Megalitismo

Un Mondo di Pietra - 2

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20 Luglio 2012

Il “Bonhom dou Cialvet”, sopra San Bernè (Val Grande)

Proseguendo nel percorso attraverso antichi culti, prodigi, leggende e megaliti nelle Valli di Lanzo


Le incisioni rupestri

Sulle incisioni rupestri il discorso generale è lungo e complesso e in questa sede può essere solo accennato. Esistono siti famosi, come la Valle delle Meraviglie e la Val Canonica, che costituiscono veri e propri templi all’aperto (o gallerie d’arte, se vogliamo). Le Valli di Lanzo, per una serie di motivi, non sono così ricche, ma nemmeno mancano di reperti. Ricordiamo una volta per tutte che esse sono strette e impervie, povere di ripiani pianeggianti adatti all’agricoltura e di pascoli, cosicché furono colonizzate assai più tardi, specie dopo il ritiro dalla pianura da parte dei popoli preindoeuropei di fronte all’avanzata dei Celti e poi dei Romani. Non è un caso se una vera e propria stazione preistorica fu scoperta presso Viù, dove la valle è più ampia e ricca di pascoli. Inoltre le nostre rocce non erano adatte alle superlative incisioni della Valle delle Meraviglie. Molti petroglifi furono a lungo considerati preistorici, anche perché ricalcavano moduli assai antichi (tipo le lineari e le coppelle), mentre erano incisioni pastorali recenti. Tale sopravvivenza di forme remote è indice di uno spirito conservativo e di una difesa dell’identità tipici delle aree marginali.


Tipologie di petroglifi

I petroglifi preistorici sono stati oggetto di innumerevoli ipotesi e dibattiti fra gli studiosi, sia per stabilirne il significato e la funzione sia per determinarne la datazione. Da un lato possiamo dire che le incisioni nel loro complesso risalgono a una cultura comune, poiché la loro diffusione è tale che non sembra si possano supporre iniziative separate di singoli popoli. Le ruote stellari a sei petali furono conosciute in varie zone, come la Grecia (Micene) e la Daunia; ed è davvero singolare che certi moduli, come le formazioni a cerchi concentrici e a raggi, ricorrano identici, ad esempio, in Val Camonica e in certe civiltà precolombiane. D’altro canto va riconosciuto che le immagini dei petroglifi diversificarono il proprio significato con l’evolversi dei tempi e a seconda dei popoli. Il Giedion afferma che i simboli di questa arte primordiale sono in funzione di un'esigenza primaria dell’uomo, cioè stabilire una continuità tra la vita e la morte. Perciò il linguaggio segnico doveva soggiogare la realtà attraverso la magia, prima che nascessero i culti. La pietra veniva marcata e come tale si caricava di forti valenze.

Tra le numerose tipologie di petroglifi preistorici possiamo citare almeno le ruote solari, considerate simboli di fertilità, i cruciformi, in certi casi ritenuti ruote solari semplificate, in altri segni antropomorfi, come accade anche per i cosiddetti arboriformi e piumiformi (in particolare ritenuti simboli di virilità), gli spiraliformi, le immagini di armi, come i pugnali (ad esempio presso San Giacomo di Moia). Tipici delle società già agricole del neolitico sono i reticoli e i corniformi (la testa di toro schematizzata, a sua volta segno di fecondità). Poiché la pietra, come la fonte e l’albero, in epoca cristiana fu considerata elemento pagano per eccellenza, la Chiesa combattè in tutti i modi l’uso di fare e venerare tali incisioni, demonizzandole o sacralizzandole, ad esempio con l’apposizione della Croce, confondendo così in tempi recenti le datazioni degli studiosi.


Tratto della scala votiva per la Cappella della Frassi, Val Grande

Tuttavia i culti pagani continuarono a lungo nascostamente, favoriti dalla marginalità o dall’assunzione delle forme più svariate per ingannare la repressione ecclesiastica. Ad esempio il mazzo di fiori che in passato ornava le antine di certi mobili, altro non era che una raffigurazione mascherata dell’albero della vita (uno dei culti più praticati e osteggiati), e come tale rivestiva una funzione propiziatoria.


Le coppelle

L’incisione rupestre più diffusa, presente ad esempio fin nel Nepal, la più conosciuta e studiata, ma nel contempo più misteriosa e indecifrabile, è la coppella. Per nessun altro “segno” le ipotesi sono state così numerose. Il fatto è che essa seguì, con il volgere dei tempi e il diversificarsi dei popoli, una molteplice evoluzione, assumendo funzioni diverse. Tuttavia potevano cambiare i riti, ma il dato costante era la sacralità. Sembra indiscutibile l'iniziale significato cultuale e sacrificale, nell’ambito di riti legati dapprima alla fertilità attraverso le offerte agli dei o ai morti. Prima di tutto contava l'atto stesso di farle, in un certo posto e con certe cerimonie, poiché simboleggiava l'unione con la Madre Terra. Di qui il collegamento delle coppelle, per la loro forma, con l’organo sessuale femminile e quindi con la fertilità, da cui derivarono i riti di impetrazione della pioggia, che della fecondità è la premessa. A La Ferrassie, in Francia, un macigno reca l’incisione di coppelle e vulve paleolitiche.

Altre interpretazioni, che non escludono necessariamente le precedenti, ma si riferiscono probabilmente a una fase successiva, partono dalla constatazione che spesso le coppelle scavate in un masso sono disposte secondo un disegno e collegate da canaletti. Questo da un lato le ricollega a riti sacrificali connessi con la pioggia, poiché è probabile che nei minuscoli solchi si potesse far scorrere l’acqua o il sangue delle vittime, o addirittura allo scopo vaticinatorio, studiando il corso preso dall’acqua nelle varie ramificazioni. D’altro lato si è pensato invece a un fine pratico, cioè la rappresentazione di mappe di sorgenti o persino di villaggi.

Un dato importante è la conformazione del masso su cui le coppelle sono scavate, generalmente con la superficie piatta o in lieve pendenza, ma quello determinante è la collocazione, assai sovente in un luogo dominante e aperto, esposto al sole (connessione con la fecondità), oppure lungo un percorso. Vi sono rocce dalla superficie “giusta”, ma senza coppelle. In Valle di Susa, su 25 massi coppellati significativi, 12 sono in posizione panoramica, 15 presso un sentiero. Nelle valli Chisone e Varaita troviamo siti non solo dominanti, ma addirittura esposti, sull’orlo di precipizi, come il Rocio Clapier, le Roccerè, il Roccias Fenestre.

Con il volgere del tempo dalle coppelle derivarono nuove forme, riti, funzioni. Era frequente lo scavo di due coppelle unite fra loro da un canaletto, di dimensioni anche notevoli. Ciò accadeva altresì per le pietre tombali o per lastroni di vario utilizzo, ad esempio terapeutico. A Menetol, in una grande lastra forata a coppia di coppelle, l’apertura era tale che vi si facevano passare attraverso i bambini malati per curarli. In Svezia, fino ai primi del ‘900, si soleva deporre i piccoli infermi su un masso con coppelle riempite di grasso, come offerta ai defunti. In molte zone fu frequente l’uso di lavarsi gli occhi con l’acqua piovana in esse contenuta. Poco per volta, però, la concezione sacrale si affievolì e si perse, cedendo il posto all'uso propiziatorio.


Un caratteristico ponte megalitico presso Vrù, Val Grande

Qualche decennio fa, sui monti del bresciano, un anziano montanaro mi raccontava di aver appreso dal padre, per propiziare la pioggia, a scavare una coppella quando la siccità si prolungava. Secondo me anche un oggetto umile come il “councet”, la vaschetta circolare di pietra contenente acqua o mangime per le galline, fu in origine un oggetto con un qualche significato sacrale. Tempo fa ne acquistai, da un’anziana montanara della Vana di Ceres, una che risale quanto meno al suo trisnonno e che, alle estremità del diametro, reca incisa una croce.

Nelle Valli di Lanzo è presente un discreto numero di massi con coppelle e altri tipi di incisioni. Un esempio è la cosiddetta Pietra dei Giochi, non lontano dalla borgata Adriera di Usseglio (e, guarda caso, nei pressi sorge la cappella della Madonna della Neve), lungo la strada per Pian Benot. Un altro caso, ancora nei dintorni di Pian Benot, lungo la valletta che sale al Colle delle Lance, è il masso tabulare posto accanto a un evidente macigno isolato. Al di sopra di Mondrone (Val d’Ala) troviamo la roccia della Pereuva, il cui lato a valle reca molte incisioni. E ricordiamo ancora il masso coppellato presso San Giacomo di Moia e le coppelle multiple vicino al Rifugio Salvin, in Val Tesso. A Pianetto, una delle frazioni di Usseglio, accanto a un’altra cappella dedicata a San Giacomo, si trova una fontana a dolmen con sessantatre incisioni.


Le incisioni pastorali

L’antichissima tradizione dell’incisione rupestre è continuata fino al ‘900, sia pur spogliata della sua funzione sacrale e ridotta a motivo propiziatorio, nel mondo dei pastori. “Rimase il segno, perché inciso nella pietra – dice il Magni – ma scomparve l’intenzione”. Secondo molti studiosi lo scopo era spesso quello di lasciare un segno della propria presenza, tanto più che, un po’ ovunque, in Piemonte come nell’Abruzzo, la maggior parte di loro proveniva da zone lontane da quelle in cui svolgevano le proprie mansioni. Addirittura si attribuiva tale abitudine all’esigenza di vincere la noia, nelle lunghe giornate trascorse a sorvegliare il gregge (cosa che non accadeva ai contadini, che avevano una sede fissa o una stagionale abbastanza vicina al villaggio). Ma in tale passatempo i pastori utilizzavano i “segni” giunti dalla preistoria, se mai più stilizzati, ma tali da confondere, non di rado, gli studiosi di oggi. Così come, anche nei villaggi, quelle che erano parse antichissime incisioni retiformi altro non erano che lo schema per il gioco del filetto.

Altri segni a noi sembrano semplici ornamenti di una scritta, ma sono simboli tramandati fin dalla preistoria. Secondo Piercarlo Jorio costituiscono la risposta a un patire collettivo e perciò la continuazione di un certo atteggiamento verso la negatività del reale. In epoche remote ogni attività o oggetto quotidiano aveva una valenza sacrale, nel senso che richiedeva un’approvazione, un aiuto, una protezione divina. I petroglifi, al pari di un’attività artigianale come la lavorazione del rame o del ferro, non facevano eccezione. Altrettanto vale per l’abitudine di incidere il nome del muratore o del committente sull’architrave; ancora nel tardo Medioevo gli scalpellini incidevano il proprio su una delle tante pietre lavorate dell’edificio.

Le montagne delle Valli di Lanzo sono costellate di incisioni pastorali, a volte solo date e sigle, in altri casi scritte e immagini più complesse, ispirate tanto alla quotidianità quanto alla religiosità o a scopi propiziatori. Secondo me l’esemplare più prezioso è una stele presso l'Alpe Rossa, lungo il percorso che dal Pian della Mussa sale ai laghi del Rù e Mercurin: un’incisione in caratteri perfetti (con l’augurio di ritrovarsi davanti a Dio), completata da un sole antropomorfo. E dopo l’alpeggio, proseguendo verso la meta, soprattutto in un passaggio nella conca delle Piane, le rocce sono veramente coperte di scritte; dello stesso tipo sono quelle al Colle Battaglia, sulle cosiddette “pere dousse”, lavorabili più agevolmente. Osserva Inaudi su "Barmes News" che nel 1800, con l’incremento demografico, anche l’allevamento delle capre assunse maggiori proporzioni. A Balme i ragazzi erano mandati a pascolare il piccolo gregge familiare in luoghi impervi, come le balze rocciose che scendono dal Mercurin e dal Rù. Ognuno aveva i suoi “posti” e incideva la roccia con il coltello. Assai suggestivo è anche il già citato masso a balma, isolato nella piana dei Lombardi, sopra Malciaussia: era l’unico riparo disponibile nel brullo fondovalle ed è coperto di scritte ed immagini, di origine pagana, ma anche cristiana, come la croce sul calvario. Talvolta troviamo incisioni anche in punti impossibili, come quella sull’esposto crinale che unisce il Colle della Crocetta al Moriond.



Il caratteristico Passo delle Mangioire, Val d'Ala-Val di Viù

Le pietre confinarie

Un discorso analogo è possibile per i “termou”, le pietre che fissavano i confini di poderi e pascoli. Nei tempi antichi, e ancora sotto i Romani, la collocazione di un termine era costituita da un solenne rito sacro, in cui, tra canti e invocazioni alla divinità, si versavano nell’incavo appositamente scavato frutti, miele, oggetti votivi cosparsi di vino. Non si trattava di quella che oggi è una semplice operazione dettata da motivi economici, ma di una cerimonia religiosa. Tanto è vero che, talvolta ancora nel tardo Medioevo, la punizione di chi spostava un confine era eseguita in forma rituale: la più consueta era seppellire il reo in modo che ne emergesse soltanto la testa, per passarvi sopra con cavalli e aratro. Anche il Deuteronomio condanna i violatori di confini.

Con l’andar del tempo, a seconda dei luoghi, la sacralità dell’operazione andò sbiadendo. Già tra i Franchi e nell’Editto del longobardo Rotari i colpevoli erano condannati a una forte multa. Ma bisogna pensare che i popoli germanici, con la loro origine nomade, erano meno legati al concetto di “termine”. Per loro il confine era stato segnato da elementi naturali, come un bosco, una landa deserta (uno spazio vuoto), in seguito da un albero con un simbolo inciso.

Nondimeno, nel mondo occidentale, il “termine” rimase fino al XX secolo elemento pregnante all’interno della società, e tanto più in montagna, dove il terreno coltivabile era scarso. Ancora nel 1800, in certe regioni della Francia, per far sì che un ragazzo si figgesse bene nella mente la collocazione di un confine, lo si portava sul posto e lo si schiaffeggiava. Fino alla metà del secolo scorso era consuetudine conficcare verticalmente una pietra nel terreno, ponendo a una certa profondità, alla base di essa, e coprendole di terra, le due metà di un sasso spaccato, spesso con una modalità segreta, come segno di riconoscimento e garanzia di un patto. Della sacralità, sia pur diluita, restava ancora una patina, come si è visto per le incisioni pastorali.


I “bonhom”

Lo stesso possiamo dire per un altro elemento tipico della civiltà montanara, e non solo, il cumulo di pietre a forma di torre, che sulle Alpi piemontesi viene denominato “bonhom” o “mongioia” o con altri appellativi. Si tratta di un elemento di cultura materiale assai diffuso, anche in altre parti del mondo, come l’Asia, noto fin dall’antichità. Un insigne archeologo, Emmanuel Anati, ne segnala la presenza nel Negev, dove sono chiamati “Nawamis” e sono connessi con il culto degli antenati, e soprattutto in Tibet e nell’Altai. Qui la tradizione, che ancora si conserva, si collega a saghe, pellegrinaggi in alta montagna, culto dei morti e degli spiriti ancestrali. Su tali strutture si issano pali, bandiere, emblemi riferiti ai pellegrini, si accendono fuochi e si effettuano offerte di cibo ai defunti.

Alle origini dei manufatti si possono individuare due filoni diversi. Da un lato era uso comune fra viaggiatori e pellegrini gettare via via una pietra su un cumulo che si andava ingrandendo, come voto o ringraziamento soprattutto a Giove o Mercurio; un’altra usanza era invece gettare un sasso sopra il tumulo di una sepoltura come segno di onore verso il defunto (ma è probabile che in tempi più lontani si trattasse di un rito per esorcizzare lo spirito del morto, fermandolo sotto le pietre affinché non tornasse a tormentare i vivi). Secondo alcuni studiosi la prima è una manifestazione di verticalità e di simbolo maschile, mentre nella seconda il tumulo ricorda il ventre gravido e si ricollega alla Madre Terra e ai riti di fertilità. Nell’un caso e nell’altro è evidente una concezione sacra, che poi con il tempo si venne affievolendo e si trasformò in atto propiziatorio.

Nell’ambito della sacralità, tuttavia, occorre distinguere varie interpretazioni. Ad esempio Piercarlo Jorio, come per i menhir, considera i “bonhom” dei segnali di punti di emanazione delle energie telluriche e perciò sede di particolari riti. Per altri potrebbero costituire dei doni votivi, al pari dei quadri ex-voto dei santuari. Invece, sul piano propiziatorio, vi sarebbe stata la credenza (testimoniata ad esempio per la Val Malenco) che stornassero i fulmini dalle case.

Con il trascorrere dei secoli, pur conservandosi la patina di sacralità, i torricini di pietra ampliarono il loro ambito semantico. Se uno di essi è stato eretto per voto, allora per chi verrà dopo costituirà l’indicazione che si è sulla buona strada e diventerà quindi un segnale di percorso; come tali i “bonhom” verranno in seguito collocati in particolari punti di un sentiero, ad esempio su un valico, o presso un pascolo. Di qui all’uso come segno il confine il passo è breve. Spesso, in tali casi, non si trattava di costruzioni particolarmente alte e accurate, ma di cumuli modesti, che nelle valli di Lanzo sono chiamati “calette” (e possono anche individuare un toponimo, tipo “Pian d’la Calëtta”, nel Vallone Vercellina).


Tratto di sentiero presso il Gias Piatou, in Val di Sea (Val Grande)

Nelle Valli di Lanzo, come altrove sulle Alpi, i “bonhom” sono assai comuni. Tuttavia c’è un sito in cui costituiscono un elemento del paesaggio veramente peculiare e significativo: è l’alpeggio di San Bernè, a quota 2000 metri, nel territorio di Chialamberto. Qui, in un'area ben circoscritta, compresa tra la fine dei pascoli e le pendici del monte Gran Bernardè (“bec di' Filounass” in patois) dalla caratteristica cima appuntita, sono concentrate decine di torricini. Come numero di manufatti, in Italia, ho notizia di un solo sito analogo nella Val Sarentina (Trentino). Rispetto a quest’ultima, tuttavia i torricini di pietra sono di ben altra dimensione (possono superare anche i tre metri) e soprattutto di fattura particolarmente accurata. Ve ne sono anche altrove di così perfetti, ad esempio nel Biellese o nelle stesse Valli di Lanzo, tipo quello bellissimo e posto arditamente su uno strapiombo presso l'Arp d'lou Rous in Val d’Ala, sopra Martassina, o un paio d’altri sulla dorsale di Punta Pian Spigo (forniti persino di “sc-ialè”), proprio di fronte a San Bernè; ma si tratta sempre di esemplari isolati. Qui invece sono situati in gran numero in una zona limitata nello spazio. Fanno eccezione quei pochi con funzione di segnale, presso le baite, ma soprattutto quel capolavoro del “Bonhom dou Cialvet”, visibile fin dal fondovalle. Esso ha certamente una funzione di orientamento, sottolineata dalle dimensioni (oltre tre metri), ma probabilmente anche sacrale, essendo provvisto di due nicchie laterali e di una finestrella. Naturalmente per opere del genere si può escludere che derivino dal consueto lavoro di spietramento.

Inoltre, appena a valle delle baite, allineati sul pendio, a San Bernè troviamo anche una serie di grandi parallelepipedi di pietre, che in un suo libro Jorio chiama “mongioie” (termine la cui origine è piuttosto discussa), ancora una volta di perfetta fattura. Certamente molti blocchi derivano dallo spietramento del pascolo, ma poi il materiale è stato collocato con gran cura. In ogni “mongioia” si sono sistemati dei grandi lastroni, portati lì appositamente, i quali, oltre a consolidare la costruzione, le aggiungono un indubbio valore estetico. Jorio le accomuna alle are antiche e ne ipotizza una funzione analoga. Siamo ben lontani dai rozzi cumuli da spietramento, così diffusi un po’ ovunque, qui in zona chiamati “mürgìa”. Non ho notizia di altri simili manufatti nelle Valli di Lanzo e, più in generale, sulle Alpi Occidentali. Se ne trovano alcune, di minori dimensioni, ma sempre perfette, lungo il sentiero che da Chiappili sale appunto verso San Bernè. È difficile dare una spiegazione di tali “mongioie”. Sembra che in questa zona ben circoscritta, l’alpe di San Bernè e il sentiero che vi accede, sia stato all’opera un gruppo legato a una particolare cultura della pietra. In passato varie categorie di lavoratori emigrarono, anche da lontano, nelle nostre valli, ad esempio minatori e carbonai bergamaschi e valsesiani. Tra i muratori registriamo la presenza di una famiglia, sempre di Bergamo, soprannominata “Piüma” per l’introduzione della tecnica “a spina di pesce” (opus liscatum). Non ci sarebbe da stupirsi, quindi, se qualcuno di fuori avesse portato in valle un nuovo modulo di costruzione, che è rimasto poi un caso isolato.

Sono un enigma anche i “bonhom”. Anzitutto c’è il problema della datazione. Certamente, come hanno osservato alcuni esperti, non sono preistorici, ma risalirebbero a pochi secoli fa. Tuttavia, al pari di altri manufatti litici, essi ricalcano moduli assai antichi che, questo è l’interessante, si sono tramandati così a lungo nel tempo, e proprio qui, visto che numerosi studiosi che ho interpellato, dalla Francia all’Abruzzo e alla Puglia, non erano a conoscenza di opere simili. La datazione sarebbe possibile, soprattutto ricorrendo a tecniche stratigrafiche, che sono però complesse e costose. Finora le istituzioni e gli specialisti, con il fatto che non si tratta di “roba” preistorica, non hanno mostrato interesse. Quanto alla destinazione, mi pare che la più attendibile sia la funzione votiva, sia pure solo a livello di ipotesi. Abbiamo visto che, per le incisioni rupestri, erano i pastori, nelle loro solitudini, a lasciare dei segni di presenza. Qui, però, siamo a due passi dalle baite. Si può pensare all’opera dei margari stessi (San Bernè è nominato nei documenti fin dal ‘300) o di garzoni assunti nell’alpeggio. Probabilmente lo avranno fatto anche per lasciare un segno della propria presenza, ma non mi sembra, da sola, una motivazione sufficiente, mentre potrebbe abbinarsi con il riecheggiamento di moduli sacrali antichi tramandatisi nel tempo e mantenutisi nell’inconscio collettivo almeno in funzione propiziatoria.


“Li piloùn”

Una continuazione della cultura verticale espressa dai menhir e poi dai bonhom sono i piloni votivi, che costituiscono uno degli elementi caratteristici del paesaggio di montagna. Normalmente sorgevano presso una casa o una borgata, eretti a scopo di protezione, oppure lungo i sentieri. In questo secondo caso costituirono un fattore di cristianizzazione dei luoghi, e in tal senso assunsero anche una funzione esorcizzante nei confronti delle antiche credenze e paure. Era frequente che un pilone sorgesse sul luogo di apparizioni diaboliche, tra le quali erano assai numerose quelle delle masche, spesso a esaudimento di un voto da parte di chi aveva vissuto la terrorizzante esperienza o anche per iniziativa di una comunità. Altre volte il pilone era costruito per una grazia ricevuta; e non mancarono i casi in cui, verificandosi nuovi miracoli e crescendo la notorietà, da esso si passasse alla costruzione di una cappella.

Sicuramente quelli più antichi furono di pietra a secco, né più né meno dei bonhom. Se ne scopre ancora qualche esemplare, praticando luoghi e itinerari ormai poco battuti. Assai interessante, ad esempio, quello lungo un tratto del vecchio sentiero (ormai in gran parte cancellato dalla sterrata) che conduce alla Cappella Giardino, nel territorio di Mezzenile. L’uso dell’intonaco, come anche per gli edifici, è un fatto abbastanza recente, collocabile ai primi del 1800.


L'antico ponte di Forno di Lemie, Val di Viù

È abbastanza frequente trovare un pilone votivo a un crocicchio. Tale punto di percorso fu oggetto di credenze disparate anche nell'antichità. La divinità preposta ai trivi, presso Greci e Romani, fu Ecate, una dea assai complessa e mutevole nelle sue manifestazioni e nell'iconografia. Proveniente dall'Oriente, da taluni fu identificata con Artemide, ma finì per assumere connotazioni ora positive ora negative, in quest'ultimo caso legate alla notte e all'oltretomba; come tale era capace di proteggere, ma anche tormentare gli uomini, che dovevano cercare di placarla o rendersela propizia con sacrifici.

Il trivio era considerato un punto di passaggio, una sorta di terra di nessuno tra due percorsi, due spazi diversi, e perciò carico di valenze simboliche. Di qui la necessità, per gli antichi, di porlo sotto la protezione di un nume. Per questo fu frequente la costruzione di tempietti o edicole presso i crocicchi o altri punti particolari di passaggio. Con l'andar del tempo, ma certo non dappertutto, le offerte votive si trasformarono in occasione di feste, che a loro volta degenerarono nell'orgiastico (onde la parola “triviale”) e furono represse. La paura dei crocicchi continuò in epoca cristiana, sia pur in forma diversa: ora erano il diavolo o le masche a terrorizzare i passanti.

Timori analoghi caratterizzavano i ponti, che a loro volta rappresentavano il varcare una soglia e divennero spesso oggetto di credenze e superstizioni. Le tante leggende, talvolta tardive, di ponti “del diavolo” si ricollegano a questo tema. Non era raro, quindi, che all'imbocco (o addirittura sul ponte stesso, come a Forno di Lemie) si costruisse un pilone votivo per esorcizzare il “soprannaturale”. Sul discorso del passaggio ci si potrebbe soffermare a lungo, poiché le sue valenze simboliche investivano, nell'immaginario collettivo, molteplici aspetti. Pensiamo ad esempio alle credenze sul ”corso dei morti”, le processioni di trapassati che si diceva (e alcuni lo affermavano con convinzione) percorressero nella notte certi sentieri. Ebbene, si raccontava tra l'altro che, se un vivo si fosse unito a loro, davanti a un ruscello avrebbe dovuto distendersi sull'acqua come una specie di ponte per farli passare.

Nelle Valli di Lanzo, almeno di alcuni piloni, si ricordano ancora le leggende o i motivi d'origine.

Tale è il caso, ad esempio, di quello di San Pancrazio sopra Balme, che fu edificato appunto come voto, dalla vittima di una di queste apparizioni diaboliche. La costruzione è assai caratteristica: situata al di sopra di strapiombi rocciosi, per la sua struttura slanciata, che ricorda un menhir, è un tipico esempio di culto della verticalità. Per motivi analoghi sorse il pilone posto presso Borgiallo, in Valle Orsiera, visibile lungo un tratto superstite dell'antico sentiero.

Un elemento essenziale dei “piloun” è la nicchia, che conteneva una o più immagini dipinte o la statuetta della Vergine o di un santo. Tale elemento architettonico compariva di frequente anche sui muri esterni delle case, per impetrare protezione. Essa costituisce una presenza d'origine assai antica e di valenza sacrale, poiché lo scavo della pietra, come nel caso delle coppelle, costituiva un a forma di contatto con la Madre Terra. Ne troviamo due esempi significativi nel vallone Saulera, sopra Mezzenile, presso le borgate del Cinaveri e di Rosta.


I sentieri

Degli antichi tracciati solo una parte è scampata all'abbandono o, peggio ancora, alla costruzione di strade e trattorili. Alle quote più basse si sono spesso cancellate o lasciate a se stesse le “viassi”, mulattiere più ampie protette da muretti. Solo perché, per mera convenienza, alcune carrozzabili hanno seguito altri percorsi, si sono salvate le “viassi” da Cantoira a Vrù e Lities o da Chialamberto a Vonzo e Candiela o gli splendidi muretti alle spalle di Piazzette (Usseglio).

Dove i luoghi erano più dirupati, si sfruttavano le cenge rocciose naturali o se ne costruivano appositamente, con incredibili muraglioni a secco. Pensiamo a certi passaggi del Vallone Saulera di Mezzenile (spesso in abbandono) o all'ardito tracciato che dal Ciavanis (Vonzo) conduce al lago del Bojret (Locana). Il fondo di una mulattiera poteva essere costituito da acciottolato (“sterni”), usato anche per le stalle, o da spesse lose, specie dove occorreva realizzare dei tratti scalinati o attraversare pietraie. Si possono ammirare dei passaggi spettacolari per la perfezione del lavoro, come nel vallone della Lombarda, sopra Chialamberto, e soprattutto, nell'Alpetta, la Vi' di' Palas, tra Gias Costa e Pian d'le Cialme. Se il pendio era molto acclive, il tracciato era protetto da robusti muri di contenimento (“mü countratera”), ad esempio la Vi' Merchenda, da Mezzenile verso Vana, Almesio e il Ponte delle Scale. Capolavori ancora più imponenti si osservano nel Cuneese, dove passavano le Vie del Sale, mentre le nostre valli non hanno vie di transito così comode.


Tratto di sentiero con le caratteristiche “dentelles” ai Rivotti, Val Grande

Spesso capita, percorrendo un tracciato, di scorgere un breve tratto di muretto a secco isolato, coperto superiormente da lastroni. È quella che veniva chiamata “posa”: serviva ai montanari, costretti a lunghi spostamenti sotto pesi incredibili, per appoggiare momentaneamente il carico e riposare per qualche istante.

Le “viassi” erano fiancheggiate da muretti anche per impedire che gli animali uscissero dal percorso (la “vi' di' vacchas”, mentre ciò non era necessario per la “vi' di' gens”). Di solito le pietre erano disposte orizzontalmente, una sull'altra, con blocchi non lavorati (“opus incertum”). Talvolta però, su una base orizzontale, se ne collocavano altre in verticale, conficcate “a coltello” una stretta all'altra, in modo che il muro fosse più resistente. Se ne trovano anche in altre regioni, ad esempio in Lessinia.

Altrove si conficcavano nel terreno, verticalmente, dei lastroni che da noi sono chiamati “dentelles” (usati anche per le “roie”). Si tratta di una tecnica assai diffusa in Italia, dal Piemonte al Veneto o all'Abruzzo, utilizzata soprattutto dove un tracciato doveva attraversare una zona prativa. È il caso del passaggio di accesso alla chiesetta dei Rivotti. Davvero significativo è il tratto a monte di Celle (Val di Susa), in direzione di Fontana Barale, dove i lastroni sono di proporzioni notevoli, simili a dei menhir, e ancora più imponenti sono gli allineamenti di “laste” della Lessinia, sia per le dimensioni dei manufatti sia per la lunghezza dei tracciati.

Siamo di nuovo in presenza della cultura della verticalità che abbiamo citato per i menhir. “Laste” o “dentelles” che siano, richiamano indubbiamente gli elementi dei cromlech, un'altra tipologia di monumento preistorico a larga diffusione. Ad esempio sono significativi i resti del cromlech di Prese Rossi, il sito archeologico sopra Valgioie che abbiamo già nominato. Se quest'ultimo rivestiva un preciso significato sacrale, qui siamo comunque in presenza di un modulo che, non sappiamo per quali vie, si ricollega all'antichissima cultura, così comune, della verticalità. Le “laste”della Lessinia, tra le altre, nella base interrata hanno un foro, che consentiva di legarle e trasportarle tramite animali. Ma tra i reperti preistorici registriamo anche grandi lastre di pietra, con fori costituiti in genere da due coppelle unite fra loro, utilizzate come altari e aventi, in credenze non così lontane nel tempo, un potere terapeutico per la loro emanazione di energia. È insomma tutto un intreccio di elementi in cui il nuovo, per vie a noi misteriose, si ricollega all'antico.

Dal punto di vista strutturale un elemento significativo dei sentieri alpini sono i tratti gradinati, che consentono il superamento dei punti più ripidi e disagevoli. In questo i montanari diedero prova della loro abilità tecnica e genialità costruttiva per rimediare alle difficoltà del transito, soprattutto degli animali. Si potrebbero citare numerosi esempi al riguardo, prendendo spunto dalle “viassi”. In certi punti, dove la mancanza di spazio non consentiva altrimenti, per passare da una cengia coltivata all'altra, si predisponeva uno “sc-ialè”, una sorta di scala pensile con lastroni conficcati nel muro a secco (una pratica diffusa in varie regioni italiane). I montanari vi passavano disinvoltamente, sotto la mole di pesanti carichi.

La scala, connessa con il tema del passaggio, fu a sua volta un elemento di grande valenza simbolica nel mondo primitivo (se ne rilevano molte rappresentazioni tra le incisioni rupestri) e nella cultura popolare. Perciò la ritroviamo assai sovente nell'accesso ai santuari ed altri luoghi di culto. Nelle Valli di Lanzo registriamo numerosi esempi di scale composte da 365 gradini, uno per giorno dell'anno, naturalmente per un fine sacrale, di cui si è perso il preciso significato: pensiamo alle cappelle del Ciavanis e della Frassi e, fino a qualche decennio fa, anche al Santuario di Forno Alpi Graie (dove, per evidente scopo speculativo, sono diventati 444). Era consuetudine diffusa, ancora negli anni '50, che i pellegrini, per voto, percorressero in ginocchio, pregando, queste gradinate. La scala diventava così il simbolo di un percorso verso il divino.


Il testo riprende e amplia un articolo apparso sulla rivista “Panorami”. Si ringraziano il Direttore e la Redazione per la gentile disponibilità.


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