Il blog di Stefano Milla

Campi Elisi

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13 Marzo 2014


Non sono le battaglie, le grandi scene di combattimento, la grandiosità degli effetti speciali e la storia appassionante. Credo fermamente che i cinque Oscar vinti da "Il Gladiatore" siano dovuti ad un'espressione che Russell Crowe ci mostra per forse un secondo. Non so se è un'intuizione di Ridley Scott o se è davvero la bravura di Crowe, ma quell'istante rende il film unico. Da Oscar. È quando, dopo già mille peripezie, il nostro eroe è arrivato a Roma e all'uscita del Colosseo, tra la folla, un suo fedele riesce a consegnargli un piccolo borsello di pelle.

Nell'intimità della sua cella, l'imbattibile gladiatore, capace di cambiare le sorti del mondo, estrae dal borsellino le piccole statuette che rappresentano la moglie e il figlio tragicamente perduti, in sua attesa nell'aldilà. Quegli oggetti sono l'unica connessione che lui ha con l'amore e la vita, a dispetto del fatto che gli è stato tolto tutto nel più lacerante dei modi, quelle due statuette sono tutto ciò di cui ha bisogno per vedere ancora la luce. Alle sue spalle gli si avvicina il gladiatore numida, quello col quale ha più confidenza, che gli chiede che cosa stia dicendo ai suoi cari. Il nostro eroe dice che sta consigliando al figlio come cavalcare, mentre ciò che sta confidando alla moglie sono fatti suoi. Scatta il sorriso ad entrambi i gladiatori, seppur amaro e malinconico, ed ecco l'istante magico: Crowe si volta verso le statuette ridando le spalle al suo compagno di sventura ma poi si rivolta verso di lui con uno sguardo fugace, difficile da descrivere a parole. Mentre stringe più forte le statuette ha una sorta di assenso verso il numida, un leggero cenno con la testa e gli occhi sfuggenti di chi si accorge troppo tardi che non si possono più trattenere le lacrime. Un'espressione che trasmette sicurezza ma fragilità, che fa capire che per quanto si trovino in una cella buia e sporca, non ci sono istante e luogo più perfetti in tutto l'universo. È la fierezza di essere vivi, e sapere che ora tutto è compiuto.

Non mi trovo in una cella e in sottofondo non ci sono le note epiche della colonna sonora, ma credo sia esattamente in quel modo che un istante fa mi sono girato verso il proprietario del ristorante. È tardi, tardissimo; attori e troupe sono tornati agli alloggi e sono riuscito a restare solo per leggere l'e-mail che mi è arrivata durante la cena. Non riesco ad andare oltre la prima parola: "Congratulations!" È una parola che profuma di sole. Il proprietario del ristorante mi avrà preso per deficiente. Io son qui come il Gladiatore che immagina i campi di grano, lui aspetta il bancomat. Io so che posso tornare a casa. Casa. Dove gli scoiattoli che scrutano dalla finestra della cucina finalmente avranno di nuovo un pubblico per il loro spettacolo mattutino; dove i sogni sono diventati reali e dove ricominciare tutto è possibile, ora che il Visto è approvato.

Sembro sotto anfetamine: tiro fuori il bancomat talmente veloce che lo sparo letteralmente come una carta da gioco sul tavolo. Devo uscire di qui, devo respirare.

La notte è strepitosa: il cielo limpidissimo mi fa sentire un astronauta tra le stelle, tanto sembrano vicine; la luna quasi piena si riflette sulle montagne innevate illuminandole a giorno. Vago, mi perdo tra i tornanti; è una notte che mi regala grandi sensazioni. Ma non sono finiti i regali di questa Valle. Qualcosa di ancora più grande sta per arrivare, reale, tangibile e importante, come la vita che ora respiro a pieni polmoni. Torno a casa. E questo è l'inizio.

 

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