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Tokyo, il gigante ordinato |
08 Giugno 2012 | |||||||||||||||||||||
Immensa e policentrica, bizzarra ma tradizionalista, tecnologica e pulitissima, la capitale giapponese è irresistibilmente differente da ogni altro luogo. Un colosso da trentacinque milioni di abitanti, la più grande area urbana del mondo
Innanzitutto va affrontata. E occorre farlo con le idee chiare, perché comprendere Tokyo è un compito che impone lucidità, impegno, una certa resistenza fisica, infinita curiosità e capacità di adattamento non comune. Fosco Maraini, nel suo splendido e ancora attualissimo ‘Ore giapponesi’, ci offre la chiave di lettura ideale: questa è una città ‘moderna’, avanzatissima in ogni aspetto, ma non è una città ‘occidentale’, perché mantiene, anche in piena globalizzazione, un carattere, un’anima, solidamente autoctona. Vista dall’alto – e le prospettive possibili sono infinite – può sembrare una versione asiatica di altre gigantesche metropoli (americane, australi o europee), con scintillanti palazzi in vetro e cemento, avenue come immense vene a dividere e collegare, luci al neon a decorare e comunicare slogan, un fittissimo dedalo affollato che si impone allo sguardo senza soluzione di continuità. Ma già scendendo in strada le cose cambiano: c’è un ordine singolare per queste dimensioni, il traffico delle auto appare rarefatto, il ruggire di sottofondo (comune ad ogni downtown) arriva assai meno evidente e quasi contrasta con gli edifici immensi, gli onnipresenti schermi affacciati sui palazzi, la persistente abbondanza di aziende, negozi, centri commerciali, ristoranti, luoghi di incontro e di passaggio. Poco rumore, folla ordinata, la costante sensazione che ognuno – ad ogni ora del giorno e della notte – sappia esattamente dove andare e cosa fare, marca immediatamente la differenza. Ma Tokyo non è solo ordinata, è anche pulitissima, straordinariamente sicura e – compatibilmente alle sue dimensioni – vanta un tasso di inquinamento decisamente basso, cieli sovente tersi e aria frizzante, mattinate limpide e tramonti dorati molti mesi dell’anno.
La vita scorre quotidianamente su tre livelli: quello sotterraneo della metro, quello sopraelevato dei treni urbani, e il suolo: poche auto (parcheggi a vista inesistenti), nessun mezzo pubblico di superficie ed ampi marciapiedi, perché nelle ore di punta i giapponesi emergono come un liquido umano apparentemente inarrestabile. Gli attraversamenti pedonali sono uno spettacolo di ordine impressionante, dove ogni semaforo governa gli spostamenti, elementare divinità che non ammette deroghe o disubbidienze. Se vi muovete con un giapponese a fianco e provate a trasgredire vi redarguirà preoccupato («Pelicolo! Pelicolo! Attenzione, non si fa…»), anche se la prima auto all’orizzonte dista oltre trecento metri. Medesima attenzione maniacale per le code: qui le rispettano tutti, con solerzia, predisposizione naturale, verrebbe da dire con passione. Abbiamo visto file serratissime per acquistare gelati e dolciumi, per salire in metropolitana (le porte si aprono sempre nello stesso posto e sono indicate da bande gialle…), per usare i portacenere posizionati in strada (non si fuma all’aperto, o camminando, è maleducazione…), code infinite anche a Disney Sea (il più grande parco giochi di tutta l’Asia) dove un led avverte del tempo necessario per accedere alle attrazioni (un’ora, due, persino tre ore…); la coda è una regola non scritta, condivisa, indispensabile per assegnare a ciascuno un ordine di accesso, anche al più semplice degli svaghi.
La sola Tokyo ospita 12 milioni di abitanti, se calcoliamo la sua ‘prefettura’ salgono a 35: la più grande area urbana del mondo (con stima ‘certa’ dei residenti), una megalopoli perfetta, lesta ad ingoiarsi ogni centro limitrofo, la portuale Yokohama compresa. Quindi la principale equazione da risolvere è sempre stata quella degli spostamenti; treni e metro sfrecciano a pochi secondi di intervallo l’uno dall’altro, servendo contemporaneamente almeno due milioni di persone che seguono un filo invisibile, incrociandosi continuamente senza neppure sfiorarsi. Se Stanley avesse cercato Livingstone nella metro di Tokyo non lo avrebbe trovato mai, la sua mappa è complessa quanto quella del genoma umano ma – bontà degli dei – almeno le stazioni sono segnalate anche in inglese. Ai sincronismi perfetti dei convogli, al compostissimo muoversi delle folle si aggiunge un tocco idilliaco vagamente surreale: non solo ogni stazione viene annunciata, ma ogni fermata vanta anche una propria colonna sonora (musichette vagamente ipnotiche, gli hatsumelo, scaricabili anche on line e rintracciabili su YouTube…) e tra i binari aleggia sovente qualche trillo di uccellini registrato, evidente citazione di un amore per la natura che cemento e vagoni ospitano soddisfatti.
Con metodo e pazienza se ne viene a capo, anche se il percorso dei treni non è mai indicato completamente: i tabelloni indicano solo alcune fermate, le principali, per far comprendere al volo la direzione. Qui tutti mandano a memoria le rotte e non serve altro. Se avete dei dubbi chiedete: buona parte dei giapponesi conoscono solo l’inglese di Tarzan, ma sono di una gentilezza disarmante e, di fronte allo sguardo smarrito, la risposta arriva (quasi) sempre provvidenziale. A Tokyo, forse come in nessun altro luogo altamente civilizzato al mondo, si avverte il concetto di ‘differenza’; e lo si avverte nelle due più evidenti declinazioni: tradizione e trasgressione. Anche perché questi termini non sono sempre rigorosamente separati: i confini e gli intrecci abbondano, quasi a voler mettere ancora più alla prova il sorpreso ‘gaijin’, lo straniero. Tutto si comprende meglio quando si riflette sul concetto che Aya, un’amica giapponese, ci ha efficacemente sintetizzato: «Questo è il paese delle regole ferree, dei codici rigorosi e condivisi. Correggere i binari prestabiliti non è possibile, quindi o si accettano oppure si trasgredisce radicalmente». Ma anche le trasgressioni hanno radici antichissime, e si richiamano ad un patrimonio condiviso.
Così i personaggi di manga (i diffusissimi fumetti locali) e anime (i cartoni animati, dalla contrazione dell’inglese ‘animation’) sono gli eredi di demoni ed eroi ancestrali; il complesso rapporto tra i sessi non può che collegarsi ad un mondo dove la donna è divinità domestica, quasi sacrale, ma blindata in canoni che la vedono sovente sottomessa (ancora oggi, per la medesima occupazione, gli stipendi sono inferiori di almeno il 30%...); la tecnologia (anche nelle sue deviazioni più feticiste e surreali) è frutto di una cultura dove il lavoro è venerato come un fenomeno naturale scintoista. L’immensa metropoli accentua questi elementi, li rende prossimi: tutto appare come un grande ordito regolato in ogni minimo dettaglio nel quale appaiono – assai ben visibili – elementi di rottura, conflitto, provocazione. Ovunque tradizione fa rima con educazione: nella metro e nei treni il cellulare viene ‘silenziato’, ogni incontro prevede inchini, cerimoniali precisi e anche regali (particolarmente apprezzati i dolciumi), gerarchia e meritocrazia sono alla base di ogni attività, in strada – anche tra la folla – non si assiste mai a momenti di tensione, risse o accattonaggio, tutti pagano tutto con puntualità e cortesia in totale assenza di controlli. L’amore per la natura incanta nella gestione di parchi, templi e giardini, sempre curatissimi, anche perché le forze naturali sono alla base della religione più antica, lo scintoismo. Che qui, in una società felicemente politeistica, coesiste col buddismo ed il cristianesimo. La scuola è la palestra ideale per il mondo della produzione: selettiva e durissima prevede continui esami e sbarramenti, solo i migliori conseguono quel massimo dei voti che garantisce un posto di rilievo nella società, gli altri ‘lavoreranno comunque’, ma avranno un destino diverso, fatto evidentemente di ambizioni più limitate.
Da questa oasi di ferrea perfezione le vie d’uscita sono sovente sorprendenti quanto spettacolari. Tokyo è la patria indiscussa delle subculture giovanili: modi di vestire e di comportarsi coptati da quell’universo grafico e tecnologico che accomuna ed intreccia manga, anime, videogiochi, televisione, business, internet e moda. I devoti del genere, gli ‘otaku’, hanno dai tredici anni in su e sono in assoluto dei ‘grandi consumatori’ (il solo fatturato dei manga, ad esempio, rappresenta il 30% di quello editoriale…); il che rende zona franca quasi ogni stravaganza. Nella nomenclatura giovanile ci sono i ‘gals’, le tribù urbane e le ‘kawaii’ (letteralmente ‘carino’): giovanissime, e anche meno giovani, che vivono nel culto dell’eterna fanciullezza, tra nastrini, gadget, crinoline e abitini da educande. Il vertice della catena alimentare è rappresentato dai ‘cosplay’: coloro che si identificano con uno specifico personaggio, identificandosi completamente in esso (non solo nell’abbigliamento, ma anche nei gusti e nel comportamento), finendo spesso per ‘giurargli’ eterna fedeltà. Ai nostri occhi questo mondo richiama un immaginario erotico dove i nostri codici sono ampiamente insufficienti per poter esprimere giudizi obiettivi. Sovente, osservando le ragazze giapponesi, il termine ‘lolita’ è quello che verrebbe più spontaneo utilizzare; perché i confini tra naturalezza, eleganza e provocazione vanno al di là dei nostri canoni. Nel paese del Sol levante le modelle sono tutte giovanissime, ed il loro fisico minuto concorre nel mettere in scena un mondo popolato da studentesse elegantissime, truccate con cura, sempre perfette in abitini succinti e minigonne. Il passaggio dalle pubblicità e dai servizi di moda alla realtà è immediato, con questa popolazione di teens proterva e serena nell’affollare ogni spazio pubblico deputato al consumo e al divertimento. Intorno, l’apparentemente impassibile folla di impiegati in abito nero, cravatta e camicia bianca. In Giappone – è noto – non esiste quella sensazione di ‘peccato’, classicamente cattolica, che in occidente impone confini precisi e morali invalicabili.
A Tokyo non si avverte alcun apparente contrasto tra formalismo e provocazione, prevale una naturalezza disinibita di comportamenti che permette a ciascuno di trovare il proprio spazio senza incorrere nel giudizio altrui. Ma la risposta ai rigidi dettami della società nipponica non è esclusivo appannaggio delle generazioni più giovani. Terminato l’orario di lavoro (mediamente più lungo del nostro, e anche i giorni di ferie sono rigorosamente contingentati) il giapponese ‘si lascia andare’: beve sake e ride coi colleghi, affolla i ristoranti, si dedica con piacere al karaoke (sempre amatissimo) e a quella lucida follia che prende il nome di Pachinko. Quest’ultimo passatempo (che costituisce la più redditizia fonte di lucro del paese alla voce ‘servizi’) divenne moda dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale, una sorta di droga collettiva per un paese prostrato e sconfitto. Il Pachinko – simile ad un incrocio tra un flipper e una slot machine – prevede l’immissione da parte del giocatore di una vagonata di minuscole sferette nell’apposita macchinetta che ne ‘mangerà’ la maggior parte; le ‘supersiti’ permetteranno la ‘vittoria’, ossia il conseguimento di altre sferette… Il tutto avviene con un fragore infernale, tra ologrammi in movimento e suoni assordanti. «È sostanzialmente impossibile comprendere il fascino del Pachinko – scrive Maraini – Solo un popolo fondamentalmente buddhista poteva accettare con gioia proprio questo specialissimo tipo di fuga dalla realtà. Quali sono le tecniche buddhiste per arrivare all'illuminazione? Ce ne sono varie, ma una delle principali consiste nel liberare del tutto la mente dai pensieri contingenti perché possa farvisi luce la verità. E come si ottiene questa liberazione? Ripetendo fino ad annichilire la coscienza una frase, un mantra, una breve giaculatoria. Ecco il terreno subconscio su cui il fenomeno Pachinko è esploso».
Ma l’elenco delle sorprese osservando i giapponesi non si ferma qui. Restando in tema di giochi abbondano le sale dove i clienti si dedicano alla ‘caccia’ di giocattoli e di pupazzi in pezza utilizzando apposite pinze e – anche nell’architettura cittadina – si notano elementi surreali, come il gusto per la riproposta quasi filologica dei più celebri monumenti occidentali. Nella sola Tokyo troverete una copia conforme della Tour Eiffel, la Tokyo Tower, e, lungo il mare, la riproduzione sia del ponte di Brooklyn (ancora più grande) che della Statua della Libertà (invece più piccola, quasi mignon…). Chiudiamo la rassegna delle innocue follie con la ‘hanablock’, l’ormai celebre mascherina bianca per filtrare il respiro. A Tokyo la usa – in particolare nei luoghi pubblici – circa il 20% della popolazione. Ipocondria? Paura della kafunsho (l’allergia da polline)? Retaggio di recenti paure per la sars e l’influenza aviaria? Bene non si sa, certo è che questa formidabile occasione di arricchimento per le ditte produttrici coinvolge trasversalmente tutta la popolazione. Scomode e vagamente inquietanti le mascherine si vedono ovunque; gli psicologi più sofisticati le collegano ad un meccanismo di auto protezione, ad un esercizio inconscio volto a preservare se stessi dal contatto (anche visivo) con gli altri. Quando si fa riferimento agli stili di vita di una realtà complessa e affascinante come quella giapponese la cucina riveste un ruolo essenziale. Pur senza addentrarci in un discorso gastronomico dettagliato va osservato che oggi a Tokyo si mangia benissimo, nella maggior parte dei casi senza affrontare spese superiori rispetto agli standard europei e sovente con una migliore qualità. Merito di una progressiva svalutazione dello yen rispetto all’euro, ma anche di una varietà e abbondanza nell’offerta che vede la capitale offrire opportunità di ogni genere. Nei piccoli locali ‘di passaggio’, frequentatissimi dai pendolari, come nei templi gourmet più riconosciuti, l’attenzione per le materie prime è assoluta ed il rispetto della ‘forma’ costantemente meticoloso. Poi occorre prepararsi in anticipo, sia all’uso delle bacchette che ad affrontare menù solo raramente tradotti in inglese; la consueta disponibilità nipponica aiuterà in ogni circostanza.
Abbiamo lasciato volutamente in coda il top dei luoghi da visitare. Volutamente, perché la capitale nipponica va innanzitutto colta nel suo spirito e poi perché ognuno troverà la sua rotta (inevitabilmente individuale) tra un’infinita proposta di musei, centri commerciali, gallerie d’arte, parchi e templi. Fino a trent’anni fa Tokyo era più interessante che bella: dopo le distruzioni del secondo conflitto mondiale l’irrompere delle costruzioni verticali (che avevano sostituito la classica casa in legno) fu inizialmente una violenza estetica, con palazzi rigorosamente antisismici ma inesorabilmente brutti. Da tempo lo scenario è cambiato (e ancora sta cambiando) con il continuo operare dei migliori architetti disponibili sul palcoscenico internazionale. Oggi in una metropoli policentrica – articolata in quartieri che sono città nella città – quello che trionfa è il gigantesco e avveniristico spazio multifunzionale: immenso, splendente, ricco di centri commerciali, ristoranti, spazi per l’arte e l’intrattenimento, uffici, librerie, negozi e ogni altro possibile approdo destinato al business o all’intrattenimento.
Mettendo mano alla mappa di Tokyo la nostra top ten prevede questa selezione, dove l’ordine numerico non è da intendersi come classifica. 1) Shibuya: dove il ponte della stazione (nel fine settimana meta preferita dai cosplay) separa due mondi, da un lato la serenità del tempio scintoista Yoyogi incorniciato da 100mila alberi, dall’altro la frenesia di Takeshita Dori, la viuzza preferita dagli adolescenti più eccentrici della città. Nel vicino centro moda Shibuya 109 vedrete il nuovo che avanza, dove le commesse vestono gli stravaganti abiti in vendita mentre fuori le ‘cacciatrici di tendenza’ prendono appunti… 2) Akihabara e Jimbocho: la ‘città elettrica’ dove ogni sogno tecnologico diventa realtà, la via degli strumenti musicali di Ochanomizu (centinaia di negozi specializzati) e l’area dei libri usati di Kanda, con 10 milioni di volumi, il paradiso per ogni bibliofilo. 3) Rappongi e Midtown: all’ombra della Tokyo Tower i palazzi multifunzionali del nuovo millennio (vedi Rappongi Hills) e una vita notturna scintillante. 4) Tokyo Disney: il connubio oriente/occidente in versione parco giochi (due, entrambi immensi), a Disney Sea va in scena ‘il mondo in miniatura’, con meticolosa ricostruzione di Venezia, musical all’aperto con centinaia di artisti e comparse, piramidi Maya e palazzi da Mille e una Notte. 5) Odaiba: la baia di Tokyo e le sue vertiginose costruzioni, l’immenso ponte Rainbow da percorrere in monorotaia, il panorama della skyline con la Statua della Libertà in primo piano…6) Marunouchi: per vedere il Tokyo International Forum (che ricorda un’immensa foglia o un gigantesco battello) ed il palazzo Mitsubishi, edificio neovittoriano in brik maestosamente restaurato.
7) Il parco di Ueno e il quartiere di Yanaka: idillio, riposo e cultura (con i migliori musei della città); tra le viuzze di Yanaka l’atmosfera intatta (con una sfumatura trendy) della città d’antan. Da visitare l’atelier del pittore Allan West (www.allawest.jp): nativo di Washington DC vive da trent’anni a Tokyo, vi approdò dopo aver compreso che le sue tecniche di pittura erano curiosamente simili a quelle usate in Giappone dal XVI secolo. 8) Asakusa: folla e viuzze, grattacieli ed il grande tempio Sensoji, shopping tradizionale e design, l’avveniristico birrificio Asahi, tutti i contrasti del Giappone in un solo quartiere. 9) Kamakura: sul mare, subito fuori città, gli incanti di un piccolo centro con le casette che sembrano uscite da un film di Miyazaki, gli splendidi templi e la solennità mozzafiato del Daibutsu, immenso Buddha in bronzo. 10) Il Monte Takao: foresta e complesso monastico di struggente bellezza (si può anche pranzare coi monaci), dove godersi l’anima più antica e naturale di un luogo fuori dal tempo. Qualunque sia il vostro itinerario è impossibile lasciare Tokyo con sensazioni realmente esaurienti: troppo grande, troppo ‘differente’, troppo complessa per essere compresa fino in fondo anche dal viaggiatore più attento e preparato. Resteranno curiosità inespresse, luoghi annotati per il prossimo viaggio, un bagaglio di emozioni forti ma anche di incanti, di grazia (in giapponese ‘iki’) e di sensibilità meticolosa applicata al quotidiano. Tokyo è un'altra dimensione del reale, diversa in profondità come in superficie, affrontarla non è solo un’esperienza, ma esercizio che addestra nel profondo il vero viaggiatore. Foto Franco Borrelli e Guido Barosio Guido Barosio, giornalista, fotografo e scrittore, è direttore della rivista Torino Magazine e dell’Agenzia di Stampa nazionale LaPresse.
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