Personaggi

Come diventai Direttore

Stampa E-mail
02 Luglio 2012

L’attore Renato Liprandi

Ritratto inedito di Renato Liprandi, il “direttore De Marinis” della fortunata sitcom “Camera Café”


Renato Liprandi è un attore eclettico che passa con disinvoltura dalle parti comiche a quelle drammatiche, e si divide tra teatro, cinema e televisione. Negli ultimi anni ha intrapreso anche la carriera di scrittore. Il ruolo che lo ha fatto conoscere al grande pubblico è quello del direttore De Marinis della sitcom Camera Café andata in onda con grande successo su Italia Uno per nove anni consecutivi dal 2003.

Dal nostro incontro con Liprandi emerge un personaggio inedito, con mille sfaccettature, perennemente in bilico tra ironia, pragmatismo, dimensioni surreali e interrogativi esistenziali.


Renato, come fai a ringiovanire anziché invecchiare?

In soffitta ho un ritratto, e ho trovato il modo di rimanere giovane: mentre io ringiovanisco, il ritratto invecchia e s'imbruttisce sempre di più (parafrasando “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde-NdR).


Nella tua carriera ultradecennale hai interpretato molti ruoli importanti, sia per il Teatro che per il Cinema. Eppure vieni ricordato soprattutto per un ruolo, quello di Augusto De Marinis della sitcom Camera Café. Non è assurdo?

In effetti è così, è il potere mediatico della televisione. Se fai una cosa, anche piccola, ottieni molto più successo che in importanti ruoli teatrali o cinematografici. Mi era già capitato diversi anni fa, quando avevo fatto una pubblicità per un mobilificio. La gente mi fermava per strada anche se dal punto di vista artistico era una banalità.


Parlaci di qualche tua esperienza personale che ti ha colpito.

Da due o tre mesi mi capita di vivere dei déjà-vu molto lunghi, della durata di tre-quattro minuti, momenti in cui non riesco a capire dove sono. Questo mi fa riflettere. Mi viene il dubbio che, un po’ come nel film Matrix, magari siamo delle pedine di sogni di altri individui più elevati di noi, più evoluti di noi.



Il libro di Liprandi presentato al Salone Internazionale del Libro di Torino 2012

Dove siamo, nel senso cosmico? Dove ci collochiamo? Che cos'è questa roba strana che chiamiamo esistenza?

Una cosa certa è che siamo qui per esaudire la nostra vita, per risolvere la nostra vita. Quando guardo un libro che aveva scritto una mia amica che purtroppo è morta prematuramente, l’attrice Stella Bevilacqua, che era stata anche mia allieva, guardo la copertina con la sua foto... poi penso a un mio amico che purtroppo si è ammalato di SLA, e vive una vita di “m”... e mi chiedo che senso abbia tutto questo. Eppure lui è riuscito a scrivere un libro e ha un'attività straordinaria. Per cui: “Dove siamo?” Siamo qui e cerchiamo di vivere il meglio possibile per chi ci sta intorno. Poi, che significato abbia tutto questo... io ormai le reminiscenze religiose le ho lasciate al passato, per cui non do significati religiosi.


A proposito di quei momenti particolari, i déjà-vu...

Li ho sempre avuti, ma duravano qualche secondo. Ho sempre pensato che il déjà-vu sia una sensazione che hai in quel momento e che tu credi di aver già vissuto, ma in realtà rivivi una sensazione, non la forma del vissuto. Invece ultimamente ne ho avuti due che sono durati tre o quattro minuti, è moltissimo, per cui non riuscivo a capire se quello che vedevo, o immaginavo, erano ricordi di sogni già fatti (io sogno sempre parecchio, e sono sogni abbastanza inquietanti), oppure erano dei momenti che ho vissuto veramente. Questo mi creava una situazione di sconforto, o meglio di disorientamento. Era al contempo una esperienza bellissima ma inafferrabile. Ti chiedi: “l’ho già vissuta questa sensazione? quando, dove?” E non riesco a fissarla. Probabilmente erano dei sogni, ma talmente forti che sembravano veri. Mi do questa spiegazione.


È una spiegazione che dai con la logica. Questi momenti fuori dall’ordinario, non trovi che portino, al di là del disorientamento, anche una sensazione di libertà da una fissità eccessiva della nostra vita? Che ti portino ad astrarti, un po' come il vento che scuote tutte le cose.

Il vento mescola anche i ricordi, porta i ricordi e li allontana. È abbastanza nostalgico, anche se comunque a me dà forza. Avendo fatto alpinismo per anni il vento è sempre stato una forza da vincere e nello stesso tempo da assorbire per poter avere più forza.


Danzare con lui.

Danzare col vento, sì.



Renato Liprandi nel ruolo del direttore De Marinis interpretato per nove anni nella fortunata serie televisiva Camera Café

Hai qualche guru o prete di riferimento?

No, prete no. Come ho già detto più volte, il rapporto con la religione l'ho risolto diversi anni fa. Non sono religioso secondo il punto di vista della religione ufficiale. Sono stato battezzato, comunione e tutto il resto. Il rosario al venerdì sera con la nonna e via discorrendo, poi a un certo punto è avvenuto un rifiuto completo, perché andare in chiesa per me era diventato un tedio, una noia, non lo sopportavo più, per cui non ho questi agganci. L'unico aggancio è vedere un albero, il vento, la natura: questo è un riferimento ancora molto forte che d'altra parte credo sia l'unico che valga la pena di coltivare.


Quali sono le esperienze notevoli della tua carriera, le cose che ti ricordi con maggior piacere?

Io dico sempre che avrei potuto fare molto di più. Però avrei potuto fare anche molto di meno! Chiaramente Camera Café rimane sempre l’esperienza più importante perché mi ha dato la notorietà ed è stato un grosso lavoro, durato ormai nell'arco di nove anni. Abbiamo cominciato nel 2003, l'anno scorso abbiamo fatto altri trecento episodi e quest'anno davano ancora le repliche. E poi, più che altro mi piace ricordare i lavori teatrali, il monologo di Kafka e altri personaggi che ho fatto teatralmente, perché i lavori televisivi alla fine non è che ti lasciano molto il segno, se non questo De Marinis che è veramente notevole. E ancora, le cose scritte e messe in scena da me, come il monologo “Mi devo suicidare”, un monologo comico. Scrivere e poi mettere in atto dà grandi soddisfazioni. L'ho fatto per spettacoli per bambini e per spettacoli con altre persone, in cui ho scritto, diretto e interpretato.


Parliamo di Liprandi scrittore. Al Salone Internazionale del Libro di Torino presentavi il tuo ultimo libro, “Come diventai direttore”.

Sì, è sempre sulla figura di De Marinis. L'ho scritto come monologo teatrale, infatti la dinamica è spezzettata, senza soluzione di continuità, si passa subito da un argomento all'altro. È un po' l'autobiografia della mia vita lavorativa, dai quindici anni, quando ho cominciato a lavorare in fabbrica come impiegato d'officina, fino ai giorni nostri, nel senso che non sono mai diventato direttore nella vita reale, anche perché non volevo diventarlo, perché non ho nessuna velleità al comando, però lo sono diventato nella fiction, sia come De Marinis, sia poi anche in altri personaggi che ho interpretato in film o telefilm, dove io faccio sempre la parte dell'autorità. Associati a questa autobiografia racconto aneddoti vari di vita lavorativa, anche abbastanza duri, perché i primi tempi lavoravo in una fabbrica dove, purtroppo, succedevano incidenti molto gravi, mani tranciate e via discorrendo. Questa è la prima parte, un po' cruda, e poi c'è tutta un'ironia sulle varie forme di autorità, dall'arbitro di calcio, al rapporto cliente-negoziante, al medico: quando si va a parlare col medico e c'è un rapporto di remissività nei suoi confronti, in quanto in quel momento esercita un potere. C'è un po' di tutto questo.



L’attore a Radio Flash, storica emittente radiofonica piemontese

Tu non cerchi l'autorità ma questa parte ti riesce molto bene. Come mai?

Perché viene fuori la parte inconscia, è il contrappasso, come ho detto anche nel mio libro. Tutto sommato, evidentemente, nonostante io non abbia mai voluto comandare, c'è la parte di me che invece viene fuori e comanda.


A proposito di cose strane, recentemente sei stato dichiarato morto.

È successo il 2 giugno, stavo guardando un bellissimo film. Vado al computer per leggere la posta, guardo Facebook e stranamente vedo che le richieste di amicizia erano trecento. Tutti mi chiedevano se ero davvero morto. Vado su Wikipedia e scopro che nella mia biografia c’è scritto: “nato il 12 dicembre 1949, morto il 2 giugno – a Milano tra l'altro – 2012”.


Quindi eri appena morto!

Hanno cominciato le telefonate, ho dovuto rispondere a un sacco di persone, hanno dato la notizia anche sul TGCom e al TG5. Mi hanno scritto moltissime persone da tutto il mondo, da Sharm El Sheik, da Londra, oltre che da tutta Italia. Un mio amico e collega di Camera Café, Carlo Gabardini (che interpreta Olmo) mi ha telefonato tutto tremante. Erano le cinque, prima che finisse il 2 giugno c'erano ancora sette ore... non ero molto tranquillo.



La commedia “Mi devo suicidare” scritta, diretta e interpretata da Renato Liprandi

E invece sei vivo...
Riprendendo il discorso di prima, magari sono un déjà-vu di me stesso...


Raccontaci qualche aneddoto della tua carriera.

Più che aneddoti direi dei fatti. Un fatto che cito anche nel libro è quando mi fermano per strada e vogliono farsi dare del cretino. In Camera Café De Marinis pronuncia sempre la frase “lei è un cretino!” Una volta a Milano, in stazione, un signore con le stampelle mi segue, arrivato all'atrio sento sempre che mi sta inseguendo facendo un rumore di stampelle un po’ inquietante. Poi mi raggiunge, mi ferma e dice: “scusi, per favore, mi può dare del cretino?” Allora gli chiedo: “come si chiama?” “Giulio”. “Giulio, lei è un CRETINO!”. “Grazie!” e se ne va via contento...


Attualmente stai portando con successo in Teatro “La zia è qui”. Ce ne vuoi parlare?
“La zia è qui” è uno spettacolo teatrale nato diversi anni fa, l'abbiamo poi ripreso con Riccardo Pellegrini, che è anche il cantante della Strana Società, un gruppo musicale che era famoso negli anni '70. Si tratta di tre situazioni, la prima si svolge in uno studio medico e la scena è imperniata su un equivoco: il medico crede che il paziente parli di se stesso, in realtà parla della zia. Per cui c'è questo rapporto un po' schizoide con il medico che crede che il malato sia lui, invece in realtà è la zia. La seconda situazione si svolge nell’atelier di un pittore che cerca di vendere delle croste a un avventore, in realtà questi non le compra, ma si finge scultore e cerca di vendere a sua volta le sue croste. C'è un finale a sorpresa. La terza parte è un'ironia sui corsi in generale: corso di pilates, di yoga, di hip-hop, corsi per qualunque cosa. Sembrano tre storie scollegate, ma un filo diretto c’è ed è quello del ribaltamento delle situazioni.

Recitare è catartico? Entrare e uscire da un personaggio, interpretare ruoli diversi, significa anche un po’ uscire da se stessi, dal personaggio che si recita ogni giorno, no?

Sì, inizialmente credo che sia questo, l’attore lo fa per se stesso, perché vuole esprimersi, ed è anche terapeutico. Io stesso quando ho cominciato l’ho fatto anche per vincere la timidezza. Poi avviene un passaggio e diventa mestiere. L'interpretazione e lo studio dei personaggi diventano un lavoro, soprattutto quando cominci a recitare con una compagnia e devi vendere lo spettacolo.



Rosalba Nattero intervista Renato Liprandi nella trasmissione di Radio Flash “Nel Segno del Graal”

Però devi per forza uscire da te stesso, dal tuo solito personaggio, per entrare in un altro.
In teoria è così, perché un attore non può recitare se stesso. Se tu interpreti Otello o Amleto non è che fai te stesso. Ho interpretato dei personaggi per i quali ho studiato secondo l'insegnamento di Stanislavskij, che era quello di studiare il personaggio così come l'ha scritto l'autore, poi come lo vede il regista, e infine tu devi creare il personaggio, che sarà filtrato secondo la tua sensibilità, quindi devi studiare il personaggio in funzione di quello che è stato il tuo vissuto. Per fare un esempio, se devo interpretare un personaggio che uccide una persona, chiaramente io non ho mai ucciso nessuno, ma magari avrò pensato di massacrare qualcuno! Per cui, dovrò andare a ricercare quelle che sono state le mie emozioni e le mie fantasie che si avvicinano a quella sensazione.

C’è anche un po' una mitizzazione sul fatto che l'attore a un certo punto va fuori, non è più se stesso, ma sono solo ipotesi. In realtà si mantiene il controllo di se stessi. Tuttavia l’attore che recita solo per mestiere, che non mette l'anima, come certi attori che fanno rappresentazioni e testi diversi ma sempre con lo stesso personaggio, non ha molte soddisfazioni. Meglio cercare di differenziare, di calarsi in situazioni diverse.


Il tuo rapporto con la montagna.

Fin da bambino mi piaceva scrivere e ho fatto il diario di tutte le scalate in montagna. A proposito di montagna, recentemente ho scritto il racconto “Una scalata fantastica”, un racconto surreale, anche abbastanza autobiografico per quanto riguarda il rapporto con la montagna. Due alpinisti vengono travolti da una valanga, si sperdono, e uno di questi, il protagonista, incontra un viaggiatore errante su un barcone, una specie di Caronte, che lo porta nel regno delle gocce di fuoco. E qui nasce tutta una visione della montagna, piuttosto surreale.


La passione per l’alpinismo ha accompagnato la vita di Renato Liprandi

C'è l'organo delle stalagmiti di ghiaccio, un organo fatto di stalagmiti che suona da solo; c'è il camaleonte-insetto invisibile, un insetto che prende colore a seconda di dove si posa. Tutta una serie di situazioni. Allora il protagonista riesce a capire che fino a quel momento era andato in montagna solamente per collezionare cime. Come dicevo, è autobiografico: io e i miei amici andavamo in montagna e poi scrivevamo la statistica delle cime e delle modalità di scalata. Il protagonista invece arriva a vedere la montagna da un punto di vista più intimo e più umano, a entrare più nell'intimità della montagna.


Probabilmente anche a te, come a molti, la montagna non attira solo per una questione di vita sana, di movimento, ma anche per qualcos'altro. Ci hai trovato qualcos'altro in questo rapporto?
Sì, infatti nel mio racconto ho fatto risaltare più che altro il rapporto della concezione consumistica della montagna che avevamo io, mio fratello, i nostri amici. Si andava in montagna per il piacere di andarci, ma anche per il numero: quanti quattromila, quanti tremila, e così via. Ma c’è un altro piacere, il piacere puro della montagna, con tutte le sue atmosfere che, per quanto lo apprezzassimo, molte volte veniva un po' soffocato e mitigato dall'altro aspetto, dal raggiungere la cima a tutti i costi. La montagna è qualcosa di estremamente affascinante, basti pensare all'alba, coi ghiacciai che si indorano, che diventano rossi... Poi ci sono gli animali, camosci, stambecchi, che hanno una loro dimensione quasi staccata, come se fossero degli esseri soprannaturali che vivono in modo completamente diverso da noi. La nebbia ad esempio ha il potere di stravolgere le dimensioni. Cose che ti sembrano distanti, magari scopri che sono vicinissime. E poi ci sono tutta una serie di rumori impercettibili, lo scricchiolio delle pietre o il ghiacciaio che si rompe. Tutte cose che, se si riesce a captarle e a percepirle, ti fanno entrare in una dimensione diversa.


Si ritorna al discorso iniziale: il rapporto con la natura, forse l'unica maestra, l'unico insegnamento che possiamo trarre per la nostra vita.
È l'unico aggancio che possiamo avere, l’unica certezza. Quando siamo preoccupati, disperati, e magari capita come stasera che c'è questo vento fantastico, lo stormire delle foglie... ti senti appagato e subentra la tranquillità. Siamo continuamente bombardati, ogni giorno, da giornali e TV con la politica, la guerra in Siria, il terremoto, e ti vengono anche i sensi di colpa, ti senti impotente e ti chiedi “cosa posso fare?” E allora è giusto ogni tanto sganciarsi e immergersi nella natura. Non è la sola risposta alla vita, perché la vita è fatta anche di lavoro, di rapporti con gli altri individui, però ci vuole anche questo.

 

Seguici su:

Seguici su Facebook Seguici su YouTube