Ambiente

Meglio un libro vero o un e-book digitale?

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04 Maggio 2015

Il costo ambientale e sociale della carta


Che la carta venga dagli alberi è un fatto sempre meno ovvio tra le nuove generazioni. Alcuni bambini americani, sottoposti alla domanda: «Da dove vengono le uova?», hanno risposto nei modi più svariati e bizzarri, annoverando tra le possibili fonti di origine i banchi del supermercato, il fruttivendolo, la drogheria, il fast-food, etc. In pochi hanno risposto semplicemente: dalle galline! E questo accade perché l’urbanizzazione ha allontanato pericolosamente i bambini dal contatto col mondo naturale e agricolo, cancellando qualunque consapevolezza sull’origine delle materie prime, degli alimenti e dei prodotti utilizzati quotidianamente.

Effettivamente per un bambino del XXI secolo, la carta viene dall’ipermercato o al massimo dalla cartoleria. Questi plotoni di piccoli uomini, ineducati alla comprensione del ciclo di vita della materia da parte degli adulti (e gli insegnanti hanno molta responsabilità in questo), non hanno la benché minima idea di cosa ci sia dietro un foglio di carta (e ogni altro bene di consumo).

Non conoscono i processi di lavorazione e sbiancamento necessari per rendere quella cellulosa perfetta per una risma; non sanno nulla dell’immane quantitativo di mercurio utilizzato durante i processi produttivi e riversato dalle cartiere nei corsi d’acqua; non comprendono quale impatto possa avere l’utilizzo e lo spreco di carta sulle foreste del pianeta.

In questi giorni, ma oramai da molti mesi, si stanno tenendo tavole rotonde in tutto il mondo per cercare soluzioni alla deforestazione spinta soprattutto dalla necessità di trovare materia prima per la produzione di polpa di legno e cellulosa. In Indonesia, dove il problema è particolarmente grave e sentito, da qualche anno l’opinione pubblica sta cercando di fare pressione sull’Asia Paper and Pulp (APP), colosso cartiero asiatico, che ha letteralmente devastato la maggior parte delle foreste pluviali del Borneo, di Sumatra e della Malesia.


L’azienda continua a praticare il greenwashing, il lavaggio del cervello sulle tematiche ecologiche, pagando inserti sulle testate nazionali e internazionali (l’anno scorso un annuncio di responsabilità sociale e ambientale da parte dell’azienda è comparso sui principali quotidiani italiani) per rabbonire l’opinione pubblica e continuare indisturbata la propria marcia distruttiva.

L’azienda ha portato sulla soglie dell’estinzione l’albero noto come ramino e sconvolto interi ecosistemi tropicali, riducendo al collasso le popolazioni di oranghi indonesiani. Recentemente la strategia del colosso della carta asiatico è virata verso il contrattacco. Non più, dunque, solo difesa passiva, ma ingaggio di gruppi ambientalisti, pagati con i soldi sporchi ricavati dalla deforestazione, per ripulire la propria immagine.

Sono nati così forum di discussione e roundtable a cui hanno partecipato le più grandi organizzazioni ambientaliste mondiali, per tentare di trovare un compromesso, una soluzione al problema. Peccato, però, che la multinazionale abbia solo sciorinato promesse mai mantenute, traendone, in compenso, la fama di azienda aperta al dialogo e presente ai tavoli ecologici con le associazioni.

Ingenuità interessata anche da parte delle ONG ambientaliste? Certamente. Poiché le promesse dell’APP sono non solo in termini di greenwashing, ma anche di greencorruption. Cioè ti pago con denaro sporco per migliorare la mia posizione ecologica e fingere che il mio dialogo con te, associazione ambientalista, stia portando benefici a tutti, soprattutto all’ambiente. In realtà i benefici concreti sono soltanto per l’industria della carta e, paradossalmente, per tutte quelle associazioni che ne stanno al soldo, ma fingono di operare per salvare le foreste.

Molte ONG ambientaliste riportano addirittura nei loro siti i nomi di aziende del legno tropicale, industrie delle cellulosa, aziende che vendono legname delle foreste pluviali quali finanziatori delle campagne per ridurre il tasso di deforestazione mondiale. Vergognoso e assurdo!


Solo in Borneo, negli ultimi 50 anni è stato raso al suolo oltre l’80% delle foreste ricche di biodiversità. E questo per il capriccio dei sultani, per l’interesse delle multinazionali e per il silenzio connivente delle associazioni. Non può esservi alcun dialogo, alcuna mediazione, con chi per anni ha distrutto la più straordinaria espressione di vita sulla Terra. Ci può essere solo denuncia, ostruzione, opposizione! Diffidate da chi finge un contatto diplomatico con i devastatori della Natura, poiché è certo che stia solo nascondendo i profitti che ne ricava dalla mancata ostruzione alle azioni delle multinazionali.

Ma se il problema carta è così attuale e stringente, perché non scegliere di fermarne lo spreco o, addirittura, l’utilizzo? Alcune aziende (come l’Ecolucart, ad esempio) e catene d’ipermercati (come la Coop, ad esempio) hanno sviluppato una linea ecologica di carta per usi domestici (dalla carta igienica, ai quaderni, ai rotoli per la cucina) prodotta interamente da cellulosa riciclata. Il passaggio alla carta riciclata per usi domestici è certamente una parte della soluzione al problema. Ovviamente, le leggi della termodinamica insegnano che, nonostante l’efficientamento del ciclo dei materiali e del riciclo dei rifiuti (in questo caso la carta, che dovrebbe essere obbligatorio in ogni stato), una parte dell’energia e della materia viene comunque sprecata e trasformata in inutilizzabile entropia (pensate alla carta igienica, che sarebbe impossibile riciclare dopo l’utilizzo!). Pertanto, una seppur minima fonte di cellulosa vergine per compensare l’entropia del ciclo dei rifiuti cartacei dovrà pur esserci. Su questo la gestione sostenibile delle foreste “coltivate” nordeuropee ha molto da insegnare. Non si tratta di tagliare alberi all’interno di ecosistemi forestali maturi, ma di piantare alberi da cellulosa a rapida crescita (come pioppi, betulle, etc.) in appezzamenti agricoli e coltivarli come ortaggi. Non si tratta nemmeno di illudere il consumatore con i marchi di sostenibilità (PEFC, FSC, etc.) che, laddove certificano la riduzione dell’impatto ambientale del legno tropicale (per quello europeo o americano è un’altra storia e si potrebbe accettare con riserva), stanno in qualche modo ammorbidendo il reale danno causato alle foresta da aziende troppo grosse e ricche da non potersi permettere una certificazione, difficilmente incorrotta, in aree del mondo dove corruzione sta per democrazia.


Diffidando quindi dai marchi, che oramai spopolano e si rinvengono su ogni confezione, su ogni pacchetto, su ogni imballaggio (che viene da chiedersi: «Ma come mai questa carta sino a qualche decennio fa era considerata la causa della distruzione delle foreste e ora è invece bollata come sostenibile? Sarà cambiata la carta?» No, è cambiato il mondo e con la globalizzazione tutto può esser spacciato per sostenibile. Basta averne i soldi e poterselo permettere), diffidando dalle rassicurazioni delle associazioni ambientaliste (ebbene sì, anche in lor non vi è certezza; alcune sostengono l’APP, altre si fanno finanziare dalle industrie del legno africane e sudamericane, altre ancora falsificano la responsabilità delle aziende sull’uso dell’olio di palma) pagate dai loro stessi nemici e acquistando soltanto carta riciclata per uso domestico (evitando così di mandar giù per lo scarico le foreste del pianeta), resta da risolvere l’80% del problema: i libri e i giornali.

È, infatti, l’editoria che attinge la maggior parte della cellulosa vergine, a costi nettamente più bassi, dalle foreste tropicali. Libri e giornali sono la prima causa di deforestazione mondiale. Che fare allora? La tecnologia ci viene in soccorso con lo sviluppo di e-reader, lettori digitali e tablet. Oramai il commercio degli e-book e delle riviste digitali ha pareggiato quello dei libri e delle riviste stampate.

Le critiche, però, non mancano e appare fondamentale una seria analisi dell’intero ciclo di vita e produzione dei due sistemi.

Per realizzare un libro è necessaria la materia prima, la carta. Per produrla serve tagliare gli alberi, processare la cellulosa, raffinarla e sbiancarla. Per un e-book, no. Per stampare un libro servono inchiostri spesso contenenti metalli pesanti, come il piombo e il cadmio. Per un e-book, no.

Tutto sembra a favore del digitale, ma bisogna andare più in profondità. La deforestazione è il principale problema, ma per valutare l’impatto ambientale di un libro stampato è importante considerare l’utilizzo di energia, il trasporto della materia prima, lo sfruttamento del lavoro, l’inquinamento idrico provocato dalle cartiere, il rilascio di metalli pesanti come il mercurio e il nichel, i processi di stampa energivori, l’utilizzo di inchiostri (realizzati con Pb e Cd), l’inquinamento causato dalla distribuzione e l’ingombro (che non è da sottovalutare in termini di impatto ambientale) dei magazzini, delle librerie e delle biblioteche.


D’altra parte, per realizzare un e-book basta un file digitale che viene trasportato nell’etere di internet. Anch’esso però nasconde il suo reale impatto ambientale. Infatti, il traffico internet ha un costo energetico (anche se sicuramente inferiore a quello del trasporto su gomma) e la realizzazione dell’e-book prevede comunque un dispendio di energia (la stessa, effettivamente, impiegata nel processo di impaginazione del libro cartaceo, ma senza ulteriori sprechi di stampa e distribuzione), ma è il sistema di lettura in digitale che pesa: per realizzare anche il più semplice e-reader o tablet è necessaria molta energia, un sostanziale quantitativo di materie (plastica, alluminio, etc.), di terre rare (come il coltan che sta creando guerre, morte e disastri ambientali nel bacino del Congo), utilizzate dai microprocessori e metalli pesanti, impiegati nelle batterie ad alta efficienza di questi lettori o mini-PC. In più vi è lo sfruttamento dei lavoratori e l’inquinamento elettronico delle Paesi dove questi prodotti vengono assemblati (Cina, Bangladesh, Vietnam, etc.).

Tutto questo rialleggerisce il piatto della bilancia del libro cartaceo. Inoltre, a fine vita un libro di carta lo si può sempre riciclare semplicemente gettandolo nei contenitori per la raccolta differenziata, mentre l’e-reader è un rifiuto elettronico il cui recupero non è altrettanto banale.

Se, però, si equilibra l’analisi paragonando non un solo libro contro un solo e-reader, ma, come sarebbe più corretto fare, confrontando il quantitativo di libri cartacei (dai 5000 ai 10000) che un e-reader può contenere rispetto al lettore digitale stesso (quindi moltiplicando per 5000 l’impatto ambientale del singolo libro cartaceo, mentre quello del lettore digitale resterebbe pressoché invariato se non per un lieve aumento dell’energia necessaria al trasferimento dei 5000 e-book dalla piattaforma internet), l’ago della bilancia torna a segnare un equilibrio tra l’impatto ambientale dei due pesi a confronto: carta e digitale.

È vero, l’e-reader o il tablet vanno caricati a corrente. Bene, se li si ricarica a energia solare (con i piccoli pannelli portatili) anche l’impatto energetico si minimizza (ma c’è, comunque, da tenere in conto la produzione e lo smaltimento del pannellino fotovoltaico).

Siamo quasi alla pari, quindi: nel primo caso continuiamo a deforestare e nel secondo attingiamo comunque terre rare e incentiviamo guerre e sfruttamento del lavoro.

Bene, potremmo scegliere allora di acquistare libri “veri” solo se stampati su carta riciclata (ripeto non FSC o con altri marchi, perché è spesso solo greenwashing e molti editori si stanno già “convertendo”) e leggerli su un dispositivo digitale prodotto da aziende che si impegnano a monitorare e ridurre il proprio impatto ambientale (ad esempio, alcune aziende come la Samsung hanno un proprio codice etico di condotta e di responsabilità ambientale http://www.samsung.com/it/aboutsamsung/citizenship/environment.html).


È fondamentale però che il nostro dispositivo digitale venga utilizzato e non sostituito per almeno 5 anni (quindi meglio di qualità che economico), per mantenere il suo equilibrio d’impronta ecologica con il cartaceo, e che a fine vita venga correttamente riciclato e la maggior parte delle sue componenti vengano recuperate (soprattutto batterie, plastiche, terre rare e metalli pesanti).

Dove la scelta dell’e-reader è ecologicamente intelligente e nettamente migliore rispetto al cartaceo è sulle riviste e giornali, la cui stampa più frequente, i cui inchiostri indelebili, le cui pagine patinate e a colori spesso non riciclabili, le cui rotative energivore, la cui distribuzione, quotidiana, settimanale o mensile pesano nettamente sull’ambiente se si opta per la lettura su carta.

Per i lettori affamati di quotidiani e riviste, tablet o e-reader sono la soluzione certamente più ecologica.

Dunque, riassumiamo, dopo questa lunga disamina necessaria: per ridurre la deforestazione mondiale e l’impatto sociale e ambientale della carta è fondamentale l’utilizzo di prodotti riciclati al 100% (non certificati, riciclati!) per usi domestici e per chi ama (ed è innegabile quanto sia affascinante) la lettura sui classici libri stampati. Per i più tecnologici e moderni, nel caso in cui il libro desiderato non sia stampato su carta riciclata o per coloro che leggono molte riviste, un lettore digitale è la scelta giusta. Meglio, però, se di qualità e che duri almeno 5 anni, se prodotto da aziende che si impegnano a ridurre la propria impronta ecologica e garantiscono i diritti dei lavoratori (magari mantenendo almeno parte della produzione in Occidente) e, soprattutto, se smaltito correttamente, riciclandone la maggior parte delle componenti. Ecco allora che il dilemma è risolto.

Tutto questo sforzo sarà però vano se il nostro impegno alla ricerca della soluzione più ecocompatibile resterà isolato, se non ne parleremo con amici e conoscenti e se non faremo pressione sulle aziende (e le associazioni complici) che continuano a vanificare i nostri tentativi di esser più leggeri sul mondo.

Sarà vano se non ricorderemo che la parola “leggerezza” ha la stessa etimologia, la stessa origine, di “leggere” e che entrambe rappresentano le uniche speranze che abbiamo di salvare il mondo da noi stessi.


Roberto Cazzolla Gatti è biologo ambientale ed evolutivo, ricercatore presso l’Università degli Studi della Tuscia – CMCC, esperto in biodiversità, bioetica ed ecologia teoretica. È editor-in-chief dell'Economology Journal e editorialista della rivista scientifica Villaggio Globale, Collaudatore per il Consorzio di ricerca "Digamma" del sistema stereoscopico-chirurgico e microchirurgico "Tredimed" presso il Policlinico di Bari e specializzato in biologia della nutrizione vegetariana.


 

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