Misteri |
L’inferno musicale di Hieronymus Bosch |
16 Ottobre 2020 | ||||||||||||
Il Trittico delle delizie tra iconologia e mistero
L’opera pittorica di Hieronymus Bosch ('s-Hertogenbosch, 2 ottobre 1453 – 's-Hertogenbosch, 9 agosto 1516) costituisce un enigma da molti punti di vista: a mettere in crisi l’osservatore, sia esso studioso o cultore, è la ricerca delle fonti di Bosch e soprattutto le loro relazioni con il mondo interiore di questo straordinario artista, ancora imbevuto di cultura medievale. Una cultura che quando a ‘s-Hertogenbosch (Bois-le-Duc) nel Brabante olandese, vide la luce Jeroen Anthoniszoon van Aken, che da adulto sceglierà lo pseudonimo Hieronymus Bosch, riverberava ancora nella quotidianità di una popolazione che aveva ben vivo il ricordo di epidemie, invasioni, lotte di religioni, distruzioni, sofferenze e roghi. Un universo che ci sembra di vedere, trasfigurato con il meccanismo del simbolo e dell’allegoria, nelle opere di Bosch: soprattutto in quel mare magnum di esseri ora impossibili, ora improbabili, che popolano le sue opere più emblematiche. Chi scrive, si occupa da molti anni di Bosch, prima come semplice appassionato, poi la relazione si è fatta stretta e Hieronymus è entrato a far parte della mia attività didattica, pur marginalmente, per le sue implicazioni antropologiche. A questo affascinate personaggio ho dedicato due piccoli studi: la lettura di uno di questi ha suggerito al Direttore editoriale la possibilità di effettuare approfondimento su un aspetto apparentemente minimo della pala di destra del “Trittico delle delizie” ma, come spero di riuscire a indicare, ricco di stimolanti occasioni di approfondimento. Nello specifico si tratta del cosiddetto “Inferno musicale”, che appunto si trova nella parte bassa della suddetta pala. Per effettuare questa nostra incursione bypasseremo la biografia e l’opera di Bosch – salvo eventuali richiami necessari all’approfondimento – ma anche la descrizione del trittico che, come sarà noto a quanti hanno avuto di osservarlo solo di sfuggita, costituisce un universo di simboli la cui analisi e descrizione, ma soprattutto le relazioni tra le parti, non solo richiede molto spazio, ma ci lascia insoddisfatti, poiché manca sempre qualche tassello per poter dire conclusa la nostra interpretazione. Insomma non si raggiunge mai una soluzione definitiva sul piano del significato: questo, secondo il nostro punto di vista, è il vero mistero di Bosch. Comunque, prima di entrare nel merito del tema sono necessarie alcune brevi notizie sul “Trittico delle delizie” noto, al suo tempo, come il “Quadro delle fragole”: epiteto creato da José de Sigüenza (1544-1606), teologo e storico spagnolo, autore della Storia dell'Ordine di San Gerolamo. Lo studioso escluse che il complesso figurativo di Bosch caratterizzante il trittico fosse collegato a un progetto eretico, satanista o occultistico, suggerì invece la possibilità avesse sostanzialmente una funzione moralistica, esprimendo in chiave satirica i vizi, le vergogne e i peccati dell’umanità. Felipe de Guevara (1500-1563), grande estimatore del pittore, nella sua opera Comentarios de la Pintura (1560) poneva in evidenza che tra le fonti di Bosch dovevano essere posti i cosiddetti “grilli”: figure ibride provenienti dal mondo classico, poi entrati a far parte del corpus “demoniaco” dell’arte medievale e trovando ampie affermazioni dalla miniatura alla scultura. Jurgis Baltrušaitis (1903-1988) ha dedicato a queste figure pagine fondamentali, che ci consentono di pensare anche al legame, non documentato nelle fonti ma certamente non assente, tra Bosch e la miniatura. L’opera conosciuta come “Trittico (o Giardino) delle delizie” è una pittura a olio su tavola (1480/1503) che misura 220 centimetri di altezza per 389 centimetri di larghezza; è conservata al Museo del Prado di Madrid e può essere considerata la realizzazione emblematica dell’artista più visionario dell’Antirinascimento. Si ritiene che quest’opera sia stata dipinta in occasione delle nozze di Enrico III di Nassau-Breda e concepita come una sorta “specchio nuziale”: una specie di guida al buon esito all’unione e nello stesso tempo un modo per focalizzarne sulle luci e i pericoli. Sugli scomparti esterni è dipinta “La creazione del mondo”; all’interno dello scomparto di sinistra vi è “Il paradiso terrestre”; in quello di destra “L’inferno musicale” e in quello centrale “Il giardino delle delizie”. Passiamo quindi alla descrizione de “L’inferno musicale”. Se osserviamo complessivamente la pala, effettuando una rapida scansione, dall’alto al basso, constatiamo subito che dal fondale un’orda di dannati e loro tormentatori si rastrema verso il basso, ponendo in evidenza, con cura macroscopica, le pene a cui sono sottoposti i peccatori. Anche in questa parte del “Trittico delle delizie” il grottesco e il mostruoso trovano la loro apoteosi figurativa, determinata da una magmatica simbiosi tra specie e cose. L’umanità che si è dimostrata sorda alle leggi di Dio e conseguentemente caduta nel peccato, viene punita, spesso con varie forme di sofferenza, in genere basate sulla legge del contrappasso. Nell’insieme l’opera ripropone tutta una serie di elementi iconografici che fanno parte del patrimonio figurativo di Bosch, più volte misuratosi con i tanti aspetti del male e del demoniaco. Il mondo che l’artista propone pare cristallizzare paure ancestrali contro le quali neppure la ragione ha modo di ottenere un’occasione di rivalsa. Come sempre si verifica con l’artista di ‘s-Hertogenbosch, è difficile incontrare interruzioni tra i blocchi figurativi che compongono la pala: i significanti si collegano tra loro attraverso un meccanismo che ci sfugge, ma che ci affascina. I significati invece prospettano soluzioni proprie, aprendo prospettive semantiche destinate a condurre in ambiti tra loro anche molto lontani. Ovviamente non bisogna dimenticare che quest’opera del passato “riesce a dirci” spesso quanto noi vogliamo che “ci dica”, poiché l’osservazione con gli occhi di uomini del XXI secolo ci rimandano a prospettive probabilmente diverse da quelle degli uomini del tempo in cui Bosch operava. Michael Baxandall, riferendosi espressamente al XV secolo, chiariva che nell’identificazione del significato di un’opera è necessario tener conto dell’“occhio del periodo”. Con questa espressione si intende l’esperienza che consente all’osservatore di “capire” e interpretare il soggetto della sua osservazione, poiché condivide con l’autore il background culturale. Tale “facilitazione” viene naturalmente ridotta, spesso a limiti estremi, quando l’osservatore appartiene a un periodo lontano e quindi si trova al cospetto di un linguaggio di cui in molti casi non conosce la “grammatica”.
Non dimentichiamo che le modalità dello sguardo (attività percettiva) e dell'osservazione (attività culturale), artefici dell'elaborazione e delle interpretazioni, occupano un ruolo fondamentale nella cultura occidentale, solidamente basata sull'immagine e sulla visione. In effetti senza tecnica d'osservazione, senza strategia dell'occhio, senza prammatica della facoltà visiva, il soggetto osservato non può comparire, né divenire oggetto di conoscenza. Consapevoli di tale conditio sine qua non, è evidente che al cospetto degli universi evocati da Bosch – soprattutto da Bosch – le nostre sonde analitiche spesso sono bloccate da ostacoli insormontabili, quindi dobbiamo avere l’umiltà di limitarci a constatare che emozione e ragione non sempre riescono a trovare il modo di convivere. Dobbiamo accettare i nostri limiti e procedere nell’osservazione con la consapevolezza che quanto crediamo di sapere di Hieronymus, è solo una parte del grande mistero da cui è avvolto lo straordinario artista. Nel suo inferno, ricostruito con straordinaria inventiva, ci imbattiamo nelle più sorprendenti mutazioni e ibridazioni, calate sui peccatori che si accalcano in uno spazio terribile, nel quale i vizi e peccati riemergono nella voluttuosa impaginazione, a tratti capace di mistificare il dolore spacciandolo per gioco. Impossibile descrivere completamente quell’universo in cui è evidente l’influenza dei bestiari medievali – dominante nella pala centrale – e che ancora una volta pone chiaramente in evidenza il background tecnico e simbolico proveniente dal mondo della miniatura. Lo si evince anche, ma non solo, da quell’inesauribile serie di micro esseri, spesso frutto di ibridazioni impossibili, che hanno la loro radice profonda nei cosiddetti grylloi dell’atre ellenistica. Tutto questo universo martoriato dalle pene dell’inferno, ha come fondale luoghi arsi da incendi inestinguibili, con città e genti devastate dal fuoco. Non si tratta di una prerogativa della sola pala de “L’inferno musicale”, ma di un Leitmotiv rinvenibile anche in altre opere di Bosch. Nel fuoco eterno potrebbero essere individuati riferimenti a fatti reali: alcuni commentatori hanno visto una connessione con l’incendio che il 13 giugno 1463 distrusse parte di‘s-Hertogenbosch, e verificatosi quando Hieronymus era ancora bambino. Vi è poi il riferimento biblico a Sodoma e Gomorra, che può essere considerato l’archetipo utilizzato di volta in volta per modellare profili di località da adagiare, tra realismo e fantasia, nei fondali dei regni dominati dal male. Gli edifici che esplodono e il colore del fuoco si amalgamano, producendo una sorta di humus malefico sul quale creature, rese ancora più ambigue dal controluce, si apprestano a incendiare e distruggere, trasformando il mondo dei vivi in un eterno inferno. Ci sentiamo di aggiungere che ebbero probabilmente un ruolo non secondario gli echi di eventi bellici e delle guerre di religione coevi a Bosch. Tragedie alimentate da odio e ideologie, che mossero eserciti e masse alla ricerca da un’impossibile vittoria della fede. Nella pala infatti vi sono raffigurazioni di tormenti per i dannati che riportano immagini riconducibili alle pene capitali; non mancano impiccagioni e roghi; così come non sono assenti scene di battaglie ed eserciti in marcia. Un fondate spettrale quindi, con incendi e scontri, che come una sorta di “tappo” del Vaso di Pandora si dilatadai registri sottostanti: uno intermedio, che costituisce una sorta di officina dell’allegoria con un amalgama di elementi simbolici riconducibili a un corpus di riferimenti che lasciano anche intravedere i riverberi di prospettive alchemiche. Questa parte del registro separa con un’area gelata (stagno, fiume?) quella più bassa, cioè“L’inferno musicale” vero e proprio. Qui il potere distruttivo dei demoni trionfa globalmente, con forme e soluzioni originali, che si avvalgono in modo insolito anche di strumenti musicali per mettere così in atto le punizioni previste per i peccatori. Di fatto gli strumenti musicali assumono la funzione di macchine per tormentare idannati nudi, ormai destinati al fuoco eterno. Wilhelm Fraenger pone in rilievo il ruolo saliente della demonizzazione della musica da parte del cristianesimo: di conseguenza la ricostruzione dell’inferno si struttura sull’idea che certe espressioni della musica e del canto, quando non finalizzate alla gloria di Dio, oambiguamente spacciate come ricerca dell’assoluto, siano in realtà strumento del peccato, e quindi si adattavano bene per essere parte della scenografia all’inferno. Un inferno che, contraddicendo cronologie e storiografia, è ancora tutto medievale, come si evince anche senza ricorrere ad acrobazie epistemologiche. Gli strumenti musicali sono qui usati impropriamente, poiché sono diventati macchine di sofferenza: non producono piacere e bellezza, ma attivano pene orrende e la loro primitiva funzione è totalmente perduta. Tra queste macchine infernali e i dannati, si aggirano creature ibride: possono essere i già indicati grylloi, ma non mancano sorprendenti unioni spurie, che creano un’inquietante osmosi tra specie. Se orientiamo la nostra attenzione in direzione di alcune peculiarità del registro inferiore, abbiamo modo di osservare l’ampio utilizzo del linguaggio del simbolo e di alcune abili applicazioni del processo narrativo effettuato attraverso il ricorso a una segnica criptica, che ci propone più chiavi di lettura, attivate dai diversi livelli di significato, secondo la tipica impostazione del processo figurativo di Bosch.
A destra, nel punto più alto dell’estremo limite del registro in basso, troviamo un’instabile struttura costituita da strumenti musicali di enormi dimensioni; nell’arco creato da questa singolare struttura architettonico-musicale, un coro di dannati, diretti da un mostruoso maestro di canto, intonano note presenti su una partitura impressa sulle natiche di un dannato, la cui parte superiore scompare dietro il liuto; lo strumento – che svolge la funzione di macchina di sofferenza per alcuni dannati – poggia su un volume di partiture aperto e di cui sono parzialmente visibili le notazioni. In genere, gli storici dell’arte ritenevano che anche questa scena si inquadrassetout court nel linguaggio allegorico di Bosch – fatto di per sé in linea con l’esegesi più diffusa – fino a quando Wilhelm Fraenger, nel 1975, avvalendosi delle ricerche del musicista e musicologo Johannes Wolf, grande esperto di notazione medievale, ha posto in evidenza che, nel dipinto, il volume è posto al contrario. In tal modo le note non sarebbero rivolte verso l’osservatore della pala, ma “verso gli strumentisti immaginari dell’arpa-liuto. Questo conferisce al tema un’intimità quasi impenetrabile”. Per Fraenger, questa scena rimanderebbe alla “rappresentazione della cerimonia nuziale adamita. Et erunt due in carne una, l’espressione plastica della formula suprema di Salvezza del mistero erotico libero-spirituale, formula che promette ai sessi separati un ritorno al loro stato originario”. Il riferimento agli Adamiti è uno dei topoi delle tesi di Fraenger: infatti, secondo lo studioso, Bosch avrebbe realizzato il “Trittico delle delizie” rispondendo appunto ai principi di questa setta cristiana, che perseguiva una forma di spiritualità in cui il corpo non era considerato strumento di peccato, anche quando entrava in gioco nelle sue espressioni più carnali. I membri di questo gruppo, noti anche come Hominesintelligentiae, sarebbero i protagonisti del Trittico delle delizie: figure adagiate nella spirale di una sensualità che, abbiamo visto, è dilatata da un apparato simbolico sconfinato. Per Franger, il progetto figurativo del trittico avrebbe avuto come ispiratore il gran maestro degli Adamiti, a cui Bosch, possiamo pensare senza eccessivo sforzo, visto il background caratterizzante la sua poetica, seppe rispondere con adeguato linguaggio. Quindi un progetto finalizzato a porre in rilievo aspetti positivi – naturalmente nell’ottica perseguita dagli Adamiti – delle pratiche sacrali adamitiche, lontane dalle regole della moralità cristiana, ma anche da qualunque istanza di carattere esoterico/alchemico. In tali condizioni, costituirebbe un’anomalia la raffigurazione dell’inferno: però, secondo Franger, i peccati descritti in quello spazio tetro finalizzato alla sofferenza, erano considerati punibili nelle fiamme eterne anche dai membri della setta. In questo modo, anche la terza tavola trova un proprio senso in quel trittico ritenuto una specie di “manifesto” adamitico. Il fine perseguito dai membri “era il recupero da parte dell’uomo della sua somiglianza divina. Per un’opera pittorica d’ispirazione libero-spirituale, la perfetta corrispondenza tra il modello e la copia diventava dunque un’assoluta necessità. L’iperrealismo di Bosch lo si potrebbe chiamare perfezionismo, concetto che spiega a un tempo l’aspetto puramente formale, plastico, dell’arte di Bosch e il suo contenuto spirituale, mistico”. In anni più recenti, una studentessa dell’Oklahoma Christian University, Amelia Hamrick, ha provato a trascrivere la partitura presente sulle natiche del dannato seguendo un metodo che ha condotto a risultati degni di attenzione. Ha trascritto il testo supponendo che la seconda linea del pentagramma fosse Do, come era d’uso all’epoca: il risultato è stato certamente di notevole effetto. Naturalmente questa trascrizione, anche se sembrerebbe assumere risvolti più vicini al divertissement che all’analisi filologica, conferma comunque la straordinaria capacità di Bosch di non lasciare nulla al caso: anche il dettaglio apparentemente più insignificante non cessa di offrire prospettive di indagine. Vorremmo qui aggiungere unaspetto che ci sembra particolarmente interessante e inquadrabile nel linguaggio ironico e dissacrante di Bosch. Ci riferiamo all’ostentazione di parti anatomiche che trovano l’apoteosi nelle natiche-spartito, ma naturalmente sono molte altre le soluzioni in questa direzione che hanno alimentato la poetica del pittore. Ci sentiamo così di suggerire un riferimento al cosiddetto risuspaschalis. Una sorta di rito documentato nel XV-XVI secolo: durante la messa di Pasqua, il predicatore diceva e faceva sconcezze sull’altare, raccontando barzellette e arrivando a denudarsi i genitali per far ridere. Dopo il rigore della Quaresima era il tempo del riso della Resurrezione: dopo la mistica del sacrifico, giungeva la grassa risata per coinvolgere il popolo dei fedeli nell’avvenimento più grande e straordinario della cristianità. Alcune importanti notizie su questa singolare pratica provengono dall’esperienza di Johann Weinsberg, grecizzato in Ecolampadio (1482-1631), valente predicatore cattolico che – prima di aderire alla riforma (1521/22) – svolse il suo ufficio con grande impegno, ma ciò non valse a ridurre le critiche dei suoi detrattori. Al centro le pratiche ascrivibili alrisuspaschalis di cui abbiamo notizie precise da una lettera di Wolfgang Capito, anche lui predicatore: “raccontare barzellette e far scherzi presi in prestito dalle cucine (…) spinge gli ascoltatori a ridere sguaiatamente, scherza con parole oscene, imitando uno che si masturbi, richiama agli occhi le cose che i coniugi sono soliti celare nella loro camera e che conviene fare senza testimoni”. Capito osserva che senza occasioni di ilarità “i predicatori parlerebbero in templi vuoti”. Senza rallegrare i fedeli i predicatori non avrebbero uditorio: un’amara constatazione che Weinsberg non ebbe problemi a confermare, chiarendo che il risuspaschalis era un fenomeno radicato nel costume ecclesiastico, difeso da un teologo valente per dottrina e costumi come Wolfgang Capito; poi ponevano in evidenza i tre scopi principali della singolare pratica: spingere la gente ad andare a messa la mattina di Pasqua, rallegrare l’uditorio e tenerlo sveglio nel corso della predica. Questi gli espedienti utilizzati per “vivacizzare” la messa: imitazioni dei versi degli animali o di personaggi grotteschi, spingere un laico a fingersi sacerdote, raccontare barzellette, giochi di parole senza senso, gestualità volgare, parole sconce, offese al pudore, imitazione di atti sessuali e onanistici. Erasmo da Rotterdam (1466-1536), peraltro amico diWeinsberg, fu molto critico sulrisuspaschalis: “è la cosa più vergognosa che ci sia, che nelle feste di Pasqua alcuni provochino al rito al gente, secondo il desiderio del popolo, con racconti palesemente inventati e più delle volte osceni, tali che neppure in un convivio un uomo onesto potrebbe ripeterli senza vergognarsi”. Lo statista Ludwig von Seckendorff(1626-1692) riferiva che in Germania, dal XIV al XVI secolo, “in quel tempo anche i monaci usavano rendere gradite le proprie prediche con frasi poco dignitose e anzi addirittura scurrili, soprattutto nella festività di Pasqua, solennità in cui era uso suscitare negli uditori un riso che chiamavamo pasquale”. Dal XVII secolo, nel risuspaschalisprevalsero soprattutto gli aspetti narrativi, mentre si attenuarono fino a scomparire le altre forme di sceneggiata più volgari e oscene, restando circoscritte nel perimetro del racconto. Va osservato che però il contenuto continuò a privilegiare la sfera sessuale; venne addirittura stampato un manuale con l’imprimatur della Chiesa, il che lascia supporre la sua diffusione e la sua circolazione strutturata. Bisognerà attendere fino al XVIII secolo per giungere a una presa ufficiale della Chiesa nei confronti della singolare pratica messa in atto per rallegrare i fedeli.
Se continuiamo a osservare il registro inferiore, incontriamo altri due blocchi tematici particolarmente interessanti: a destra abbiamo la rappresentazione del Signore degli inferi, Satana, con testa di uccello rapace e con copricapo costituito da un pentolone che funge da corona, i piedi calzano due brocche (simbolismo presente anche in altre opere di Bosch). È posto su un trono ai margini di un pozzo senza fondo, divora i dannati e li espelle attraverso un’ampolla (un simbolo di trasformazione?) nel pozzo più oscuro dell’inferno, quello senza via d’uscita in cui si riversa il male nelle sue molteplici espressioni: indicativo il riferimento al denaro come sterco del demonio. Un dannato infatti lo defeca, simbolo dell’avarizia (da considerare anche un possibile riferimento all’aspetto eretico della trasmutazione alchemica), mentre un goloso vomita il suo pasto. Un demone-coniglio tormenta un peccatore macchiatosi con il vizio della lussuria; mentre una scrofa-suora punisce un avaro, costringendolo a firmare lasciti e donazioni. Una donna nuda, con un rospo impresso sul petto, riflette il suo volto in uno specchio legato al posteriore di un demone: formula di contrappasso per il peccato di superbia. In basso a sinistra troviamo le pene riservate ai peccati connessi al gioco. Prevale una messa in scena di quella che a prima vista sembrerebbe la raffigurazione di una rissa da taverna: un tavolo rovesciato è l’emblema della lite travolge i giocatori, mentre uno di loro è assalito da una creatura mostruosa: Bosch qui condanna il gioco d’azzardo poiché spesso era causa di risse. Il legame tra il gioco e il bere è indicato dal demone con becco d’anatra che sorregge il gioco del tric-trac – simile al backgammon – con tre dadi e che Bosch “per chiarire la sua natura di diavolo-beone, gli ha fornito un ventre da ubriacone il cui ombelico è costituito da un grappolo d’uva (…) Il gioco d’azzardo è per Bosch il simbolo di tutto ciò che è contrario a Dio, poiché esso sostituisce all’ordine rivelato il caso cieco. Questi giocatori sacrificano la salvezza della loro anima a una sete peccaminosa di guadagno”. In continua tensione tra la citazione biblica, il riverbero della tradizione popolare e il senso del peccato di cui Bosch – pur nel paradosso dl suo linguaggio – era uno strenuo nemico, il registro inferiore della pala evidenzia con crudezza le pene, avvalendosi di un linguaggio scollegato da luoghi comuni e stereotipi. Qui non vi è la struttura scandita da un impianto quasi topografico, ma un apparente caotico spazio consacrato alla sofferenza, così vicino alle raffigurazioni medievali dell’aldilà. Siamo al cospetto di una porzione dell’inferno; possiamo solo immaginare che vi sia ben altro, a cui forse si accede da quel pozzo posto sotto il trono di Satana: un mondus oscuro da cui non giungono che pochi riverberi. Nel complesso, anche questa parte del “Trittico delle delizie” si pone come un’“opera aperta”, cioè una realizzazione che per le sue peculiarità intrinseche, si concede a una molteplicità di interpretazioni, destinata, in alcuni casi, a delegittimare il significato primitivo di un segno o di un complesso di segni, avvalendosi di interpretazioni svincolate da codici e sistemi originari, ma modellati su quelli del fruitore. Nella sostanza, “i segni iconici non posseggono le proprietà dell’oggetto rappresentato bensì riproducono alcune condizioni della percezione comune, in base ai codici percettivi normali e selezionando quegli stimoli che – eliminati altri stimoli – mi possono permettere di costruire una struttura percettiva che possieda – in base ai codici dell’esperienza acquisita – lo stesso significato dell’esperienza denotata dal segno iconico”. Rivolgiamoci adesso al registro mediano, all’interno del quale il linguaggio di Hieronymus Bosch si problematizza ulteriormente in un laboratorio di segni di straordinaria complessità. Sulla linea gelata che demarca i due registri, troviamo una serie di pattinatori: prevalgono gli uomini a cui si affianca il solito ibrido realizzato sul modello dei cosiddetti grilli. Si ritiene che tra le fonti letterarie dell’inferno bosciano vi sia la Visione di Tungdal, composta nel 1149 a Ratisbona da un monaco irlandese di nome Marcus, è considerata come una delle più significative espressioni della letteratura visionaria medievale: l’idea dello stagno (?) ghiacciato avrebbe questa origine. Nel registro mediano possiamo isolare tre blocchi tematici particolarmente articolati: a) le grandi orecchie; b) l’uomo albero; c) il cavaliere assalito dai cani. Tutto intorno è un caotico sovrapporsi di piccole e grandi eventi: scene e figure che spesso, pur nel minimo spazio a loro disposizione, aprono prospettive su universi paralleli, a cui si legano con il cordone ombelicale costituito dal simbolo. Si tratta di una brulicante natura vivente, resa particolarmente dinamica dalla straordinaria eterogeneitàdelle figure: è il prodottodi un vortice visivo che ci rende esuli in quell’universo nel quale la razionalità combatte la battaglia già persa contro l’emozione. In effetti, siamo al cospetto di creature che sembrano scaturite da una dimensione onirica, in cui visione, sogno e incubo si contendono spazio e tempo attraverso uno scontro fatto spesso di simboli. E così, ancora una volta, Bosch ci dimostra che se l’uomo non potesse contare sul linguaggio dei simboli vivrebbe un’esistenza monca, scollegato dalle coordinate che pongono la sua esistenza lungo un itinerario che consente di spaziare liberamente tra realtà e fantasia, aprendo un varco tra universi paralleli, che senza simbolismoforse non si incontrerebbero mai. Nell’inferno musicale, la nudità non ha più nulla della carica erotico-sessuale che invece è dominante nella tavola centrale: adesso è diventata quasi una sorta di castigo, una forma di violenza perpetuata per accentuare ulteriormente la sofferenza dei dannati. Il blocco delle “Grandi orecchie” è costituito appunto da un enorme paio di orecchie trafitto da una freccia e attraversato da una lunga lama di coltello con impressa la lettera “M”. Se osserviamo con attenzione, abbiamo modo di vedere che dalle orecchie fuoriescono i demoni che afferrano i dannati per trascinarli – si presume – all’interno dei giganteschi padiglioni. L’orecchio inferiore potrebbe suggerire un legame, visto il contesto, con la demonizzazione degli ornamenti preziosi sostenuta dai Padri della Chiesa, che, per esempio, vedevano negli orecchini un eccesso di vanità. Potrebbe anche essere collegato alla pena – questa volta giuridica e non infernale – che era inflitta direttamente all’arto “colpevole” di uno specifico reato: così come abbiamo la mano trafitta da un pugnale per il giocatore d’azzardo, le orecchie possono essere interpretate come corpus delicti, colpevoli di aver ascoltato musica profana.
Intorno alle orecchie, situate in una scenografia simile a una grande e sconfinata sala delle torture, i peccatori sono perseguitati con ogni sorta di sofferenze e inflitte da demoni instancabili e onnipresenti. Diventa quasi un’enclave a se stante il blocco costituito dall’uomo-albero, che troneggia al centro del registro. Esecuzione complessa, che amalgama forme di natura diversa, strutturata in modo da modellare un essere antropomorfo: le gambe sono due tronchi d’albero poggianti su due natantibloccati da una massa di ghiaccio che ricopre il corso d’acqua, nelle cui stive si ammassano schiere di dannati. I tronchi si innestano fino a essere parte integrante del guscio rotto di un uovo (il corpo), che lascia intravedere nel suo interno la raffigurazione di quella che sembrerebbe una taverna: un tavolo accoglie alcuni avventori, una donna (l’ostessa?) riempie una bottiglia spillando da una botte. All’appartato luogo di ristoro, quasi una zona franca nel caotico universo infernale, si accede attraverso una scala a pioli sulla quale ascende un uomo coperto da un cappuccio, sulle sue spalle poggia un bastone sul quale è infilata una brocca (come abbiamo visto simbolo presente in altre opere di Bosch), a infrangere l’apparente normalità dell’insieme una freccia conficcata nell’ano del viandante. Un altro uomo è appoggiato sull’orlo dell’uovo: osserva con fare pensoso le scene che si susseguono e sovrappongono al di sotto. All’uomo-corpo si lega un volto orientato in modo da volgere lo sguardo in direzione dell’osservatore. Numerose le ipotesi per attribuire un’identità quella figura: si è anche ipotizzato che potrebbe trattarsi di una rappresentazione dell’Anticristo. Qualcuno, più prosaicamente, ha creduto invece di individuare l’autoritratto di Bosch. Se ciò corrispondesse al vero, risulterebbe alquanto originale, soprattutto in considerazione dell’espressione ironica di quel volto, forse una sorta di “firma di un artista che ha rivendicato un singolare mondo pittorico per la sua personale immaginazione”. Si aggiunga inoltre che in quella strana struttura antropomorfa sono stati intravisti i simboli dell’uomo alchemico: “i colori (dal basso all’alto, nero, bianco, rosso) riflettono gli stadi della cottura del mercurio; le gambe ad un albero cavo (richiamanti al tema del crogiolo alchemico e del grembo della natura) poggiano entro due vascelli dell’arte e della natura che portano alla grande opera”. La misteriosa testa regge il piatto di un bersaglio (?) con una cornamusa rosa al centro, intorno alla quale ruotano peccatori, demoni e ibridi: una processione di dolore che si contrappone al corteo paradisiaco, o comunque votato al piacere, della pala centrale del “Trittico delle delizie”. La cornamusa (simbolo per eccellenza della musica profana) è anche raffigurata sull’insegna dell’uovo-taverna osservato in precedenza:“una diabolica taverna all’insegna della cornamusa, in cui la strega servente, con acconciatura a mezzaluna, richiama la papessa dei tarocchi”; il riferimento alla stregoneria non è certo slacciato dalla realtà coeva di Bosch. Si tenga conto inoltre che la cornamusa, secondo l’idea di stregoneria che ha attraversato l’Europa tra XIV e XVII secolo, era uno strumento spesso suonato al sabba. La cornamusa è l’ultimo strumento musicale presente ne “L’inferno musicale”, il più popolare e il più ambiguo e quello che, a differenza di altri, non è stato manipolato per essere integrato nella topografia infernale. Nella tavola la colonna sonora dell’inferno è tutta giocata sull’incontro tra gli strumenti proposti e diversamente disposti nello spazio. Nel registro inferiore, come abbiamo visto, alcuni strumenti musicali formano la struttura nella quale si trova il coro che legge lo spartito tracciato sulle natiche di un dannato: sono il liuto, l’arpa, la ghironda (orgonistrum), il flauto (all’interno del quale arde un dannato); dobbiamo aggiungere il tamburo in basso, con un’apertura da cui sbuca una civetta, il triangolo suonato da un dannato (?) incastrato nella tastiera della ghironda; e ancora la tromba, una in terra accanto al tamburo e un’altra che si intravede dietro ai dannati, suonata da uno strano personaggio che orientaverso il basso la bocca dello strumento. Il grande musicologo Marius Schneider ha posto in rilievo che “dove risuona la musica nasce ipso facto l’ordine, poiché i suoi intervalli e il suo tempo poggiano su rapporti numerici semplici (…) Ma gli spiriti maligni temono questi suoni perché si vogliono sottrarre a ogni costo al sacrificio, e la loro essenziale malvagità è in funzione di tale atteggiamento negativo. Il loro perfido comportamento è determinato dal fatto che non infliggono all’uomo il dolore, a causa della benedizione che ne deriva, come gli spiriti buoni, ma cercano il male fine a se stesso”. “L’inferno musicale” è quindi un luogo in cui trionfa l’assenza della musica, prevale il frastuono del male, il caos del peccato e gli strumenti perdono la loro originaria funzione, mutandosi in oggetti destinati a produrre sofferenza. Vi sono culture nelle quali il mondo sarebbe stato generato dal canto: non vi è azione sacra senza l’intervento di un fenomeno sonoro; privare gli strumenti della loro voce equivale a negare la vita interiore poiché “il suono è la sostanza originaria di tutte le cose, anche là dove non è più percepibile per l’uomo comune”.
Prima di concludere questa passeggiata esegetica all’internode “L’inferno musicale”, dobbiamo ancora accennare brevemente al terzo blocco del registro mediano, quello del cavaliere assalito dai cani. In realtà, se osserviamo con attenzione, ci rendiamo conto che si tratta di animali ancora una volta travolti dalla frenesia ibridante di Bosch: infatti hanno zampe a tre dita e musi allungati; l’aspetto è più vicino a quello di un sauro che a quello di un canide. Il cavaliere, con corazza ed elmo, stringe, nella mano sinistra guantata di ferro, un calice dorato dal quale è fuoriuscita un’ostia; con la destra accoglie parte di un’orifiamma bianco la cui insegna è costituita da un rospo rosso e nero. Al rospo era in genere legata una simbologia negativa e demoniaca (animale ricorrente nell’iconografia della strega), ma anche riferimento alchemico allo zolfo. Forte la contraddizione tra il rospo e il calice, che contribuisce a rendere ulteriormente problematica questa scena, il cui significato non è ancora chiarito. Anche per questa piccola porzione della pala potrebbe esserci d’aiuto conoscere i rapporti tra Bosch e la sua committenza, che, da un certo punto di vista, costituisce di certo il mistero più grande di questo straordinario pittore. Per Fraenger è possibile risolvere in parte questo problema “solo cercando il committente tra le comunità extraclericali. Alla fine del medioevo le produzioni artistiche non erano ancora proprietà dei loro creatori. È dunque impensabile che Bosch abbia potuto dipingere tra grandi trittici per il puro piacere personale. È anche del tutto improbabile che dei privati abbiano potuto commissionare per la loro cappella personale dei dipinti così eccentrici. Ne consegue che solo una comunità, anche ristretta, può averli commissionati”. Si assiste così a una sorta di cortocircuito culturale: i principi cristiani diventano principi esoterici, probabilmente accessibili a una ristretta minoranza di cui non è rimasta che una tenue eco. Il “Trittico delle delizie” resta un grande laboratorio antropologico, una sorta di Wunderkammer di straordinaria vastità, nella quale si scopre sempre qualcosa che prima ci era sfuggito. Le inquietanti ed eversive figure dell’artista di s’Hertogembosch, ignorano ogni tentativo di normalizzazione, continuando a irrompere chiassosamente nello spazio pittorico del Trittico delle deliziee di altre opere – come per esempio la serie di tentazioni – senza celare la loro antiche radici che dalla glittica tardo antica giungono alla decorazione romanico-gotica. Ma è soprattutto il repertorio “marginale” della miniatura l’humus dal quale Bosch ha saputo trarre protagonisti e comprimari del suo repertorio. Questi soggetti si amalgamano a ogni genere di umanità, felice o travolta dalle sofferenze più assurde, languidamente adagiata nelle spire del piacere, o perduta nel martellante delirio imposto dai demoni. Per gentile concessione dell’Autore. Articolo già pubblicato sulla rivista “Atrium. Studi metafisici e umanistici”. |