Animalismo |
Una vita in difesa dei primati ed altre specie protette |
13 Febbraio 2017 | ||||||||||||||||||||
Intervista a Marco Fiori, Sovrintendente Capo del Servizio CITES del Corpo Forestale dello Stato, oggi assorbito dall’Arma dei Carabinieri
Esistono organismi internazionali che sono sorti sull’esigenza di tutelare le specie protette, la biodiversità, la natura. All’interno del Corpo Forestale dello Stato (CFS), che dal 1° gennaio 2017 è stato assorbito dall’Arma dei Carabinieri, opera il Servizio C.I.T.E.S. (Convenzione Internazionale per il traffico di specie esotiche) che si occupa di vigilare e applicare una convenzione presente attualmente in 181 Stati di tutto il pianeta. La CITES è compresa nelle attività del Programma delle Nazioni Unite per l'Ambiente (UNEP) ed è entrata in vigore in Italia nel 1980. L’attività investigativa del servizio CITES è formata da veri e propri “angeli custodi” che rappresentano la salvezza per molte creature che vivono in condizioni drammatiche. Uno di questi è Marco Fiori, Sovrintendente Capo del Servizio CITES del Corpo Forestale dello Stato. Marco Fiori si occupa di CITES da oltre 25 anni e coordina una unità investigativa nazionale del CFS. Nell’ambito di questa unità ha svolto le più importanti attività di polizia e di intelligence sul traffico di specie protette (primati, pappagalli, rapaci, rettili ecc.) e dei prodotti derivati (avorio, corno rinoceronte, medicine tradizionali, legname tropicale). Inoltre si occupa di comunicazione e formazione del personale sulle tecniche di identificazione e dei progetti di conservazione soprattutto legati alle specie e agli animali. Tra le tante specializzazioni, riconoscimenti e prove sul campo, l’esperienza che egli riconosce come la più formativa è stato l'ambito internazionale, facendo parte dal 1995 del gruppo Wildlife Crime Interpol, da dove ha avuto modo di conoscere e condividere esperienze analoghe in tutto il mondo. Nel marzo 2013 Marco Fiori è stato insignito del prestigioso premio "Clark Bevin Wildlife Award", dedicato a coloro che hanno destinato la propria vita alla tutela delle risorse naturali e delle specie minacciate. Era la prima volta che un rappresentante italiano veniva premiato tra i dieci migliori "Officers" che hanno condotto azioni per la tutela della natura e degli animali. Nell’ambito dei primati, e in particolare delle scimmie antropomorfe, ha curato la collocazione, il trasporto e la sistemazione di oltre 35 scimpanzé, tra cui molti esemplari giovani provenienti dal traffico illegale e da precarie condizioni di cattività. Ha curato direttamente l’avvio dell’attività di ricerca scientifica e di laboratorio condotta dall’Università Cattolica del sacro Cuore di Roma per la determinazione dei rapporti di filiazione attraverso l’individuazione di marker genetici nel DNA di questi primati. Le risultanze di questo lavoro sono state pubblicate sulla rivista scientifica “Nature”. Ha curato la realizzazione di Centri di recupero per individui “problematici” (anziani, aggressivi, asociali). È “Advisor” del Jane Goodall Institute U.S.A. e “socio onorario” del Jane Goodall Institute Italia ed ha effettuato numerosi viaggi in Africa per conoscere la situazione di alcune specie di primati minacciate.
Come è nata la decisione di intraprendere questo lavoro? Qual è stata la molla iniziale? Nutrivo, e nutro ancora, un grande interesse per il mondo naturale che ci circonda, quello vicino, partendo dalla dimensione contadina, dalla quale tutti proveniamo, passando per i nostri habitat mediterranei e forestali, per arrivare agli straordinari habitat dei paesi lontani; i luoghi sede della grande e variegata biodiversità del pianeta, le foreste primarie soprattutto, dove vivono, ad esempio, le grandi scimmie antropomorfe. Feci solo un concorso pubblico, nel Corpo Forestale dello Stato. Avevo conosciuto un forestale nel Parco Nazionale dello Stelvio alcuni anni prima. Mi aveva indicato un punto nella neve, invitandomi ad osservare in silenzio quello che poi risultò essere un bellissimo maschio di cervo. Mi aveva fatto innamorare di questo mestiere. Fui richiamato come riservista e abbandonai il lavoro di assicuratore ben pagato. Ho conosciuto forestali mitici che si sono spesi personalmente per salvare lembi dei nostri territori naturali, con conoscenza e saggezza. Volevo stare nella natura in un Parco Nazionale, proprio come il personaggio impersonificato da Terence Hill nella nota fiction RAI “Un passo dal cielo”. L’incontro con un secondo forestale specializzato in fauna esotica minacciata e operante già nella CITES mi appassionò a questa materia che seguo ormai da 25 anni. Ho avuto così l’occasione di girare il mondo per imparare molte cose sulle specie in via d’estinzione e sulle tecniche di contrabbando. Dal Parco di Gombe in Tanzania, alla Foresta di Kibale in Uganda per vedere gli scimpanzé in natura e trovare una casa per quelli sequestrati, alla Foresta Amazzonica per studiare la deforestazione, alle montagne del Tibet cinese per salvare l’antilope tibetana e la tigre, alle grandi Conferenze sulla CITES, dove i governi tentano di decidere insieme un uso sostenibile delle risorse naturali per salvare dall’estinzione le specie, ai workshop e training per imparare a collaborare insieme (Paesi di origine e di destinazione delle specie) in questa quotidiana lotta, avvalendosi di tecniche sofisticate di indagine e della cooperazione internazionale di polizia. La molla? Attraverso lo studio continuo per la conoscenza di oltre 35.000 specie protette dalla CITES (tra esemplari vivi, morti o derivati) oggetto della tutela della CITES, si ha la percezione dell’infinità del Mondo, della estrema potenza della natura, della infinita bellezza fatta di forme, colori, adattamenti e specializzazioni, ma anche della sua fragilità e dell’importanza del ruolo dei popoli nell’azione per salvare le specie e per assicurare il proprio destino. Un osservatorio privilegiato e l’unico che ci fa sentire superiori, in quanto parte e non dominatori del pianeta.
Come è stato il suo primo approccio con i primati? Mi sono occupato dei primi sequestri di primati in Italia e ho subito sviluppato, per iniziale dovere di conoscenza, una passione inaspettata per questi animali. Li ho visti subito così vicini al mio modo di essere. L’etologia, lo studio del comportamento di queste creature tanto vicine all’uomo, è stato il valore aggiunto che mi ha permesso di meglio apprezzarne le caratteristiche e le peculiarità. Fui mandato da solo a seguire una indagine sulla sospetta detenzione illegale di tre scimpanzé in Veneto. Venivano da Freetown, Sierra Leone, ed erano stati trasportati, attraverso la Spagna, in Italia, scortati da documenti falsi. In realtà venivano da una classica storia di uccisione dei genitori per essere mangiati ed erano stati venduti ad un noto commerciante spagnolo, che li aveva ceduti a dei fotografi italiani. Il magistrato inquirente, una donna, mi guardò e ascoltò con sorpresa e incredulità la mia storia e soppesò la valenza delle mie fonti. Mi dette fiducia e mi firmò il mandato di perquisizione e sequestro. Da lì capii che ero stato convincente perché mi appassionava la materia e l’idea di fermare il traffico illegale di una specie così formidabile. Poi ho notato che mentre molti erano un poco impauriti e “schifati” dal contatto fisico con queste scimmie, io ne ero attratto e loro, soprattutto gli scimpanzé, mi accettavano e favorivano il contatto con me. Ero più simile a loro degli altri uomini “simili” che avevano incontrato sino a quel momento? Possibile. Tra i sequestri degli scimpanzé, quale le è rimasto più impresso? Ce lo può raccontare? Moreno, un piccolo scimpanzé di appena 8 mesi, che, come dimostrammo poi nel corso delle indagini, proveniva illegalmente dalla Sierra Leone. Ballava per un fotografo ingaggiato dal circuito dei circhi, parliamo dei primi anni ‘90, abbigliato con un vestitino da clown. In questo modo ridicolizzato agli occhi del pubblico, perché in quel periodo l’idea che un animale tanto affascinante si muovesse ed avesse le sembianze così “umane” era ancora di moda, anche in Italia. Tanta gente ancora desiderava il piccolo di scimpanzé in casa come pet (animale da compagnia), era utilizzato molto nei circhi, dai fotografi e spesso nella ricerca biomedica clandestina. Eh sì, perché la vicinanza genetica così forte con Homo sapiens ha costituito da sempre la maledizione per questi primati. Sino al 98 % di DNA in comune con l’uomo. Ma nessuno aveva mai voluto considerare, nel mondo occidentale così progredito ed evoluto, che questa vicinanza, sfruttata anche per studi e ricerche non solo etologiche, ma anche invasive e di laboratorio (lo studio dell’HIV, delle epatiti, ecc.), si traduceva anche per loro in una percezione della sofferenza psicofisica dovuta alla riduzione in cattività, spesso in condizioni pietose, al distacco dal branco, dai genitori ed altro.
Moreno fu sequestrato da me dentro una roulotte del Circo Orfei a Livorno, insieme ad altri due (Peter e Sally), appena più grandi. Il fotografo li buttava in braccio agli spettatori in cambio di 20.000 lire a foto. Quando li portammo via soffrirono un poco, sicuro. Poi in un centro di Verona, dove c’era una donna straordinaria, Ruth, che li curava e gli faceva da capobranco, fu inserito in un gruppo sociale costituito da altri scimpanzé sequestrati e orfani. Ruth fece dormire Moreno ancora per mesi col suo vestitino da Arlecchino per non farlo soffrire del distacco da questo. Ora è un esemplare gigantesco, con muscolatura e pelo sani e fa lui il capobranco. Ma non ha più visto la foresta africana. Che genere di rapporto si stabilisce con i primati che lei salva da una brutta fine? Dipende, per loro è comunque un trauma l’incontro col proprio “salvatore” che è sconosciuto, che li sottopone a situazioni che causano ansia e paura; inoltre il distacco dal proprio padrone-capobranco-carceriere crea comunque un trauma, rompendo schemi abitudinari consolidati. Prova ne è che si opera in uniforme e da quel momento lo scimpanzé riserverà sempre diffidenza e violenza verso ogni divisa. Se il sequestro comporta un trauma (esempio narcosi con siringhe) allora l’agente o il veterinario che lo ha avvicinato rischia molto in futuro ogni volta che si avvicinerà. Al contrario, se si è attenti a non rendersi riconoscibili quando si usano anestetici o tecniche che incutono paura e si riserva loro affetto e compagnia, si legano a te, anche per sempre. Edi del Bioparco, sequestrata in un night club sul litorale marchigiano, ogni volta che mi vede, anche dopo mesi, mi lancia baci con le labbra appuntite e scatena la gelosia del capobranco che mi affronta caricandomi e rischiando di fracassarsi sul vetro dell’area degli scimpanzé. A Verona, ove ho portato oltre 15 giovani scimpanzé tra il 1992 e il 1999, sono tornato spesso e ho affrontato il gruppo entrando con loro, sino a quando questo non è stato più possibile per la loro mole e comunque aggressività non sempre gestibili. Gli scimpanzé sono tra i mammiferi più pericolosi in assoluto per l’uomo, soprattutto in cattività, perché non lo temono, e sviluppano gelosie o frustrazioni che possono scaricare con estrema violenza anche su persone “amiche”. Lei ha a che fare con molte specie in via di estinzione. Tra queste, le scimmie antropomorfe, le più vicine all'uomo. Questo fattore aiuta o per via dell’immedesimazione rende le cose più difficili? Chi fa un lavoro come il mio corre sempre il rischio di antropomorfizzare troppo l’immagine dell’animale che si tratta e che spesso si salva da triste destino. E questo si rivela ancora più facile trattando con le scimmie antropomorfe, ovviamente. Questo non ritengo sia corretto. Vero è che stabilire e osservare regole non è facile ed è comprensibile il legame che si può creare con questi esseri, soprattutto quando vengono trovati in condizioni sofferenti. Un sano rapporto con animali selvatici, a mio parere, risiede proprio nel rispetto della condizione di selvaticità, che si esprime attraverso una serie di bisogni che spesso l’uomo non considera o non è in grado di considerare.
Non serve al benessere e alla corretta gestione di un animale una bella gabbia, che piace all’uomo che la guarda. Serve assicurare ad un animale il diritto di vivere sereno, anche se in spazio ridotto, non per sua scelta, in condizione di cattività. In spazi appropriati, insieme ai propri simili, con arricchimenti ambientali che ne permettano il soddisfacimento degli elementari bisogni psicofisici (gioco, movimento, ecc.), con acqua e luce sufficienti, o penombra se la biologia e l’etologia della specie lo richiedono. Spazi adatti per tutelare la propria intimità in quanto anche gli animali amano spesso la privacy, e così via. Spazi idonei con poco cemento e molta terra, con tronchi per sfregare le unghie e il corpo. Le scimmie antropomorfe affascinano maggiormente perché guardandole fisse negli occhi è come se guardassimo i nostri antenati, con le luci e le ombre, come dirà la famosa primatologa Jane Goodall che li ha studiati in natura più di altri. Gli scienziati sistematici li hanno definiti primati e posti al primo posto nella classificazione delle specie, ma solo negli anni ‘90 li hanno chiamati e classificati ominidi. Quindi l’uomo ancora riserva imbarazzo e senso di colpa verso questi straordinari esseri viventi. Nei suoi viaggi in Africa a contatto con gli scimpanzé e i gorilla, quale esperienza l’ha colpita particolarmente? Entrare in un’area dove vive un gruppo di scimpanzé, mi è successo più volte in Tanzania e in Uganda, è emozionante e ci si sente indifesi, piccoli ed in balìa di questi intelligenti ominidi pelosi (singolare che noi uomini veniamo definiti “la scimmia nuda”). Mai sfidare il maschio alfa guardandolo negli occhi, mai introdurre in un branco paura e comportamenti ansiogeni, mai fare cose che le ferree regole della natura del mondo animale non contemplano. L’istinto e le pulsioni, la difesa della prole, del territorio e della femmina sono le regole principali in questo mondo. Per fare questo i primati stabiliscono una gerarchia precisa che ne permette la sopravvivenza. Va rispettata e allora l’esperienza è unica. A Gombe, su un sentiero paragonabile ad uno nostro in un bosco di abeti o in una faggeta, all’improvviso sentii davanti a me, senza ancora vedere alcunché, dei passi che scricchiolavano sulle foglie come quelli di normali escursionisti della domenica. Era un maschio anziano, allontanato dal suo gruppo, che procedeva nella mia direzione. Ebbene, l’emozione di incrociare sul tuo cammino un ominide che avevi lasciato tra i 2 e i 5 milioni di anni fa è un’esperienza unica.
Come avvengono i viaggi e i contatti per riportare queste creature in natura? Quali sono le difficoltà, gli incidenti o le problematiche connesse per il benessere animale? Vengono contattate le autorità (CITES) di riferimento dei Paesi del cosidetto “range” di distribuzione della specie in questione, oppure ci si affida a network che si occupano di conservazione delle specie come l’IUCN (Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), gli EEP (programmi europei per le specie minacciate), oppure alle istituzione scientifiche e accademiche. Gli animali sequestrati, benché la CITES, la Convenzione di Washigton che noi applichiamo per bloccare il traffico di specie protette, preveda il rimpatrio, raramente questi possono essere riportati in natura. Non sono più abituati a procurarsi cibo e a difendersi da competitori e predatori, possono veicolare malattie verso le popolazioni indigene; servono piani costosi di osservazione e controllo delle operazioni di reintroduzione in natura. In alcuni casi si è riusciti, soprattutto con rapaci, tartarughe, ma mai con primati. Alcuni progetti prevedono il rilascio in condizioni di semi libertà su isole o aree controllate e propri simili con storie analoghe di sequestri alle spalle. I contatti sono fondamentali per progetti di rilascio in natura o per reinviare esemplari nei Paesi di origine. Nel 1993 andai in missione ad incontrare le autorità del Kenya, dove esiste un centro di recupero per scimpanzé orfani alle pendici del Monte Kenya. Lì conobbi Jane Goodall, che condivise subito con me la problematica di affidare e tentare una collocazione ottimale per decine di piccoli scimpanzé che andavamo sequestrando in Italia nei primi anni di applicazione della legge CITES (1992). Nel caso si riesca a trovare una collocazione in ambito internazionale, va predisposta una organizzazione che preveda mezzi idonei soprattutto per evitare malessere agli animali. Molto spesso ci si avvale di centri di recupero o accoglienza che collocano questi primati in aree controllate, come isole o aree circoscritte da grandi recinzioni, che impediscano un contatto con le popolazioni indigene per evitare contaminazioni sanitarie o fenomeni aggressivi e di non accettazione.
Nel suo lavoro di formazione dei rangers in Africa quali sono le maggiori difficoltà che ha incontrato? Quello che più mi preoccupava era apparire come il “poliziotto bianco” che viene dal mondo occidentale, che sembra per antonomasia superiore, senza dubbio provvisto di mezzi e risorse, ma che in fondo poco sa della realtà di tutti i giorni sul campo ed in quei luoghi. In realtà sapevo che dietro quei volti che mi guardavano dal basso verso l’alto c’era gente di grande esperienza, grande professionalità, grande saggezza, forse pochi mezzi e risorse, ma grande dignità. E ho sempre pensato che io fossi lì più per imparare che per insegnare. Che avrei tratto molte più cose di quelle che avrei lasciato con i miei contributi formativi. Tuttavia fui sorpreso del grande interesse riservato alle nostre tecniche di investigazione e di polizia ambientale.
Alle nostre esperienze. Raccontai loro dell’antibracconaggio in Sicilia contro gli abbattimenti di rapaci migratori, di quello nel bresciano contro pettirossi con l’uso di archetti e reti, di quello contro la fauna e gli uccelli migratori a Palmarola, Ponza, Ischia e nelle Saline di Margherita di Savoia, delle operazioni CITES contro il traffico di specie protette, delle indagini sui rifiuti e di come indagavamo sugli incendiari e i trafficanti di rifiuti. Nel contempo è stato affascinante capire invece le loro problematiche. Ogni anno in vari luoghi d’Africa muoiono decine di rangers barbaramente uccisi dalle bande di trafficanti e bracconieri somali o sudanesi che arrivano con potenti jeep e fucili mitragliatori per abbattere elefanti e rinoceronti e ricavarne l’ “oro bianco”, l’avorio. Fare il ranger è un grande privilegio per un ragazzo keniota, ugandese o tanzaniano. Così com’era entrare in banca qualche anno fa in Italia. Significa assicurare un lavoro col quale sostenere la famiglia numerosa e le famiglie vicine, in un contesto spesso di depressione economica e di povertà. Ma i rischi sono enormi per gente che tutto sommato impara poi a credere nel proprio lavoro e nella propria missione. Tutelare e proteggere la variegata fauna africana, la risorsa più importante per mantenere la biodiversità di uno dei continenti più affascinanti del mondo e l’opportunità di sviluppo e crescita sociale. Trovarsi in pattuglia a decine di chilometri di distanza da qualsiasi centro abitato, nella savana, tra un branco di elefanti e una banda di bracconieri armati, spesso può voler dire morte sicura. Questa spesso è la vita dei rangers africani. Lei ha sostenuto che le scimmie antropomorfe rappresentano il "lato oscuro" dell'uomo. In che senso? Gli studi degli ultimi 30 anni hanno dimostrato che le scimmie antropomorfe, soprattutto gli scimpanzé, presentano caratteri comportamentali talmente simili all’uomo che hanno stimolato sempre più l’interesse non solo degli studiosi di scimmie ma anche di quelli che studiano l’evoluzione, la psicologia e l’antropologia della specie umana. Questi caratteri sono importanti e serve conoscerli anche per chi fa il nostro mestiere, serve a meglio capire come rapportarsi con loro, come trattarli, come capire e interpretare la soglia della loro sofferenza psicofisica.
Gli scimpanzé, oltre a usare erbe per curarsi, mangiano carne e cacciano in maniera organizzata e cooperativa, si costituiscono in clan e organizzano guerre tra gruppi che si dividono i territori, praticano sporadicamente il cannibalismo, utilizzano tecniche raffinate e creative per l’ascesa sociale dentro al gruppo, sono stati osservati danzare davanti ad una cascata come a mostrare l’esistenza di una propria spiritualità, insomma presentano caratteri che per l’uomo possono rappresentare uno “specchio” delle proprie virtù intellettive e sociali, ma anche dei lati oscuri che hanno afflitto e affliggono ancora l’umanità. Lo studio del comportamento dello scimpanzé pigmeo o bonobo, una specie di relitto che ha conservato tratti etologici ancora più singolari, si è spinto oltre. I bonobo al contrario degli altri primati non fanno guerre, ma le sublimano col sesso ritualizzato, che viene praticato anche tra maschi o tra femmine, come tra giovani; non litigano per il cibo, praticano il sesso non esclusivamente per l’accoppiamento, e lo praticano, unici tra i mammiferi con esclusione dell’uomo, guardandosi in faccia. Quindi una serie di comportamenti nei quali possono essere visti, ritualizzati o al livello ancestrale, quelli che potremmo definire i lati luminosi, ma anche quelli oscuri che hanno caratterizzato l’evoluzione dell’uomo stesso. Per questo questi primati meritano tutto il nostro rispetto, perché sono animali e in quanto tali vanno tutelati come tutte le forme viventi presenti nel mondo, ed in più sono, per le caratteristiche sopradette, in grado di soffrire e gioire ad un livello molto simile al nostro. Ed infine, così importanti per capire sempre meglio la specie umana.
Quali sono i casi più difficili tra quelli che ha affrontato nei sequestri dei primati? Il primo caso che trattai riguardò due scimpanzé detenuti in un Circo nel veronese. Nei primi anni ‘90 il sistema di frode più usato per trafficare piccoli scimpanzè, che venivano pagati dai 5 ai 20 milioni di lire, era quello di certificare falsamente la nascita in cattività, con l’aiuto di veterinari compiacenti, come se fossero nati da vecchi esemplari detenuti da prima dell’entrata in vigore della Convenzione di Washington in Italia (1980). Ogni sequestro in Tribunale si vanificava, perché era difficile dimostrare invece con prove inattaccabili che questi piccoli erano illegali. Fu questo il caso dove sperimentammo per primi che poteva essere dimostrata con un esame di laboratorio la falsità di queste dichiarazioni. L’Università Cattolica di Roma si prestò a fare una ricerca di laboratorio utilizzando marker genetici dell’uomo sugli scimpanzé tentando di sfruttare questa estrema vicinanza genetica di cui si conosceva già qualcosa per la ricerca biomedica, ma nulla sui rapporti di filiazione e paternità. La ricerca fu un successo, fu pubblicata su “Nature” e servì a dimostrare la colpevolezza degli illegali detentori nel caso dei due scimpanzé di Verona, che vennero quindi confiscati. Fu il primo caso di introduzione di una Forensic Laboratory Tecnique nelle investigazioni sul traffico di specie protette. L’Italia fu tra i primi Paesi al mondo. Dopo questi, altre decine di scimpanzé (oltre 40), per lo più giovani, tra un anno e i sette anni di età, furono sequestrati, contribuendo a stroncare il traffico di piccoli di scimpanzé verso il nostro Paese.
E quale è stata invece la soddisfazione più grande? In genere avere operato concretamente per bloccare il traffico illegale di questi primati e di altre specie e avere lavorato per assicurargli un futuro migliore e più dignitoso, anche se in cattività. È il caso di oltre 20 scimpanzé che vivono da anni su un’isola artificiale a Bussolengo, senza gabbie e tutti insieme, pur provenienti da storie tristi e diverse. È il caso degli otto scimpanzé adulti che nessuno voleva. Vivevano su un camion fatiscente con spazi di pochi metri, in un circo di stanza in Piemonte. Sequestrati e trasferiti con una rocambolesca operazione in un centro sull’Appennino, a Sasso Marconi, dove una famiglia eccezionale si è presa cura di loro costruendogli un’area idonea e ospitando altri scimpanzé orfani. Anche la storia di Christine merita menzione; una giovane oranga del Borneo sequestrata a Cinecittà, che ora vive con i suoi simili in un centro all’avanguardia nel Sud della Francia (Parc de Beauval), partecipando ad un programma di conservazione delle specie in cattività. Si è riprodotta già almeno due volte. E ancora: il caso di Cozy, una femmina di scimpanzé sequestrata e trasferita in un centro africano. E molti altri ancora. C’è una scimmia che le è rimasta particolarmente nel cuore? Peter, uno scimpanzé di sette anni sequestrato a Livorno che aveva, sin dal primo momento, dimostrato subito attaccamento a me, anche nella situazione concitata del sequestro e del trasporto presso il Centro di Verona. Ogni volta che mi rivedeva mi abbracciava e mi saltava addosso mordendomi con dolcezza la testa e stringendomi con le sue poderose braccia. Ogni volta mi difendeva mettendosi a braccia aperte e di schiena davanti a me per impedire agli altri scimpanzé di avvicinarsi. Questo, come altre decine di piccoli, è stato integrato in un gruppo sociale costituito da esemplari di storie diverse ed eterogenee.
Secondo la sua esperienza con i primati, quali sono gli errori da evitare per chi si approccia a loro? Negli zoo va assolutamente limitata, quando non vietata, la riproduzione, perché significherebbe destinarli alla sofferenza della cattività, ormai non più necessaria e crudele. Evitare di antropomorfizzare il rapporto con questi primati, perché significherebbe comunque favorire una sorta di asservimento finalizzato al divertimento e al piacere dell’uomo. Evitare quindi di appropriarsi di queste forme di vita per poi destinarle al carcere a vita. Per questo un gruppo di studiosi di discipline diverse hanno sostenuto il cosiddetto Progetto Grande Scimmia che prevedeva, provocatoriamente ma basandosi su elementi scientifici importanti, la equiparazione dei diritti essenziali tra uomo e scimmie antropomorfe. Dalle scimmie antropomorfe inoltre si può ancora imparare molto sul comportamento e sulle relazioni e la comparazione che questo ha con quello umano, e capire meglio le tappe evolutive che hanno permesso a Homo sapiens di intraprendere un’altra strada nel proprio cammino, pur rimanendo fortemente somigliante agli scimpanzé, condividendo tratti dell’etologia e della biologia talmente simili da sorprendere ancora gli studiosi, dopo anni di studi sul campo e in laboratorio. Quindi evitare di desiderarli come compagni di vita (pet), ma rispettarli potendoli, quando possibile, osservare nei propri ambienti naturali, che dobbiamo contribuire a salvare. Paradossale è che si riservi tanta attenzione al destino di uno scimpanzé in gabbia e non si pensi a salvare le foreste del Camerun, della Costa d’Avorio, del Congo, che stanno per essere decimate proprio a causa di una deforestazione selvaggia, dove l’Europa e l’Italia figurano tra i primi paesi importatori di legname tropicale. Senza le foreste, gli scimpanzé, i gorilla, i primati in genere, come tutta la biodiversità vegetale e animale, sono spacciati.
Edizione integrale dell’intervista pubblicata su “Scimmie come noi, conoscere per salvare” – Per gentile concessione del Jane Goodall Institute Italia |