Leggende e Tradizioni |
La Stèila |
18 Ottobre 2012 | ||||
Uno strano fenomeno tramandato nei racconti degli anziani delle Valli di Lanzo
Per tanti anni, il fascino di un curioso fenomeno naturale è rimasto per me un mistero. Quando bambino e poi adolescente trascorrevo alcuni giorni in alpeggio coi nonni materni, mi ritrovavo immerso in un mondo che era un po’ la congiunzione tra il medioevo e la modernità. In Val d’Ala, Piemonte, nei caseggiati della Coumba e di Pian dla Trènt, stazioni transitorie della monticazione estiva [il trasferimento delle mandrie all'alpeggio, NdR], venivo a contatto con aspetti di vita che ben presto sarebbero stati sostituiti in un primo tempo dai ricordi, quindi da successive immagini di abbandono e poi, in ultimo, dalla rovina. Solo molto tempo più tardi, avrei scavato nel mio vissuto per ripescare significati e curiosità, o per riscoprire sensazioni e reminiscenze, nel tentativo, probabilmente parziale, di trasmettere qualcosa a quanti sarebbero venuti dopo, nell’auspicio che almeno qualcuno ne avesse un minimo interesse. Nessuna parola e nessuna immagine potranno mai restituire l’odore del carburo utilizzato per alimentare le lampade per l’illuminazione, oppure l’effluvio che ti accoglieva ad ogni transumanza, nell’arrivo ai casolari della stazione successiva, emanato da un miscuglio di vegetazione e di traspirazione del terreno, in una combinazione che variava da luogo a luogo. E nemmeno le suggestioni particolari che si manifestavano nel rimanere rintanati durante gli acquazzoni estivi, stretti attorno al camino, oppure negli umidi mattini d’estate, quando sotto le coperte scorgevi la nebbia che cercava di infilarsi nelle larghe fessure della porta. E i sapori incancellabili della panna raccolta sotto il coperchio della zangola (lou bouèrou souta aou cuvèrquiou), della ricotta liquida (lou varcòl) immersa nel canale dell’acqua (la roia) e rimestata fino al raffreddamento, e poi consumata con la polenta. Per non parlare del risotto riempito di burro fuso un po’ abbrustolito e toma che, là in alto, lontano dai sensi di colpa di un colesterolo in agguato, sembrava ancora più buono. Come scordare poi il ritorno sotto il cocente sole pomeridiano, dopo la discesa con l’asino carico di panetti di burro e forme di toma per servire i clienti, salvo poi ritornare con le provviste necessarie per i giorni successivi. O ancora le serate trascorse ascoltando la radio gracchiare programmi musicali in onde corte (ricorderò sempre Radio Lubiana…). In quello che era un po’ un servizio di collaborazione ai nonni e un po’ un’iniziazione alle ruvide regole della vita in montagna, sentivo spesso racconti di vite vissute, di personaggi quasi leggendari e di notizie ordinarie della vita di tutti i giorni.
Mi capitava di accompagnare le mandrie al pascolo, e proprio in una di queste occasioni, mio nonno Neti (Giovanni Maria Castagneri), mentre le mucche si saziavano delle erbe nell’ampio vallone della Serandàtta e dell’alpeggio diroccato detto Fountàna Cuverquià, mi mise al corrente dell’esistenza della stèila. Stèila, termine che in dialetto significa stella, era un segnale luminoso che attorno a mezzogiorno dell’ora legale, alle undici di quella solare, appariva sul versante roccioso detto di Piatouràt, esposto appunto a mezzogiorno, che si trova di fronte, poco a monte della frazione di Bogone. Quando esso cominciava a evidenziarsi, mio nonno sapeva che era l’ora di radunare le bestie e iniziare il percorso di ritorno verso casa. Per un ragazzino questo era un fenomeno realmente sorprendente, ma a dispetto delle ripetute spiegazioni, in quella parete immensa fatta di pietra e spaccature, cenge erbose e rigagnoli, arsa dal sole e terreno prediletto dagli stambecchi, io non riuscii mai a distinguere questa curiosità. Soltanto mi rimase impressa la particolarità morfologica della roccia, all’interno della quale, quel qualcosa che brillava mi risultava inspiegabilmente nascosto. Solo qualche decennio dopo, nella mia amatoriale ricerca di appassionato di storia e di cultura locale, svelai l’arcano. Accidentalmente, salendo al Pian della Mussa, alzai la testa e mi apparve, come una rivelazione, la soluzione del mistero. Quello che mi aspettavo fosse un qualche segnale sfavillante, altro non era che un gioco di luci che, proprio a mezzogiorno, fa sì che nella larga spaccatura ombrosa di una grande balza rocciosa, proprio quella che ricordavo, appaia, per poi allargarsi lentamente, una piccola sporgenza di pietra illuminata dal sole. Dal sentiero che da Balme conduce al Pian della Mussa, nei pressi di Bogone, che si trova a valle della conca della Serandàtta, si assiste senza difficoltà al curioso fenomeno. Come avviene in tutte le aree montuose dell’arco alpino, si tratta di una meridiana naturale, nel gergo specifico definita “cronotopo”, che sfrutta la conformazione del suolo per mostrare l'ora. È un po' come la Rocca di Nona di Ala, che dovrebbe indicare, nel punto di allineamento tra il sole e la chiesa, l’ora nona, le quindici attuali, retaggio della suddivisione approssimativa della giornata nelle ore canoniche, sviluppata nella chiesa cristiana per la preghiera in comune. Nel nostro caso, pur non assicurando una precisione svizzera, la stèila ha garantito per secoli quella funzione che probabilmente sarebbe mancata diversamente, con la scarsità di orologi e in luoghi dove è difficile in ogni caso sentire il rintocco delle campane. Chissà quanti di questi riferimenti, un tempo conosciuti e utilizzati sul territorio, sono scomparsi assieme a coloro che ne hanno tratto un beneficio. O meglio, ne sono sopravvissuti, ma più nessuno saprà individuarli, come una lingua desueta che non si è più in grado di comprendere. Senza bisogno di ricarica e per chissà quanto tempo ancora, la stèila sarà a disposizione di quelli che sapranno riconoscerla e interpretarla, semplicemente sollevando un po’ il capo per scrutare lassù, dove non tutti, come è successo al sottoscritto, hanno sempre la capacità di vedere.
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