Viaggi

Kerala e Tamil Nadu, antichi riti d’Oriente

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24 Novembre 2011

Il tempio di Gangaikondacholapuram

Attraverso l’India del Sud per scoprire un tempio con trentatré milioni di statue, villaggi e mercati, sontuose dimore padronali e incantati boutique hotel fuori dal tempo. Nelle terre dei monsoni un viaggio attraverso il mito e la fede, dove un’arte esuberante e favolosa ci trasmette emozioni dal fascino antichissimo


Nel Tanto Indiano ognuno trova il proprio percorso, la propria personale selezione di immagini e odori, colori e rumori, emozioni e sapori. Il risultato è come la trama di un tessuto che riflette – contemporaneamente – ciò che si trova ma anche ciò che si cerca. Un tessuto che attinge a infiniti filati. In India tutto si mescola – passato e presente, tradizione millenaria e tecnologia, modernità occidentale e cultura autoctona – ma tutto è anche rigorosamente gerarchico: caste, potere, pantheon religioso, struttura familiare…

Così un viaggio in questo mondo complesso, affascinante, qualche volta opprimente, sempre stimolante, deve puntare su una rotta precisa. Sapendo a priori che si coglierà sempre e solamente una parte del Tanto, escludendo ciò che rimane per un gigantismo geografico e culturale incontenibile.

Dalle vette himalayane alla punta meridionale del Tamil Nadu, dove si incontrano i Tre Mari, si estende un continente anzi un subcontinente dai numeri immensi: 3 milioni e 300 mila chilometri quadrati (anzi un subcontinente 10 volte l’Italia), un miliardo e 200 mila abitanti (il 17% della popolazione mondiale), 6 grandi religioni, 30 milioni di divinità, 6400 caste e sottocaste, 6 gruppi etnici e 52 tribù, 18 idiomi principali (ma 1600 lingue minori…), 8 mila edifici e luoghi storici protetti, ma altri 45 mila che non figurano in nessuna lista.


Il tempio di Madurai

Un clima benedetto dai monsoni (veri signori da luglio a settembre): il fenomeno meteorologico che impedisce la desertificazione dell’India, posta alla medesima latitudine dei maggiori deserti del pianeta. Ma questa è anche la terra ideale per un approccio fotografico complessivo, reale e metaforico, dove il viaggiatore utilizza tutti gli obiettivi disponibili, dal tele al grandangolo, e dove – tra stupore e curiosità – ogni dettaglio è rivelatore come il quadro d’insieme.

Da Tagore a Rampini si arriva con il bagaglio e lo spirito colmi di libri e l’India del mito – con le sue divinità coloratissime, solenni e simpaticamente ciarlatane – sconfina e si mescola con quella del Bric, il nuovo acronimo che accosta le economie emergenti di Brasile, Russia, India e Cina. C’è ogni cosa e c’è sempre il suo opposto in questa potenza globale che si appresta a superare i vicini orientali come numero d’abitanti – il sorpasso avverrà tra il 2020 e il 2030, toccata la soglia del miliardo e mezzo – e forse anche come potenza economica, forte di un Pil ormai stabilmente oltre il 9 per cento.


Particolare del tempio di Madurai

Ma in Cina lo stacco col passato è più netto: auto nuove e potenti in luogo di carretti e bici, grattacieli a soffocare le abitazioni tradizionali, banche a divorare gli ultimi avanzi del defunto comunismo. In India no: in strada si contendono lo spazio scassoni mai visti e Mercedes di ultima generazione, mucche e tuk tuk, qualche volta si aggiungono gli elefanti e negli edifici non c’è ordine apparente tra nuovo, vecchio e invecchiato prima ancora di essere finito.

Il nostro viaggio punta al grande sud e tocca due stati profondamente diversi – Kerala e Tamil Nadu – ma uniti da una sorta di eccentricità nei confronti degli approdi più noti: il Rajasthan e Delhi, Benares e il Taj Mahal.

Il sud è più verace, meno turistico, più ‘indiano’ nelle sue radici, ma anche più contaminato (nella sua parte occidentale) dal passaggio di portoghesi, olandesi e francesi; il sud è ‘diverso’, se questo termine può conservare il proprio significato in un simile calderone di ingredienti, che mantiene la propria sorprendente identità perché ‘differente’ da ogni altro al mondo. Con felice sintesi il nostro autista ha definito ‘green, green, green’ l’essenza del Kerala e ‘temple, temple, temple’ quella del Tamil Nadu. Corretto.

La lunga striscia di terra che si affaccia sul Mare Arabico propone ininterrotte sequenze di spiagge e foreste, ritmi tranquilli e rilassati, un mondo senza fretta dove le millenarie pratiche ayurvediche sintonizzano l’anima con il corpo. Definito dal Nobel per l’economia Amartya Sen «lo stato indiano maggiormente avanzato a livello sociale», il Kerala nel 1957 fu il primo stato al mondo ad eleggere liberamente un governo comunista. Nonostante il suo simbolo elettorale sia l’eloquente faccione del Che, l’impatto ideologico del partito (più volte al potere nel corso degli anni) si è rivelato concreto e moderato; andando ad integrarsi in una società dalle profonde influenze coloniali e cosmopolite – mercanti siriani ortodossi, navigatori musulmani, pescatori cinesi, soldati portoghesi, profughi ebrei – fortemente religiosa e di matrice cristiana.


Il gopuram di Tanjore

Oggi il 91% della popolazione è alfabetizzata e l’aspettativa di vita (73 anni) supera di dieci anni la media nazionale. Ma l’economia del Kerala – agricola e turistica – riflette solo in minima parte il dinamismo del subcontinente indiano. Forse meglio così: pochi scossoni e una quieta ‘art de vivre’ in stile tropicale preservano le atmosfere naturalistiche e fuori dal tempo che incantano il visitatore nel centro storico di Fort Cochin, tra il dedalo dei canali nelle Backwaters e sui contrafforti dei Ghati, dove il paesaggio è decorato dalle piantagioni di tè e cardamomo.

La prima tappa del nostro viaggio è Kochi: grande ma non enorme per gli standard indiani (1 milione e 400mila abitanti), conquista velocemente per l’essenza coloniale e cosmopolita che si respira per le viuzze di For Cochin, nelle grandi chiese cristiane e tra le mura dell’antica sinagoga. Sulla costa le grandi reti cinesi a bilanciere trasportano in un’atmosfera senza tempo fatta di semplici riti ancestrali e manualità. Da non perdere il quotidiano spettacolo del Kathakali: danze e pantomime ispirate alla mitologia indiana proposte in un crescendo musicale che porta verso la trance i protagonisti, attori e mimi che si mascherano di fronte al pubblico prima di iniziare questa coinvolgente e ipnotica cerimonia teatrale.

A pochi chilometri da Kochi si apre lo scenario delle Backwaters: 900 chilometri quadrati di acque interne, un tempo (e ancora adesso) canale di comunicazione e luogo ideale per la pesca, oggi assediate dalle numerose house boat che propongono soggiorni turistici in uno spazio incantato alle prese col proprio equilibrio ecologico. All’interno, risalendo verso i Ghati, si arriva al parco di Periyar, tra rilievi dolci disegnati nel verde. È il regno del tè e delle spezie: un mondo coreografico e profumato che inizia nelle piantagioni per trovare il pieno compimento in una cucina ricercata e popolare, che trova il palcoscenico ideale nei profumati thali, composizioni gastronomiche sempre differenti adagiate su foglie di banana.


Il tempio di Darasuram

Superato il confine si scende verso il Tamil Nadu e molto (se non tutto) cambia: dalla lingua (si lascia il malayalam coi suoi caratteri tondeggianti per il tamil, erede diretto del linguaggio dravidico, tra i più antichi al mondo) alla religione, che è induista in una delle sue versioni più ortodosse. La fede qui è forte, manifesta, sovente spettacolare nelle sue esternazioni. Quotidianamente vissuta in un mondo dove il tempio non è semplicemente un luogo di preghiera.

Ed è proprio frequentando questi spazi che la diversità dell’India prende corpo, conservando i propri misteri ma rendendosi anche più comprensibile e manifesta.

L’atmosfera dei templi indù è informale e rilassata, rispetto alle chiese o alle sinagoghe è di gran lunga meno rarefatta: acqua, fiori e offerte si spargono al suolo, grandi conigli di plastica invitano a raccogliere l’immondizia, da ogni parte arrivano suoni e rumori: canti, campane, conversazioni, continuo andirivieni di pellegrini, curiosi e devoti…

L’arte e il paesaggio sovente si fondono nella ricerca della pace e della bellezza. Scrive Ramamurthy: «Abbiamo venerato luoghi speciali che sentiamo favorire la nostra rivitalizzazione fisica, mentale e spirituale. Consideriamo questi siti come sacri e situati fuori dalla routine quotidiana. Costruiamo i santuari in questi luoghi per concentrare la nostra attenzione, e li valutiamo come riserve di una energia speciale che può ristabilire il nostro vincolo con la presenza divina che chiamiamo Dio, qualunque sia il linguaggio o la credenza che utilizziamo». La devozione segue sempre percorsi individuali, sovente più liberi che in occidente.


Il tempio di Gangaikondacholapuram

Come dice Alvaro Enterrìa: «Mentre nella mitologia greca, e molto più nelle religioni semitiche, c’è una distanza invalicabile tra gli dei e gli uomini, in India gli dei e gli uomini sembrano abitare nello stesso mondo. Tra gli dei e gli uomini c’è una differenza di grado, non di essenza». E aggiunge: «Il problema dei missionari cristiani non è che gli indiani adorino Gesù Cristo, ma che smettano di adorare gli altri… Gli dei si manifestano nelle cose, nelle persone e nelle situazioni. E ognuno adora Dio nella forma che più lo attrae».

Poi ogni figura del pantheon possiede una sua specialità: «Laxmi per ottenere ricchezza e prosperità, Ganesh libera dagli ostacoli e porta fortuna, Vishnu protegge, Shiva concede la conoscenza spirituale…». La divisione tra sacro e profano non è mai stata presente nell’India antica, e non lo è nell’India contemporanea: «Sulle pareti del tempio è rappresentata una visione panoramica di tutta la diversità dell’esistenza: un’immensa varietà di piante e animali, sfilate di eserciti, orti reali, musica, ballo, donne che si agghindano, uomini e donne che fanno l’amore, divinità, demoni e saggi che meditano; un’affermazione del fatto che tutto ciò che esiste è una manifestazione dell’essenza della realtà nelle sue differenti forme e anche, se si vuole, che tutto ha un carattere religioso» scrive Pratima Bowes.


Le pareti scolpite di Mahabalipuram

Anche architettonicamente prevale un’arte tropicale, esuberante e piena di vitalità. «Il tempio di Madurai da un lato, il Partenone dall’altro: la natura e la ragione» spiega l’orientalista Giuseppe Tucci. Ecco, proprio il tempio di Madurai rappresenta una tale esplosione di forme e colori da evocare più di ogni altra cosa il rapporto tra la gente dell’India e la propria fede. In questa città che aveva rapporti con l’antica Roma ma le sopravvisse, sorgono (in un complesso di sei ettari) 12 gopuram (torrioni, il più alto misura 52 metri) ornati da 33 milioni di statue colorate: un’architettura che verrebbe da definire lisergica, un’Esuberanza con la E maiuscola che lascia senza fiato. Le tinte vengono periodicamente rinnovate (l’ultima volta accadde nel 2007 e il tempio restò chiuso due anni) perché: «Se hai una casa – come ci ha spiegato la nostra guida – la rivernici quando serve». E ogni volta cambi qualche colore «altrimenti entra il diavolo».

Ma il Tamil Nadu non si sintetizza solo nell’esaltazione cromatica e devota di Madurai, o nell’esibizione di eleganza lussureggiante degli altri templi: Darasuram, Tanjore, Brihadishwara, Chidambaram... Le sue strade portano anche alla quiete e all’incanto del Chettinad – unicum nell’unicum – una terra che le grandi rotte del turismo hanno sinora colpevolmente ignorato, un luogo con caratteristiche autoctone di grande fascino e piacevolezza: villaggi e mercati, grandi abitazioni padronali belle come palazzi, templi con centinaia di statue equine dove periodicamente si sacrifica una capra agli dei, i sapori speziati e originalissimi di una cucina diversa da tutte le altre, il piacere di una flanerie tropicale tra vie, clacson, tuk tuk e biciclette.


Il Toro, simbolo di Shiva

E qui si può aprire una parentesi sul traffico, che è davvero una delle cose che più accomunano l’India, indipendentemente dalla latitudine. Mentre volteggia tra mucche e veicoli di ogni genere, in uno strombazzare che non cessa mai, eludendo gli ostacoli che continuamente gli si parano davanti, il nostro autista sentenzia deciso: «Se sai guidare in India sai guidare in tutto il mondo…». Confermiamo: in India se non c’è qualcuno che guida per voi non guidate mai. Piuttosto godetevi (si fa per dire…) l’implacabile tappeto sonoro che costituisce il quotidiano sound di ogni centro abitato. Da queste parti il clacson può trasmettere tre diversi messaggi che solo l’orecchio più allenato sa distinguere: ‘sono vivo, guido, e quindi suono’; ‘spostati, dai fastidio’; ‘occhio, pericolo in agguato’.

Arrivati al mare il Tamil Nadu offre ancora due grandi emozioni: l’incontro con le atmosfere franco-indiane di Pondicherry e la visita ai monumenti sacri di Mahabalipuram. Nel primo caso il fascino meticcio del più longevo avamposto transalpino del subcontinente propone innanzitutto la sorpresa di una città ‘doppia’: quieta, persino ricercata nella zona ‘bianca’, tra boutique hotel e deliziosi negozi ‘Vieux Asie’; movimentata, brulicante, colorata e rumorosa nei quartieri tamil. Meta di ‘bobos’ in cerca di esotismo, hippy dalle tonalità new age, artisti e designer, Pondy offre la sua anima più mistica nello Sri Aurobindo Ashram, frequentato dai devoti del saggio e filosofo indiano che qui fondò – insieme alla donna francese chiamata affettuosamente ‘Mother’ – una comunità attivissima, concreta e spirituale allo stesso tempo.


I templi di Mahabalipuram

A Mahabalipuram, proprio di fronte all’Oceano Indiano, una generazione di scalpellini poeti edificò (nel VII secolo, in epoca Pallava) straordinari monumenti lavorati o scavati nella roccia: pareti scolpite a rilievo, templi in grotta e templi monolitici all’aperto. Divinità, figure umane o animali di grande e solenne bellezza fanno pensare a come «l’immobilità, la calma, la pace emanino abitualmente dalla rappresentazione sacra. Il contrasto con l’arte greca è totale; la forza muscolare è assente, il gesto di sforzo è nullo, la statua non fa nulla», come scriveva Jean Roger Rivière.

Il viaggio finisce davanti al mare, come forse dovrebbe sempre essere, e nel Tanto Indiano anche noi abbiamo scelto i filati per il nostro tessuto interiore. Un misto di alto e basso, di semplice e divino, come solamente l’India del Sud può dare.

Nel ricordo si fissano il profumo di gelsomino delle ghirlande di fiori, il verso onnipresente del corvus splendens che accompagna ogni giornata, le chiacchiere della gente che vive il tempio come casa propria, la nostra voglia di ascoltare la strada e l’insistenza della strada nel farsi ascoltare, quel potere immaginifico e creativo che deborda dalle saghe mitologiche come dai film di Bollywood, quella capacità unica di far posto a ogni cosa perché tutti i luoghi – reali o fantastici – sono sempre spazi da riempire.


Foto Guido Barosio


Guido Barosio, giornalista, fotografo e scrittore, è direttore della rivista Torino Magazine e dell’Agenzia di Stampa nazionale LaPresse.



 

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