare, l’ostilità di parte del pubblico nei confronti di alcuni avanzamenti della scienza dipenderebbe dalla mancanza delle informazioni necessarie per comprenderla e apprezzarla: “se i ricercatori, la scuola, i media, gliele fornissero – scrive la Villa – la gente imparerebbe ad apprezzare il valore culturale della scienza, non meno che dell’arte o della letteratura, tutti acquisirebbero una conoscenza sufficiente per condividere e sostenere le richieste dei ricercatori, anche a livello politico, i finanziamenti alla ricerca finalmente aumenterebbero. Nei campi in cui queste nozioni hanno poi un impatto sulla vita concreta delle persone, dalla salute all’agricoltura, dalla chimica all’ambiente, colmare il gap tra esperti e gente comune dovrebbe bastare a far cambiare anche i comportamenti, sulla base delle nuove nozioni acquisite“. Nel tempo però, è apparso evidente che le cose sono un po’ più complicate di così. Le informazioni che riceviamo sono infatti accolte ed elaborate in maniera differente anche in relazione al nostro background culturale e sociale, al nostro sistema di valori e credenze, alle esperienze che ciascuno di noi ha avuto direttamente, di cui è stato testimone, o che gli sono state raccontate. Ogni comunicatore – in particolare se si occupa di scienza – sa bene che di tutte queste cose deve tenere conto, adeguando il messaggio e il suo tono al target che desidera raggiungere e al canale che sta utilizzando. “Mettersi in cattedra”, quindi, può andar bene in un’aula universitaria, dinnanzi a studenti che per il semplice fatto di essere lì riconoscono al professore un’autorità e un potere, ovvero questo approccio dall’alto al basso può essere rassicurante per persone confuse e con pochi strumenti culturali, che trovano un punto di riferimento forte a cui affidarsi; ma per contro può diventare invece controproducente se si ha a che fare con un pubblico più colto e mediamente preparato, come molti dei genitori che, proprio per aver cercato di informarsi il più possibile per valutare le scelte sanitarie più opportune per i propri figli, “sono incappati in fonti inattendibili che hanno instillato in loro dubbi o paure”, come ci ricorda sempre Villa nel suo articolo.
Andrea Grignolio, storico della medicina, nel suo libro “Chi ha paura dei vaccini?” porta a riflettere su quante circostanze sociali e individuali, oltre ai bias neurocognitivi, hanno favorito la diffusione di atteggiamenti esitanti nei confronti delle vaccinazioni. Se un genitore ha timori profondi legati a una sua alterata percezione del rischio, ad esempio in seguito a scandali che hanno realmente coinvolto aziende farmaceutiche oppure rappresentanti di istituzioni sanitarie che si sono rivelate corrotte, ha perso fiducia in queste autorità; oppure se è rimasto segnato dal racconto o dall’esperienza personale di una disabilità erroneamente attribuita a una vaccinazione, non sarà certo facendogli una lezione di immunologia, deridendolo o insultandolo che gli si potrà fare cambiare idea. “Le evidenze – aveva dichiarato a Wired proprio Grignolio in un’intervista – ci dicono che sfidare le persone esitanti o contrarie ai vaccini non serve, come accennato sopra: il rischio è quello di radicalizzare le posizioni contrarie. Limitarsi a dire “Non è così, io ho ragione e tu torto”, è sbagliato, rischia di diventare uno scontro di identità in cui le nuove informazioni non fanno che aumentare le posizioni contrarie”.La sfida, molto più difficile, consiste quindi nel fornire a chiunque, in relazione alle sue possibilità, gli strumenti per fare scelte consapevoli e, possibilmente, scientificamente fondate: questo è l’empowerment del cittadino e del paziente, un nuovo modello, che prevede il coinvolgimento del pubblico non più visto come un “contraltare passivo” da riempire di informazioni, ma come un interlocutore attivo, con il quale interagire a vantaggio di entrambe le parti. Queste considerazioni sanciscono il passaggio dal vecchio modello PUS al nuovo modello PEST: Public Engagement with Science and Technology. “Si tratta di un cambiamento totale di prospettiva”, sostiene giustamente Villa, che vede comuni cittadini collaborare con i ricercatori (potremmo definirli – in modo forse originale ma ben centrato – “citizen science”?) e i pazienti poter dire la loro negli indirizzi di ricerca degli scienziati, nient’altro, in fondo, che “un’estensione di quella multidisciplinarietà che ha portato fisici, ingegneri ma perfino filosofi nei laboratori di biologia molecolare, con la consapevolezza che chiunque può essere portatore di un piccolo pezzo del puzzle della conoscenza umana, di cui sarebbe un peccato privarsi”. A sancire questo cambio di rotta è arrivato nel 2017 il documento della National Academies of Sciences, Engineering and Medicine statunitense, un’agenda, concordata da scienziati e comunicatori della scienza, che parte da un punto fermo: la comunicazione della scienza è un compito complesso, non riducibile alla dinamica «Se la pensi diversamente da me che sono un esperto sei solo un ignorante». Tutto ciò dimostra la fallacia del metodo Burioni secondo cui “La scienza non è democratica”. In questo caso si confonde la democrazia come processo elettorale, con la democrazia come partecipazione comunitaria. Come scrive il giornalista scientifico Pietro Greco, “La società della conoscenza è caratterizzata dall’espansione della scienza e dall’espansione della democrazia, in un processo in cui le due dimensioni non sono più separate”. E aggiunge: “La scienza, anche in termini epistemologici, ha valori intrinsecamente democratici. Fin dalla rivoluzione del Seicento, i membri della comunità scientifica raggiungono un consenso razionale di opinione intorno ai fatti osservati nel mondo”. Per dirla con le parole di Jane Gregory, della London University: “Il pubblico ci ha insegnato una lezione utile rifiutando di cooperare con scienziati che li trattavano come idioti. È un peccato che così tanti dei nostri scienziati di spicco abbiano causato così tanta irritazione tra persone precedentemente amichevoli verso la scienza. Molti di noi che lavorano in questo campo in Gran Bretagna sperano che il recente rapporto della Camera dei Lord renderà gli scienziati consapevoli del fatto che devono guadagnare il loro posto come una delle tante autorità della società. È tempo di riconoscere che la nostra prima enfasi sull’apprendimento pubblico da parte degli scienziati era fuori luogo e che ciò di cui abbiamo bisogno è che gli scienziati imparino dalle persone” Quindi, se volete evitare di fare la figura degli utili idioti al servizio di un certo ottuso mainstream, invece di abbracciare la “dottrina Burioni” insultando chi si permette di contraddirvi, o di deridere con supponenza degli altri cittadini sui social o nello spazio commenti di qualche tronfio giornale divulgativo con ambizioni da pubblicazione scientifica, fate una lunga passeggiata nel bosco, mangiando mele ed ascoltando musica, e forse, d’improvviso, vi coglierà una soprannaturale illuminazione: non tutto ciò che ignorate va gettato nella spazzatura. Bibliografia e sitografia Beck M. 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