Megalitismo

Un Mondo di Pietra - 1

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11 Luglio 2012

Tratto di sentiero con “dentelles” presso Marsaglia, Val Tesso

Un percorso attraverso antichi culti, prodigi, leggende e megaliti nelle Valli di Lanzo


La pietra ricorre in modo costante nelle leggende e tradizioni di tutti i popoli, onnipresente nella storia umana, con le forme e i poteri più disparati. In ambito occidentale pensiamo alla Bibbia, alla mitologia greco-romana, alle saghe nordeuropee, alle leggende medievali. Nella Bibbia valgano per tutti l’episodio del sogno di Giacobbe, che ha una visione mentre dorme con il capo appoggiato su una pietra, alla quale viene poi attribuito un potere miracoloso, o le Tavole della legge, la frase che Gesù rivolge a Simon Pietro e tanti riferimenti e paragoni. Presso gli Arabi, quando erano ancora politeisti e divisi in tribù, si venerava (e si venera) in comune un aerolito come la Kaaba. Nell’ambito della mitologia ricordiamo ad esempio Deucalione e Pirra, che, dopo il Diluvio, fanno rinascere l’umanità lanciando dei sassi dietro le spalle (le ossa della Madre Terra) o il castigo di Sisifo.

Uno dei motivi principali del suo culto era la sua apparente immobilità, il senso di stabilità che essa trasfondeva, contrapposto alla precarietà del mondo vivente. Tuttavia, nonostante tale immutabilità, le pietre non furono viste come inanimate, ma come nate dalla Madre Terra (alcuni ritenevano che nascessero e si sviluppassero per una sorta di gemmazione), di cui conservavano ed emanavano le energie vitali. In quanto nate dalla Terra e nel contempo esposte ai raggi del sole fecondatore, simboleggiavano e portavano la fertilità. In quanto sede di forze soprannaturali o da queste investite di poteri, erano capaci di proteggere, guarire, esaudire. Per queste loro funzioni erano oggetto di una venerazione sacrale, che si tramandò nei millenni.


La montagna

Nella loro sacralità le pietre erano strettamente connesse con la montagna, la quale costituiva un vero e proprio universo totemico, cioè un complesso di elementi e forze da venerare. In quanto luogo di fenomeni terribili e misteriosi, come lampi, fulmini, nuvole scure e fitte nebbie, essa fu divinizzata e poi divenne sede di divinità (“la montagna come tale – osserva Piercarlo Jorio – era già sacra prima che nascessero gli dei”). Le più importanti religioni ebbero come sede di divinità o di eventi grandiosi una montagna (il Sinai, l’Olimpo, l’Ararat, ecc.). Un monte particolare, alto e aguzzo come il Rocciamelone, o situato in una posizione particolare, come nelle nostre valli la rupe di Santa Cristina (all’estremità dello spartiacque Val Grande – Val d’Ala), o alto e isolato come l’Uja di Mondrone, o collocato a chiusura di una valle come la Bellavarda, così evidente se vista da Forno, poteva essere oggetto di meraviglia o di paura e divenire oggetto di culto.


L'Uja di Mondrone dal versante della Val d'Ala

A proposito di quest’ultima cima, va detto che la traduzione corrente in “bella vista” è la tarda interpretazione di un appellativo antichissimo, di cui si era perso il significato originario: “Bel” da Belenus, dio del fuoco e della luce, e “Var” o “Gar”, radici preindoeuropee che stanno per “monte” (da A. Robetto, “Il segno dei giorni”). Per quanto concerne la toponomastica, è frequente che una denominazione remota, generalmente preindoeuropea, nel corso dei millenni perdesse il significato originario e, nella cultura dei parlanti, ne acquistasse uno nuovo, formulato sulla base della sua semplice sostanza fonetica. Nel Pinerolese, ad esempio, è il caso di Cantalupa, la cui etimologia non ha nulla a che fare con i lupi.


I primitivi di fronte alla realtà

L’uomo primitivo sapeva di muoversi in un mondo di forze soverchianti e misteriose, che dovevano essere combattute o rese favorevoli con ogni mezzo, prima fra tutte la magia, se voleva sopravvivere. Nella natura i popoli naturali avevano individuato un ordine, in sé rassicurante, ma pur sempre precario. Bastava un “errore”, una stranezza, a mettere in pericolo ogni certezza, a meno di riuscire a esorcizzarli, incanalarli, dominarli, evocando potenze superiori attraverso la magia... Il più piccolo elemento che uscisse dalla “normalità” era motivo di paura. Mostruoso era ciò che andava contro il corso della natura intesa come ordine.

Per farci un’idea delle dimensioni di tale atteggiamento psicologico, pensiamo che Aristotele, che non era certo un rozzo, vedeva con preoccupazione, come una mostruosità, che un figlio non assomigliasse al padre. Tuttavia un tale rapporto con la realtà, vista come campo d'azione del soprannaturale, comportava anche che il miracoloso fosse inteso come un evento non solo possibile, ma normale, nel senso che si credeva al costante accadimento di “prodigi”, dovuti all'intervento diretto di queste forze misteriose o all'opera di chi sapeva evocarle e dominarle. Il possesso di una formula magica costituiva un elemento di potere sulla natura, e tale credenza continuò in epoca cristiana. Conoscere un miracolo (vero o presunto) di Cristo, della Vergine o di un Santo e ripeterne, in situazione analoga, ad esempio una malattia, le parole esatte da quelli pronunciate nell'occasione, significava evocare e attuare lo stesso potere, ripetendo il “miracolo”.

L’uomo cercava quindi di dare delle stranezze naturali una lettura confacente al suo universo mentale, di inserirla in un sistema, che consentisse una via di scampo e fosse perciò rassicurante. Il fenomeno era visto come frutto di forze, malefiche o benefiche, da controllare o propiziare attraverso i riti, che erano la vera e propria ossatura della sacralità. Ovviamente la montagna offriva un vasto ambito di “stranezze”. Un masso erratico isolato “inspiegabilmente” nella piana, una roccia dalla forma o dai colori strani (cavità, fenditure, venature), una caverna dovevano essere spiegati (spesso con un mito), esorcizzati o venerati.


Esempi di “prodigi” naturali nelle Valli di Lanzo

Nelle Valli di Lanzo esistono numerosi esempi di “prodigi” naturali, divenuti oggetto di “conte”. Pensiamo, in Trione, sopra Groscavallo, alla Pera Cagni (nome che è semplicemente quello di un gestore delle miniere), con i suoi segni di erosione e i leggendari giacimenti d’argento, prospiciente un’altra “stranezza” come il Bec Ceresin (termine che indicava lo gnomo, il folletto); oppure alla Balma 'd Vouns, sopra Vonzo di Chialamberto, un enorme pezzo di montagna, staccatosi ed emerso gradualmente dai detriti morenici, le cui strane cavità, dovute probabilmente all’erosione meteorica, quando il masso venne a trovarsi appena in superficie, furono attribuite dalla leggenda alle masche.


Il monolite del Passo dell'Ometto - Val Grande - Val d'Ala

Una roccia a forma di sedile naturale divenne “la careja dou diaou” sotto il Pian d’le Riane (Unghiasse) o presso la torbiera del Lussel (sopra Cantoira). Nella zona di Pian Bracoùn (Traves) due pietroni con un caratteristico incavo divennero “el careies del masques” e un macigno al Colle Rivalsa fu addirittura “lou banc dou diaou”. A Pian Fiüm, sul valico tra Roca Moross e il Monte Marmottere (Tornetti) gli inconsueti macigni verticali diventarono masche ingabbiate e pietrificate.

Tutte denominazioni che dimostrano una tabuizzazione di epoca cristiana, che si verificò a partire dall’alto medioevo, e sottintendono un precedente utilizzo pagano.


La cristianizzazione dei siti pagani

Già a partire dal IV secolo la Chiesa individuò nel culto della pietra uno dei principali residui pagani da condannare e combattere, così come per la venerazione degli alberi e delle fonti. Papa Gregorio Magno utilizzò una tattica diversa: ovunque fosse possibile, alla lotta aperta preferì l'assimilazione. Così un tempio pagano, invece di essere abbattuto, poteva diventare un edificio di culto cristiano; un’incisione pediforme sulla roccia fu l’impronta di un santo (es. quella di Santa Cristina sotto Vrù). Una particolare formazione rocciosa divenne un nemico della fede pietrificato, come nel caso dei Ciciu di Villar San Costanzo. Sul luogo di santuari come Sant’Ignazio, Santa Cristina, San Giacomo di Moia (presso il quale si trovano dei massi incisi e coppellati) erano praticati in precedenza dei culti pagani, data la loro posizione sommitale e marginale, adatta a riunioni rituali e cerimonie sacre; poi i luoghi furono cristianizzati con la dedicazione a un santo. La roccia di Barmafrè (Vallone d’Ovarda) fu esorcizzata dal suo ruolo demoniaco connesso con le masche attraverso la costruzione, nelle immediate vicinanze, della cappella di San Bartolomeo.

Un’altra via assai praticata fu invece la demonizzazione di una sede di costruzioni, culti, tradizioni pagane, affinché la gente se ne tenesse lontana e dimenticasse. Tale è il caso, ad esempio, di Trana, in bassa Val Sangone, dove un antico insediamento celto-ligure sul Monte Pietraborga, in una zona pianeggiante adatta all’uso agropastorale, fu abbandonato. Solo così si spiegano tante leggende di masche. Nelle Valli di Lanzo numerosi pianori, in posizione ben individuata, come Pian Soletti (Mondrone), Pian del masques sopra Cezaletti, Pianfè di Almesio, divennero sede di balli stregoneschi, e perciò da frequentare con tutte le precauzioni. Essendo situati in aree favorevoli all’attività agricola o pastorale, la loro demonizzazione si spiega solo con una connessione con il paganesimo.

In altri casi la natura aspra dei luoghi originò e, in epoca cristiana, accentuò sicuramente la paura legata al demoniaco. Pensiamo al santuario della Madonna degli Olmetti, sotto Chiampetto (Val di Viù). In quel punto la valle è strettissima, con pareti strapiombanti, per cui in tempi lontani non doveva esser piacevole passare di lì. Ma il nome Olmetti e la tradizione riferiscono la presenza di un boschetto di olmi, probabilmente una sede sacrale. Tale è anche il caso del Santuario della Madonna di Loreto presso Forno Alpi Graie: in un territorio quasi totalmente disboscato per alimentare i forni delle miniere, la conservazione di un fitto bosco nei pendii sotto l’edificio sottintende una presenza rituale pagana. Sicuramente collegato alla spiegazione di una “stranezza” naturale è il nome dell’alpe Balmamassiet, che in origine era Balmamaschiet, in Val di Sea. La presenza impressionante di enormi massi staccatisi dalla montagna, che incombe dalle pareti a picco, con i loro anfratti e le buie balme naturali ne spiega il nome.



Dolmen naturale sopra i Rivotti, Val Grande

Modelli di cultura verticale

La montagna offrì sicuramente i modelli “prodigiosi”, a cui i primitivi si ispirarono per i loro monumenti cultuali: ad esempio i pinnacoli, le guglie, i megaliti, che suggerivano l’idea di ascesa proprio in un luogo che era il trait d’union fra la terra (la Gran Madre, il mondo dei morti) e il cielo (sede del divino). Pensiamo a elementi spettacolari, i “ciuchè”, come il Bec Ceresin (sopra Groscavallo), il gigante del Colle di Nora (spartiacque Chialamberto-Locana), il monolite del Passo dell’Ometto, il bizzarro pilastro sotto Gias Süit (Alpetta), tutte manifestazioni di verticalità. Guardiamo anche alle incredibili “roci ciapel” nel loro precario equilibrio, come quella lungo il sentiero-balcone per Sagnasse o l’altra sotto le Courbassere. Un modello che ritroviamo ad esempio, questa volta costruito dall’uomo, al sito preistorico di Prese Rossi, poco sopra il Colle Braida e la Sacra di San Michele. Infine vale la pena ricordare i tanti massi erratici, presenti anche in pianura, che spesso furono istoriati di coppelle e incisioni a sottolinearne la sacralità. Certe foto, che ho avuto modo di vedere, di taluni blocchi litici in Scozia, isolati nelle lande brulle, sono molto convincenti. Secondo gli studiosi proprio modelli naturali di tal genere sarebbero all'origine dei menhir.


I menhir

Soprattutto basandosi su quelli scolpiti o incisi con motivi antropomorfi e immagini di armi, si è pensato che la funzione dei menhir fosse la celebrazione o divinizzazione di re ed eroi. Altri pensano ad aree sacre, connesse con il culto del sole e della fertilità o con la misura del tempo, o ancora li considerano punti di catalizzazione ed emanazione di energie telluriche. È comunque abbastanza generalizzata l’interpretazione che li collega a una simbologia maschile e a rituali specifici; culti che continuarono nel tempo, anche nell’era cristiana, se si pensa che i Longobardi, ancora nel VII secolo d.C., veneravano i luoghi alti e le pietre “verticali”, come menhir e cumuli litici. Più in generale possiamo dire che simili moduli del culto della pietra, per la loro vasta diffusione, non poterono essere un prodotto di singoli popoli separatamente, bensì di comunità originarie che si irradiarono nel tempo con la loro cultura. È un discorso che riguarda il megalitismo in generale, il quale manifesta, in ogni angolo del pianeta, coincidenze troppo impressionanti per essere casuali.


Il Menhir dell'Airetta, presso Cernesio, Val Grande

Le Valli di Lanzo non possono vantare i numerosi esemplari di altri territori, primi fra tutti il Nord Europa, la Sardegna e la Corsica (es. Filitosa). È comunque significativo quello dell'Airetta, presso la borgata Cernesio di Ceres. Contemplandolo, osservando le sue istoriazioni, proviamo a dimenticare per un momento che l’asfalto è a due passi, che la boscaglia e l’incolto avanzano dove c’era uno spazio aperto: quel menhir e il posto stesso si caricano di suggestione.


Balme e dolmen

Tra i modelli naturali si collocano anche le balme (o barme) e le grotte. Le prime sono ripari sotto rocce sporgenti, da sempre utilizzati dai pastori. Nella preistoria furono sede di culto sacrale, oltre che abitazioni temporanee. In Francia, a La Ferrassie, sotto il pavimento a lose di una balma furono trovati i resti di un’intera famiglia. Lo scheletro di un bambino era coperto di lastre lavorate con coppelle. Abitazione e sepoltura coincidevano, evidenziando la continuità del ciclo vita-morte. Ma, ancora in tempi non lontanissimi e poi in epoca cristiana, almeno per alcune balme i segni dell'antica sacralità dovettero sopravvivere. Nei boschi sopra Chiampernotto (Val d'Ala) esiste una “Balma 'd Salve Regina” e nella piana dei Lombardi (dopo Malciaussia) un grande masso a balma in posizione isolata presenta numerose incisioni, tra cui la Croce con calvario.

Spesso le balme furono ampliate con scavi e protette da muri a secco esterni, per ricavarne locali più ampi, non solo per animali. Sia in tempi lontani sia in altri abbastanza recenti (fino agli anni ’60) i pastori ci vivevano in simbiosi con i loro animali (ricordo il caso della margara che passava l’estate con le “bestie” ai Lousoùn, sotto il Colle del Vallonetto, in Val d’Ala). Spesso le balme furono all’origine di insediamenti periodici, come le Benne sopra l’Albone, per essere sostituite con il tempo da baite, nel qual caso passarono alla funzione di “crote” o “veilin”. Un macigno sporgente poteva diventare un utile appoggio per una grangia o un “freitè” (deposito di tome), spesso con un solo spiovente, o un riparo dalle valanghe.

La natura ha probabilmente offerto il modello anche per il dolmen, uno degli aspetti più tipici del megalitismo preistorico, dagli studiosi ritenuto di origine paleolitica e anteriore al menhir. Alcuni lo assimilano al tumulo, collegandolo all’immagine del ventre gravido e alla fertilità; fecondo perché vi albergavano i defunti, a contatto con la Madre Terra, a evidenziare ancora una volta una continuità del ciclo vita-morte, un punto di passaggio.


Caratteristiche nicchie votive nel Vallone Saulera, Mezzenile

Nella Val Grande di Lanzo troviamo due singolari esempi di dolmen naturali di proporzioni enormi: uno poco sopra i Rivotti di Pialpetta (presso l’alpeggio delle Balme), l’altro nella zona di Forno Alpi Graie, appena sotto la rupe dell’alpe Coloumbin. Quest’ultimo di dimensioni impressionanti, così perfetto che si è discusso a lungo se fosse naturale o costruito. Come per i menhir, le Valli di Lanzo non sono ricche di reperti, ma vale la pena ricordare il grande dolmen di Inverso di Cantoira, che gli esperti hanno riconosciuto essere preistorico.


Le grotte

La grotta ha sempre costituito, fin dal paleolito, un motivo di fascino, un luogo sacrale, oltre che un riparo naturale. Essa era vista come un punto di passaggio, una via di accesso alla Madre Terra, nonché con il mondo dei morti, e perciò adibita a sede di riti magici (pensiamo ad Altamira) e religiosi, come sempre nel segno della continuità del ciclo vita-morte. Gli studiosi hanno dato notizia di numerose sepolture nelle grotte, che furono viste nella preistoria come un ritorno al ventre della Gran Madre. In tempi meno lontani, invece, molte caverne furono associate alla paurosa presenza di mostri o esseri misteriosi e fantastici.

Nelle Valli di Lanzo le più note sono le Borne del Pugnetto, nel territorio di Mezzenile, che hanno un notevole sviluppo in lunghezza; sono inoltre legate a varie leggende, come quella di un favoloso tesoro custodito da un rospo o di un misterioso passaggio che andrebbe a sboccare sopra i Tornetti, in Valle di Viù. Ma ve ne sono parecchie altre, di dimensioni spesso modeste, ma a loro volta legate alle “conte”. Anche in questo caso si tratta di narrazioni nate in tempi recenti, forse connesse al tentativo di rendere tabù dei luoghi legati a culti pagani.

Ecco perciò i racconti popolari legati alle “boiri” (o “buirri” o “borne”) “dou servaj”. Il selvaggio era raffigurato come un uomo primordiale, peloso e barbuto, vestito di pelli, dal comportamento scontroso e solitario, tale da respingere in genere ogni tipo di contatto con gli uomini, ai quali tuttavia sembra avesse insegnato a produrre i formaggi. Pare addirittura che in certi posti, es. Candiela di Chialamberto, si occupasse quotidianamente delle loro capre. Lungo il sentiero verso Chiappili si trova la grotta detta appunto “boiri dou servaj”. Un’altra è poco sotto l’alpeggio abbandonato del Turn (val d’Ala), presso la quale troviamo anche delle incisioni pastorali.

Gli studiosi hanno fornito le più svariate interpretazioni di questo personaggio leggendario. Una delle più attendibili ne fa una specie di sopravvissuto, un simbolo dell’antica società pastorale soppiantata da quella agricola. Ricordiamo che i Romani chiamavano “comati”, cioè dalle lunghe chiome, quelle tribù di Liguri, che si erano rifugiati sui monti per sfuggire all’invasione celtica e poi alla loro avanzata.

Spesso grotte e balme erano invece collegate a esseri soprannaturali, benevoli o malefici secondo i casi, come masche, fate e folletti (gnomi o elfi nell’Europa del Nord). Oltre alla citata Balma ‘d Vouns, per la quale furono tirate in ballo le masche, ricordiamo quella presso la baita di Malpassett, sopra Cantoira, abitata dalle fate, e, sopra il Pianfè di Almesio, la “boiri dou foulat”, oggi quasi introvabile, sede di un folletto un po’ dispettoso.



Tratto di “viassi” con muri a secco sopra Forno Alpi Graie, Val Grande

I "roc"

Infine non possiamo dimenticare i tanti “roc”, ognuno con un proprio nome, legato a una forma particolare o a un luogo, ma spesso connesso con una leggenda, talvolta così pregnante da conferire l’appellativo al posto in cui si trovava. Un caso significativo è la “Pereuva” (da cui trae nome il vicino alpeggio, diventato poi “Parona”), la pietra a uovo, dove si trovano importanti incisioni preistoriche. Ai “roc” a forma di scivolo era attribuito il potere della fertilità attraverso il contatto: erano numerose le donne che, avendo problemi in tal senso, si strofinavano su queste “pere sguroire” per ottenere il privilegio della fecondità. Un masso a balma, presso Santa Cristina avrebbe invece il potere di guarire dal mal di testa chi vi si siede sotto.

Con il tempo non fu raro che tali rocce miracolose fossero poste sotto il patrocinio di un santo, segno evidente della cristianizzazione di credenze pagane. È il caso, ad esempio, di un grande masso coppellato che si trova presso il santuario di Oropa. Accanto alla cappella di San Giacomo di Moia, in posizione elevata e aperta sopra Vrù, si trovano interessanti rocce con coppelle: è un classico esempio di come la sede di un culto pagano sia stata cristianizzata con la costruzione di un edificio sacro. Ma non dimentichiamo i “roc” che, per il loro aspetto strano o repulsivo, si sono visti attribuire nomi e poteri negativi, come “Pera malfeita” (l’antico nome dei Rivotti) o “Roc malegn” all’interno del Parco della Bessa, nel Biellese.


Le pietre e i segni

Non era raro che un “roc” particolarmente “inspiegabile” per la sua forma o collocazione oppure eminente per la posizione isolata e dominante finisse per rivestire una funzione sacrale, in quanto venerato come totem o come emanazione di energie telluriche o poteri trasfusi da una divinità. In tal caso su di esso si praticavano petroglifi con una vera e propria cerimonia di consacrazione (danze, formule, riti), che poteva poi ripetersi periodicamente. L’incisione di simboli o, in tempi più recenti, di parole rafforzava i poteri apotropaici, terapeutici e propiziatori della pietra.

Aprendo una breve parentesi, ricordiamo che presso i popoli antichi e le società primitive le parole scritte rivestivano una rilevanza magico-sacrale enorme. Risulta che in Nepal, in epoca non troppo lontana, in una zona di montagna, esistesse una certa sede sacrale con un muro esterno recante incisioni di significato religioso: secondo la credenza bastava passare davanti a quelle scritte per essere guariti dai propri mali.

La realizzazione dei petroglifi non era mai fine a se stessa, ma faceva parte di un rito mirato a scopi precisi, alla consacrazione di momenti specifici, come una cerimonia per impetrare la pioggia o la fertilità dei campi o per celebrare un’iniziazione. Con il trascorrere dei secoli la funzione magico-religiosa si affievolì, cedendo il passo a quella semplicemente propiziatoria, con le incisioni pastorali che costellano numerose le rocce su per i monti.

 

1 – continua


Il testo riprende e amplia un articolo apparso sulla rivista “Panorami”. Si ringraziano il Direttore e la Redazione per la gentile disponibilità.


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