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La Valle di Sea |
07 Luglio 2020 | ||||||||||||||||||||
Una dolce e selvaggia Valle del Piemonte da preservare
La Valle di Sea mi è sempre stata nel cuore, fin da ragazzo, e negli anni ho assistito con rammarico al suo degrado dovuto all’abbandono, nell’indifferenza dei più. Per questo ho pensato di riprendere ed ampliare un articolo che avevo scritto a suo tempo per la rivista “Panorami” e parlare di nuovo di queste montagne, per tramandare qualche ricordo di luoghi e toponimi. Che cosa è cambiato da allora? Grazie all’attività di promozione svolta, encomiabilmente, da volontari, si è verificato un grande sviluppo: l’alpinismo, il quale sfrutta, con sempre nuove vie attrezzate, le imponenti pareti rocciose della valle, che hanno avuto come protagonisti, in passato, nomi divenuti memorabili. L’afflusso di appassionati è andato via via crescendo. Purtroppo non si può dire lo stesso per l’escursionismo. A suo tempo alcuni avevano pensato, cosa incredibile per un ambiente così intatto, alla costruzione di piste trattorili per fantomatici interventi di “recupero” (fortunatamente, per ora, vanificati), ma non si sono curati di far sistemare una sola pietra dello sconnesso tracciato né mai di provvedere alla necessaria pulizia della vegetazione invasiva. Forse anche per questo di escursionisti lungo il percorso se ne vedono pochi. Con i sentieri si perdono le memorie delle usanze, dei posti, dei personaggi. Io ho cercato di salvare qualche ricordo. L’auspicio è che almeno la conoscenza di questi luoghi cresca, perché la Valle di Sea lo merita. Approccio alla valle Quanti conoscono le Valli di Lanzo rammentano che quelle di Viù e di Ala terminano con un’amplissima conca (rispettivamente di Malciaussia e del Pian della Mussa), immediatamente a ridosso della catena spartiacque. Non è così, invece, per la Val Grande. A monte del villaggio di Forno si trova, è vero, una vasta piana alluvionale, su cui incombono le cime della Levanna e del Martelot, ma sulla sinistra si diparte un lungo solco glaciale, che si sviluppa sino al confine, per oltre una decina di chilometri. È il vallone di Sea, una delle ultime aree veramente intatte delle Alpi torinesi, riguardo alla quale l’uso della parola wilderness è d’obbligo. Nel suo tratto iniziale questo solco è delimitato da imponenti pareti rocciose, che oggi sono diventate, appunto, una delle mete preferite dagli alpinisti. Chi ama i paesaggi distensivi, verdi di prati pianeggianti, all’inizio del percorso si troverà probabilmente a disagio, quasi intimidito dagli scuri dirupi e dalle colate grigie di massi, che si susseguono. Anche in estate la valle riceve tardi il sole del mattino, comunicando un senso di freddo con la sua ombra scura. Nel 1800 il conte Francesetti di Mezzenile, calcando un po’ la mano, si esprimeva così: “Il Colle di Sea, il più difficile e il più pericoloso di tutti i valichi che portano dalle Valli di Lanzo in Savoia, serviva agli abitanti della Moriana per far passare il loro bestiame in Piemonte. ... Per arrivarvi bisogna prima risalire, partendo da Forno, il Vallone di Sea fino al suo ultimo alpeggio; si tratta di un percorso orribile, tracciato quasi per intero negli sfasciumi di roccia che ingombrano il fondo di questo vallone – o, per meglio dire, di questo spaventoso baratro”.
Dunque il posto non a tutti può piacere. Tuttavia chi cerca la montagna aspra, di effetto, trova qui la propria meta. Il profilo delle montagne è movimentato da creste, guglie, canaloni e dirupi, ed offre, mentre si cammina, una molteplicità di prospettive a chi sa osservare. Se, con il cielo nuvoloso, la valle può sembrare particolarmente opprimente, con il sole del pomeriggio assume una dimensione diversa, muta colore e, con il contrasto fra la luce dorata e l’allungarsi delle ombre, induce alla contemplazione. Il toponimo “Sea”, abbastanza diffuso sulle Alpi, è stato oggetto di differenti interpretazioni. Una lo identifica con “cresta ghiacciata”, come i profili taglienti dei rilievi sembrano suggerire. Un’altra ipotesi fa risalire il termine a “sejà”, “falciata”, visto che l’andamento a mezzaluna del solco vallivo lo fa sembrare tagliato di netto, a semicerchio, da un colpo di falce (la pronuncia locale era però “seja” senza accento). Comunque sia, tale andamento curvilineo, con un succedersi di conche e di strettoie, fa sì che l’escursionista, risalendo la valle, non abbia mai la visuale completa, bensì prospettive che variano via via, e questo per me è un punto di interesse. Solo dalla piana del Gias Nuovo l’occhio può spingersi sino alla testata ed alle cime. Fino a questa prima meta (che può già essere soddisfacente per il comune gitante) il sentiero, poco agevole, procede con pendenze moderate e rare impennate; dal Gias Nuovo in su, invece, diventa erto e faticoso. La conformazione del territorio e l’ambiente naturale La Val di Sea è delimitata, ai lati, da due lunghe e variegate dorsali montuose. Nella destra orografica i rilievi partono dalla Ciamarella (che, con i suoi 3676 metri è la vetta più alta delle Alpi lanzesi) e continuano con l’Albaron, la Rossa, l’Uja di Mondrone (tutte composte da serpentiniti o prasiniti) e il complesso della Leitosa (m 2826), in cui predominano gli gneiss. Quest’ultimo, come vedremo meglio, si articola in un vasto insieme di selvaggi valloni pensili scavati dai ghiacciai, gradoni, creste e pinnacoli, che lo rendono assai pittoresco. Secondo me è una delle zone più suggestive dell’intera Val Grande, ma, purtroppo, la difficoltà di accesso lo rende una meta per pochi esperti. Il versante sinistro, ancora di gneiss, inizia con la Punta Bonneval (m 3325, contigua alla Cima Sea) e prosegue con le punte Piatou e Francesetti, l’Uja di Mombran (m 2954) e il Bec Cerel, che domina Forno. Sotto le vette si estendono ampi terrazzi sassosi, ricchi di rocce montonate e, soprattutto, due selvaggi valloni: quelli di Marmorand e di Mombran, il più imponente, detto il Vallone dei Cacciatori, che scende scosceso per tutta la lunghezza della montagna sino al fondovalle. Anche questo versante è di grande suggestione per la sua wilderness, ma riservato agli escursionisti più esperti ed allenati.
Alla testata della valle, appena sotto il Colle di Sea (m 3100), si estende un’ampia conca pensile, dalla superficie sassosa, ma un tempo coperta interamente dal ghiacciaio della Ciamarella, che purtroppo negli ultimi decenni si è ritirato notevolmente. Eppure di lì, come si è rilevato, transitavano in passato le mandrie di bovine provenienti dalla Savoia. Le due dorsali sopra menzionate scendono a picco sulla valle, con imponenti pareti di roccia, qua e là inframmezzate da numerose cenge, verdi di alberelli e cespugli, le quali mostrano l’azione degli antichi ghiacciai. In autunno, quando le foglie imbiondiscono, la doratura del sole crea effetti suggestivi, ponendo a contrasto il giallo degli alberi con lo scuro delle drose e dei massi. Nel corso dei millenni e ancora in tempi recenti) da queste pareti si sono staccati e frantumati grandi blocchi di pietra, che si sono accumulati in basso, formando erti pendii, solo a tratti rinverditi dalla cote erbosa o da specie arboree come aceri montani, sorbi, maggiociondoli, betulle. In certi tratti prevalgono le “drose” (ontani), in altri i rododendri, che in primavera offrono lo spettacolo delle loro fioriture, una particolarità della Val di Sea. Tuttavia sino alla prima metà del ‘900 la vista era diversa. Tutti questi alberi, peraltro di dimensioni modeste, sono frutto dell’abbandono, della fine dell’economia pastorale. Su un numero del 1909 della rivista “Economia rurale” si legge: “La valle di Sea si volge poscia in mezzo a montagne brulle, senza ombra di boschi, con pochi cespugli”. Sembra certo che a monte di questo paesaggio degradato, oltre all’intenso utilizzo pascolivo, vi sia stato il forsennato disboscamento effettuato al tempo dello sfruttamento minerario (documentato fino al ‘700), che richiedeva carbone per i forni. Il manto arboreo originario doveva arrivare almeno fino alla conca dell’alpe Balma Massiet, cioè intorno ai 1500 metri. Poco prima delle baite, dove inizia la conca successiva allo “sc-ialeri” (rampa), si incontra un modesto pianoro in cui il nero del terriccio è indicativo dell’attività che vi si svolgeva. In Val Sea l’ambiente intatto e poco frequentato ha costituito da tempo un rifugio per la fauna selvatica, in primo luogo camosci e stambecchi. Questi ultimi si incontrano, isolati o in folti branchi a seconda delle stagioni, un po’ in tutti i settori della valle. Ad inizio primavera scendono numerosi sino all’imbocco del piano, in cerca di erba fresca. Li troviamo nei pressi dell’alpe delle Casette o poco sopra, dove termina la pista dell’acquedotto o nel sassoso Pian Tendü, al di là del torrente, a volte in branco o più spesso sparsi per i selvaggi pendii, dove le cenge più isolate offrono riparo alle femmine che partoriscono. Man mano che la stagione avanza, guadagnano quota raggiungendo le altitudini maggiori. Bellissimo, nel mio ricordo, l’esemplare grande e solitario avvistato presso il laghetto del Pian di’ Giavanot. Ma capita spesso di incontrare in zone più basse dei giovani isolati o madri con i cuccioli. È frequente vederli sostare presso le costruzioni dell’acquedotto per leccarne il cemento. Con l’autunno inizia la ridiscesa. Ho avvistato il branco più numeroso (una trentina di capi) ad ottobre nell’inverso del Gias Nuovo (intorno ai 1900 m), dove l’erba si conserva più a lungo.
La Val di Sea vantava una flora ricchissima di specie. Purtroppo l’inselvatichimento ha ridotto le aree adatte alle fioriture. A parte i rododendri, che formano grandi chiazze rosseggianti, coprendo le distese di massi, ormai occorre cercare le aree circoscritte “specializzate” in determinati esemplari. Certi terreni asciutti, ad esempio salendo verso Mombran o sopra lo sc-ialeri di Balma Massiet, sono preferiti dall’astro alpino. Invece quelli umidi, in particolare presso il Passet o lungo la ripida salita verso Sea, sono prediletti dall’aconito, il giallo “vulparia” ed il viola “paniculatum”. Poco oltre, continuando la salita, si vedono ancora, ma sempre più rade, le aiuole giallo-oro del Trollius europeus. Una volta ne erano ricchi anche i bassi prati delle Casette, oggi invasi dal veratro e da altre infestanti. È quasi sparita, purtroppo, l’aquilegia, che cresceva, ad esempio, nei pascoli verso la base di accesso al sentiero per il Passo dell’Ometto. Più ricca è la dotazione floristica del Gias Nuovo, malgrado i danni recati dalle alluvioni. È bello ammirare qua e là i cespi blu del delfinio o quelli rosa del cavolaccio lanoso (adenostyles leucophylla). In autunno, invece, è il rosso-arancio dei mirtilleti a richiamare l’attenzione. La zona migliore, per osservare fino a stagione avanzata molteplici fioriture, è l’ambiente fresco dell’inverso della conca, dove l’erba è più verde. Sembra un mondo a parte, rispetto alle distese sassose dell’alveo del torrente. Vi si arriva con difficoltà (a meno di guadare l’impetuoso corso d’acqua), seguendo un tracciato poco visibile che parte presso il ponte di Sea, un po’ sopra le sterpaglie che fiancheggiano il sentiero. Ma l’esemplare-principe, nella valle, è il genepì, che cresce rigoglioso alle quote più elevate, dopo il cosiddetto Passo di Napoleone, ed è ricercato dai valligiani. Ancora oggi, quando si incontra uno di loro che scende dal sentiero e ti dice che è andato “a fè na gira”, si può star certi che torna dalla ricerca della profumata pianticella. Percorrere i sentieri L’andamento della Val di Sea si caratterizza per l’alternarsi di sempre più ampi bacini glaciali e di strozzature delimitate da dirupi e pietraie. Alla sua stretta imboccatura, quasi aggrappato al pendio boscoso, sorge il celebre Santuario, a suo tempo meta di pellegrinaggi provenienti fin dalla Savoia, come narra il Francesetti. Sul lato opposto ad esso risaliamo la pista dell’acquedotto, che taglia fuori l’alpeggio delle Casette, e sbocchiamo in una prima modesta conca, il sassoso Pian Tendù. Una volta il sentiero lo risaliva per intero, toccando una grande balma sotto due massi, utilizzata, penso, fin da epoche remote. Poco oltre si trovano le prese d’acqua della copiosa sorgente che alimenta l’acquedotto. Oggi, per giungervi, occorre guadare il torrente, come succede anche agli alpinisti che vogliono andare a cimentarsi con le pareti dello Specchio di Iside. All’altezza del guado si trova uno spazio, spianato dalle ruspe, che un tempo (chi se ne ricorda?) era il prativo Pian di’ Rovas. Qui presso si trovava la presa dell’acqua del torrente, che veniva convogliata da un canalino sino alle Casette; uno dei tanti lavori senza risparmio di fatica per utilizzare il liquido elemento. Dal pianoro si prosegue diritto fino ad imboccare il sentiero. Negli anni ’70, per evitare il problema del ripristino dei ponticelli travolti dalle piene, si decise di ricavare un passaggio diretto sulle rocce della sinistra orografica. Se ne occuparono due esperti montanari, “Mentu” Girardi e Pietro Garbolino, che eseguirono un lavoro magistrale, “costruendo” la cengia del cosiddetto Passet. Avevano protetto il margine esterno del sentiero con grandi blocchi di roccia squadrata, la maggior parte dei quali è stata spinta giù per il dirupo dai soliti barbari. Superato il Passet ed un’antica cava di lose, con i resti della capanna degli operai (sorgente nei pressi), si inizia a salire, fino ad affrontare la rampa dello Sc-ialeri di Balma Massiet, che immette nella conca omonima. Da Pian di’ Rovas in poi, in stagione, questo tratto è rosso di rododendri. Ma già in questa parte di percorso ci si rende conto delle caratteristiche di tutto il sentiero di Sea: un tracciato disagevole, sassoso, perché tale è il terreno che si attraversa, accidentato e soggetto a frane, con rari tratti in cui si intuisce l’intervento dell’uomo per migliorare l’accesso. È un dato di fatto che stupisce, perché la valle era un’importante via di transito per la Savoia, dalla quale passavano non soltanto i pellegrini, ma merci svariate, come il sale, e persino le mandrie di bovini. Comunque chi è appassionato passa sopra all’inconveniente. La conca di Balma Massiet è piuttosto lunga, costellata di enormi massi di aspetto impressionante. Proprio all’inizio si incontra l’angusto Pian di’ Charbouneri, dove il terriccio nero ricorda l’antica attività di preparazione del carbone. Poco oltre si notano sulla destra una grande balma e quindi i resti di un remoto stanziamento pastorale. Dopo le baite di Balma Massiet, raggiunte attraverso un ponticello, il sentiero riprende a salire, a tratti graduale, a tratti più erto, innalzandosi rispetto al torrente, che rumoreggia in fondo alla gola e forma delle cascate di modesta altezza, ma spettacolari per la portata d’acqua. Anche questo tratto a fine maggio rosseggia di rododendri. Sulla sponda opposta non si vedono che scoscesi dirupi. Osservandoli non si può nemmeno intuire che dietro di essi si celino i resti di un piccolo alpeggio abbandonato, il Gias dou Roc Ariund, contraddistinto da un grande masso tondeggiante.
È la dimostrazione di come, un tempo, i montanari sfruttassero ogni minima risorsa. Forse era utilizzato per le bovine “asciutte”. Vi si giunge da Sea, da cui dipendeva, lungo un percorso su cenge. Alla nostra sinistra, invece, in alto si distingue, dal colore più chiaro delle rocce, il punto in cui si è distaccata in epoca recente una grande frana (la “Arvina Bienci”), che ha sconvolto per largo tratto il territorio. Di un bel prato in pendio sotto il sentiero, dove fiorivano le aquilegie, resta ben poco. In compenso nei tratti più umidi tra le rocce fiorisce l’aconito. Un breve tratto lastricato nella pietraia ci porta in vista dell’ampia ed articolata conca di Sea. In lontananza si scorge la grande rupe, simile a quella di Forno, sotto cui sono situate le baite. Alla nostra sinistra si apre, in tutta la sua maestosità, la visuale della catena che comprende l’Uja di Mondrone (m 2964), la Rossa (m 2908) e l’Albaron (m 3262, con una parete di quasi mille metri). L’etimo di quest’ultimo potrebbe risalire a forme celtiche, come ar-, al-, alp, alb, che indicano un luogo elevato, con l’aggiunta di un suffisso accrescitivo -on. Le pendici di queste cime sono coperte di “drose”, al di sopra delle quali svettano le rocce di colore rossastro. Quindi il tracciato, con pendenze sempre moderate, conduce al ponticello sul torrente, che scaturisce impetuoso da una profonda gola, spettacolare nelle sue spume. In stagione, sulle rocce scure, si ammira la fioritura delle sassifraghe cotiledoni. Poco prima del ponte, a destra del sentiero, sgorga un sorgente freschissima, che per me è la migliore del mondo. Nei pressi del ponte si diparte, verso sinistra, il percorso segnalato per il Passo dell’Ometto (m 2618) e per il Ghicet di Sea (m 2750), due valichi che hanno rivestito notevole importanza per le comunicazioni con la Val d’Ala. Tuttavia in passato chi era pratico, per risparmiare tempo, raggiungeva più direttamente la base dell’ascesa, presso l’evidente cascata, rimontando il letto di un ruscellaccio che si incontra poco dopo l’ingresso nella conca (oggi, però, il transito è intralciato dalle drose). Mi è stato narrato che i giovani di Forno, nel loro desiderio di un po’ di svago, utilizzavano con una lunga marcia il passo dell’Ometto per scendere nella valle vicina in occasione di certe feste. All’incirca negli anni ’70 il sentiero per il valico è stato ri-tracciato su un percorso completamente diverso da quello originario, che compiva un tragitto più lungo, con una diversione verso sinistra, ma assai meno acclive e più panoramico di quello attuale. Il motivo della strana scelta mi è sconosciuto. Il tracciato più antico passava presso un pendio prativo coperto fino a tardi di neve. Sulla sinistra di quest’ultimo, remoto ed arduo da raggiungere, v’era un altro nevaio perenne, la Valenci (il Crotass per quelli di Ala), rifugio estivo dei camosci per la sua frescura. Oggi, ormai, con il mutamento del clima, a fine estate questi pendii innevati perdono del tutto la loro bianca copertura. La salita all’Ometto, contraddistinto dall’alto monolite che gli dà il nome, è impegnativa, ma la fatica è compensata dalla suggestiva vista del profondo vallone finale, in uno scuro ambiente lunare. All’ingresso di tale “corridoio” si notano, tra le rocce, alcuni modesti praticelli, stupendi se indorati dal sole, dove cresce il nontiscordardime nano. Tutto diverso il versante di Ala, con ampie distese prative che scendono fino alla conca dei Funs. Da giovane ho fatto in tempo a vedere, in zona, un leggiadro laghetto, purtroppo da tempo prosciugato. Identica differenza fra i due versanti si può notare al Ghicet di Sea. La salita ad esso da Forno, adattata in tempo di guerra per passarvi con i muli, è aspra e dirupata, con passaggi da vertigine. Nel 2019 una frana aveva reso il percorso inagibile. Da Sea (m 1785), transitati accanto alle baite fra ortiche altissime, ci attende un tratto di sentiero ripido e disagevole, ma breve. Ben presto l’erta si addolcisce, poi il tracciato piega a sinistra, attraversa una valletta e con un’ultima china giunge in vista dell’immensa piana del Gias Nuovo (m 1888, certamente un antico lago). Le alluvioni hanno sconvolto notevolmente il paesaggio, dove ampi tratti sono coperti di sassi. Dall’alto della schiena d’asino che si percorre, si apprezza, sulla sinistra, una piccola conca percorsa da limpidi ruscelli sorgivi, dove fiorisce il delfinio. Si attraversa tutta la conca per trovarsi di fronte alla rampa da affrontare. Di qui in avanti il percorso si fa erto e faticoso, oltre a richiedere attenzione.
Il tracciato sale a stretti tornanti, supera un ruscello ed affronta un aereo passaggio su di una cengia artificiale. Questa, anni fa, aveva ceduto, cosicché la si era dovuta ripristinare, collocando due putrelle d’acciaio coperte di lose. Il transito può essere problematico per chi soffre di vertigini. Ci si infila in una specie di trincea scalinata fra le rocce: è il passo di Napoleone. Qui, secondo certi racconti, il passaggio sarebbe stato costruito da ex-soldati napoleonici prigionieri. Se ne esce per trovarsi in un ambiente brullo e silenzioso, poiché il torrente è ormai lontano. Il ripido sentiero transita nei pressi dell’alpe Piatou e, di dosso in dosso, si dirige verso il bivacco Soardi Fassero (m 2997), costruito nel 1957 e rifatto nel 1993 con notevoli miglioramenti. È la base ideale per chi vuole compiere itinerari impegnativi e scalare qualcuna delle cime circostanti. Descrivendo quest’ultima salita, ci siamo lasciati dietro due interessanti digressioni. Al Gias Nuovo, presso una sorgente poco prima delle baite, un sentiero inizialmente non molto evidente conduce, con una salita di oltre 400 metri di dislivello, su per pendii ormai abbandonati e silenziosi, all’alpeggio di Lavassè (m 2349), che dà veramente l’idea di un posto fuori dal mondo. A monte delle baite, sulla sinistra, una traccia incerta e non lineare va in direzione di una modesta crestina. Occorre costeggiarla in salita per individuare l’unico punto utilizzabile di passaggio escursionistico (fruito a suo tempo anche dalle bovine) per spingersi nell’altro versante e raggiungere così il sentiero per il Passo delle Lose, scendendo per il quale si compie un interessante anello. Suggestiva, ad un certo punto, una modesta pozza che riflette la Ciamarella. I pendii del Lavassè danno un senso di solitudine e di pace indimenticabili. Salendo al Bivacco si può, ad un certo punto deviare a destra in direzione delle baite di Piatou (m 2193), donde inizia la salita per il Passo delle Lose (m 2866), che permette di scendere nel vallone del Gura (Rifugio Daviso), con un percorso a tratti aereo ed impegnativo, per escursionisti esperti. Ancora più difficoltoso è il Col di’ Loson, a valle dell’Uja di Mombran, che si affaccia sulla zona di Malatret e sulla Gura. Sconsiglio tali itinerari a chi soffre di vertigini e soprattutto in caso di nebbia. Invece suggerisco a tutti una breve digressione, che permette di raggiungere un luogo bucolico di grande fascino. Da Piatou si rimonta, al libero, il corso del torrentello e in breve si giunge (m 2290) al Pian di’ Giavanot, un tempo “Pian dou Ciavanot”, cioè piccola “ciavanna” (ma, mi raccomando, non “Giovanot” come ha scritto qualcuno!). È un vasto terrazzo prativo con uno specchio d’acqua poco profondo, ma delizioso, che riflette la Ciamarella. Una sosta per guardarsi d’attorno si impone. Se proseguiamo lungo il sentiero per il Passo delle Lose, ci si offre un’altra opportunità di scoperta. Ad un certo punto si sbocca in un ampio vallone, percorso da un ruscello. Attraversiamolo e, al libero, puntiamo ad un ben visibile pendio prativo. Lo risaliamo e, alla sommità, svoltiamo a destra, imboccando un lungo cengione (ben visibile dal basso). Lo percorriamo per intero e poi, senza perdere quota, attraversiamo un breve tratto di pietraia. Ci troveremo di fronte ad un’autentica perla: il laghetto di Mombran (m 2630), o del Lavassè, che per me rimane un ricordo stupendo. I più esperti ed allenati possono proseguire e rimontare la pietraia per portarsi in direzione dell’Uja di Mombran, ai cui piedi si trova una bella conca, sede, in passato, di un glacio-nevaio, con tratti erbosi e rocce montonate. Alle pendici dell’Uja si estende uno dei territori più selvaggi della Val Sea: la “comba” pensile di Marmorand, un vallone di pietraie e radi tratti erbosi (le “cialme”), che, a detta dei cacciatori, è l’“invernòu di’ camotch”, il posto dove sostano i camosci anche nella stagione fredda, perché riceve il sole, e la neve si scioglie prima. Fra tutti quei massi mi risulta che sia stata avvistata, addossata ad una roccia, una “trüna”, un modesto riparo con il tetto ad un solo spiovente. È probabile che fungesse da riparo per le capre provenienti da Lavassè, forse con un guardiano, le quali brucavano la poca erba disponibile. Un altro esempio di sfruttamento “estremo” delle risorse. Secondo il racconto di alcuni a Marmorand ci sarebbe anche una balma dove gli stambecchi vanno a morire, ma non dispongo di conferme dirette. Il vallone pensile termina con un precipizio che guarda su Balma Massiet, su cui scende una modesta cascatella (ma, a volte, anche la valanga), che alcuni chiamavano “Rian dou Sautet”, altri “Rian d’la Sausi”. L’origine del nome del vallone rimane misteriosa. Posso solo rilevare che, sulle Alpi, la radice “marm” era sinonimo di “lucentezza” (non di “marmo”, che a Marmorand non esiste) e che il luogo è particolarmente soleggiato, con rocce di colore grigio chiaro. Il Prof. Rivoira dell’Università di Torino mi ha fatto notare che a Salbertrand la “marmourina” è una pietra da cui si ricavano lose. Ignoro se a Marmorand si estraesse, in passato, una pietra del genere.
Chi vuole completare la risalita della Val di Sea, dal Bivacco scende per un certo tratto, poi inizia a riprendere quota in direzione di un canalone detritico, racchiuso tra pareti rocciose, dove, secondo gli anni, rimane una placca di neve indurita. Qui si estendeva il bacino ablatore dell’antico ghiacciaio. Rimontare questo pendio erto ed accidentato è faticoso. In cima ci aspetta l’ampia conca glaciale ai piedi degli ultimi seracchi del Tonini, sotto la parete nord della Ciamarella. Siamo in vista del Colle Sea (m 3100). Quella che un tempo era un’uniforme distesa di ghiaccio oggi è coperta da sfasciumi. Dal valico il panorama verso la Francia è grandioso e compensa d’ogni fatica. La discesa sul versante transalpino comporta difficoltà non indifferenti ed è adatta ad alpinisti esperti. Le aree marginali - Mombran Dal Santuario di Forno, sul versante opposto della montagna, si osserva un ripido pendio, un tempo prato sassoso ed oggi in gran parte alberato. Non se ne scorge la sommità, coperta dal protendersi dei dirupi. Da lontano, invece, ad esempio dallo stradone, la visuale è completa: tra il Bec Cerel e l’imbocco della Val di Sea corre un profondo solco, che scava il rilievo montuoso in tutta la sua lunghezza e giunge fin sotto la cima dell’Uja: è il vallone di Mombran. Basta un’occhiata per coglierne la wilderness. Era anche detto “il Vallone dei Cacciatori”. Quando si organizzava una battuta, i tiratori salivano da Sea ad appostarsi presso il Passo delle Lose, mentre i battitori rimontavano Mombran per spingere i camosci verso chi li aspettava. L’etimologia del nome è incerta. Postulata la forma intermedia Mont-Bran, ricordo che “Mont” sta in genere per “luogo elevato” (come mi era capitato di constatare, ad esempio per “Mon-drone”), e non cima. Il toponimo potrebbe, quindi, riferirsi all’erto pendio situato sopra “lou Streit”. Difficile, al momento, spiegare il suffisso “ –bran”. Da una testimonianza che ho raccolto dal signor Piero Tetti di Ala, la tradizione dice che in passato si pronunciava “Mumblan(c)”, per il colore chiaro, quasi bianco, delle rocce. Successivamente “blan(c)” avrebbe dato “bran”, per un fenomeno fonetico abbastanza frequente in area celtica, che si chiama rotacismo. Naturalmente, non essendovi documenti che attestino tale evoluzione, si rimane sul piano delle ipotesi. Per risalire il vallone, non c’è più sentiero. Un segnale su un masso, lungo la pista dell’acquedotto di Sea, indica la direzione da prendere. Qualche vecchio bollo rosso funge inizialmente da guida; poi bisogna aggiustarsi, scegliendo i passaggi meno disagevoli fra alberi e rocce. Tutta questa zona, un tempo pascoliva, prende il nome di Mombranet, il cui pendio altro non è che una vasta, antica, frana, coperta poi di vegetazione. Si sfocia, quindi, in un erto canalino fra le pareti incombenti, “lou Streit ‘d Mombran”. Poco prima di esso si trova un pietrone, a forma più o meno di parallelepipedo, chiamato “la Bala dou Buerrou”. Superato questo punto disagevole e raggiunto un terreno più aperto, si piega a sinistra e, facendosi largo tra gli arbusti, si giunge in vista dei ruderi del primo alpeggio di Mombran (m 1795), appoggiato sul declivio. Segue un breve tratto di salita lungo il ruscello, che si attraversa a guado verso sinistra, per raggiungere il secondo “tramüd”, posto su un panoramico terrazzo. Non siamo nemmeno a metà strada. Il resto è un’impervia, interminabile salita, per lo più tra sfasciumi e pietraie, fino ai piedi dell’Uja. D’altronde chi vuole scalarla non passa da questa via, ma da Sea, magari pernottando al Bivacco, e fruendo per un tratto del tracciato per il Passo delle Lose. Ai piedi dell’imponente Uja di Mombran, come ho detto, è bello scoprire la conca glaciale con le sue rocce montonate. A suo tempo Mombran non poteva ospitare più di tre o quattro mucche, tanto che era affittata per una cifra esigua (105 lire nel 1909, dice “L’Economia rurale”). Spesso si preferiva utilizzarlo solo per le capre, che potevano essere fino ad un centinaio. Lì i pastori conducevano una vita grama. Ad inizio stagione, affinché non molestasse le femmine, si conduceva il “bouc” in un’apposita area, isolata con dei massi. Vi si accedeva attraverso il pericoloso “Pas d’la Crava”. Una volta un margaro, forse urtato dall’animale, precipitò dal dirupo, e si faticò perfino a ritrovarne il corpo. Tuttavia c’è anche qualcosa di meno macabro da raccontare. Per un certo tempo Mombran fu utilizzato dalle capre del signor Battista Berardo di Pialpetta, che affidava il “troup” ad un guardiano soprannominato “Marmoutücciu”. Questi, quando il signor Berardo saliva a prelevare i tomini prodotti, pretendeva che gli fosse portata dell’insalata, salvo rifiutarsi di provvedere al carico. Talvolta, essendosene dimenticato, il signor Berardo a Forno se ne procurava un cespo da amici, per non deluderlo. Le capre erano condotte e lasciate libere su per i pendii ; quando dall’alto vedevano che il pastore, all’aperto, preparava il necessario, scendevano festose, spontaneamente, per farsi mungere. Le aree marginali – Leitosa Ai piedi della cima Leitosa (m 2826) si estende un sistema di valloni pensili, scavati dai ghiacci in epoca remota e separati fra loro da grandi speroni rocciosi. Il più noto è la Cresta della Cittadella. È un territorio selvaggio, che va dal Bec ‘d Mesdì (m 2427) al Passo dell’Ometto. Presso il Bec si trova un collarino (il Pas di’ Moret), da cui scende un vertiginoso canalino sassoso che conduce al Cinai d’la Madona. Tale impervio canalone costituiva la via attraverso cui i valligiani di Ala scendevano al Santuario di Forno in occasione dell’Assunta o dell’8 settembre. Nella parte alta, raccontavano gli anziani, era stato predisposto un ardito sentierino a tornanti che con il tempo si è cancellato. In questi valloni, che oggi sembrano inaccessibili, si celano due alpeggi ormai abbandonati da decenni, Leitosa prima e seconda. La cima sovrastante trarrebbe il nome dalle sue rocce di colore grigio chiaro, che richiamerebbe quello del latte (“leità”). Quando la montagna era ancora curata, il pascolo, benché di dimensioni ridotte, era ottimo. Mentu Girardi mi parlava di un tratto di prato chiamato “l’erba d’or”, poco sotto le baite inferiori, addossate ad un’alta rupe.
Oggi l’accesso a Leitosa è assai difficoltoso, poiché invaso dalla vegetazione. Ormai cancellato l’antico sentiero che cominciava da “ ‘n Rignousa”, si sale per un’erta traccia subito a monte del Santuario. Essa tocca il Pian ‘d Rignousa, ora coperto dalla vegetazione invasiva, ma un tempo delizioso e ricco di mirtilli; quindi piega a destra ed intraprende un lunghissimo traverso, con tratti disagevoli ed esposti, alto sulla valle di Sea. Finalmente, dopo una svolta ed un pendio più sostenuto appaiono in vista le baite (m 1818), quasi incastrate nella roccia. È probabile che l’alpeggio sia nato sfruttando come riparo un’ampia balma della roccia, ancora visibile presso le case. Di qui si attraversa la pietraia su un tratto magnificamente lastricato, ma poi il sentiero si perde, per cui diventa un’impresa farsi largo fra le drose e raggiungere il secondo alpeggio (m 1931), che sorge in un ameno pianoro. Saliti sulla rupe sovrastante, si giunge in vista del terzo “tramüd”, una semplice balma con il pascolo riservato alle capre. Durante il secondo conflitto mondiale l’alpe di Leitosa fu tenuta dall’amico Pietro Garbolino, allora giovanissimo, con il padre. Mi raccontava che, già allora, erano occorsi vari giorni per ripristinare il sentiero (con l’aiuto di due operai), in particolare in un punto esposto, dove si dovettero conficcare nella roccia delle barre d’acciaio che sostenessero una passerella. Un giorno d’estate Pietro si era recato con le capre alla terza Leitosa. Verso sera, scesa la nebbia, gli animali si erano allontanati quasi senza che se ne accorgesse ed egli, ancora inesperto, non sapeva come ritrovare la strada. Solo seguendo una ritardataria era riuscito, con ansia, a riguadagnare la via di casa. La parte superiore del territorio di Leitosa, con il suo articolato sistema di cenge e di creste, era il regno dei camosci e perciò anche dei cacciatori, compresi quelli della Val d’Ala. Questi, dal loro versante, risalita la Cialma di’ Moutùn (sopra i laghi del Trione), si immettevano in un dirupato percorso su roccia poco sotto le cime, “lou passagi ‘d Chel” (o “lou Trainou aut” per gli Alesi), che andava a sboccare alla già nominata Valenci ed al Passo dell’Ometto. È un peccato che la zona di Leitosa sia diventata pressoché impraticabile. La riapertura ed il ripristino del sentiero consentirebbero anche ai normali escursionisti, purché non soggetti a vertigini, di visitare almeno una parte di questo paradiso naturalistico. Gli alpeggi L’utilizzo dei pascoli di Sea risale a tempi lontani, quanto meno all’epoca romana. Senza contare la grande balma di Pian Tendu, va rilevato come, nella conca di Balma Massiet, gli impressionanti massi staccatisi dalla montagna abbiano formato anfratti, grotte, ripari sotto roccia, che potevano offrire rifugio a uomini ed animali. Subito dopo il Pian di’ Charbouneri, presso cui è situata un’ampia balma, si notano i resti di un recinto pastorale di pietra, in parte cancellato, ma ancora ben delineato. Si distingue persino il punto d’ingresso. Un insediamento simile è presente sulla sponda opposta del torrente, scendendo dalle baite. Si tratta di spazi limitati, che dovevano essere frequentati da piccoli greggi di ovini. Questi furono probabilmente, per lungo tempo, gli animali d’allevamento prevalenti in valle. Ai bovini si passò assai dopo. Nell’Alto Medioevo, intorno al IX-X secolo, le Valli di Lanzo dipendevano dal vescovo di Torino, il quale poi le infeudò al monastero di Santa Maria di Pulcherada (San Mauro). È probabile che siano stati proprio i monaci, come accadde su un po’ tutto l’arco alpino, ad incentivare lo sviluppo della pastorizia. Possiamo collocare questa ripresa intorno al Mille, epoca di rinascita economica e di incremento demografico. Ne fu investita anche la Valle di Sea, i cui pascoli sono poi citati in documenti del ‘300. Nel 1516 metà della valle fu assegnata alla famiglia degli Arcour, l’altra metà ai Graneri di Lanzo, ricchi borghesi operanti nel settore minerario, che successivamente ne acquisirono per intero il controllo. Sembra che nel 1602, quando i Savoia vennero a Lanzo per partecipare ad una caccia all’orso, si siano visti offrire, con orgoglio, dei formaggi di Sea, che avevano fama di qualità. Verso la fine del ‘500 le valli di Lanzo attraversarono dei brutti momenti tra alluvioni (come nel 1585-86) e pestilenze, ma successivamente vi fu un miglioramento, forse legato alla ripresa delle attività minerarie. Per questo gli abitanti di Forno si impegnarono nell’acquisto degli alpeggi circostanti il paese, dei quali si spartivano poi l’utilizzo. Nel 1624 comprarono da famiglie della bassa valle l’alpe della Gura, che godeva di buoni pascoli. Nel 1628 entrarono in trattative con i Graneri per Sea. I rapporti tra le due parti si erano deteriorati, e con questa soluzione i proprietari ritennero di risolvere i dissidi, cedendo quei pascoli alla comunità di Forno. Purtroppo, con il sopravvenire della peste, le trattative si interruppero. Furono riprese e concluse nel 1648. Tuttavia i Graneri pretesero, oltre al pagamento in denaro, la cessione annuale, da allora in poi, di un ingente quantitativo di formaggio (condizione che non si era registrata, invece, all’acquisto della Gura). La popolazione di Forno rimase sempre attaccata a tale proprietà, a cui non rinunciò mai (mentre fu ceduta, ad esempio, la Gura a privati). Quando fu costruita la strada provinciale, il Comune si sobbarcò forti oneri finanziari per più di trent’anni, pur di non alienare la Valle di Sea.
Nel 1694 i pascoli risultano affittati a margari di Forno, che radunavano gli animali dei “particolari” per condurli all’alpeggio. Tuttavia già nel 1713 figura come affittuaria gente della pianura. In epoche più lontane le comunità montane avevano vietato al bestiame “lombardo”, cioè straniero, il pascolo sul proprio territorio, per tutelare i valligiani, ma ormai i tempi erano cambiati e le mandrie esterne, che pagavano una specifica tassa, rendevano di più. La valle ed il Colle di Sea rappresentavano inoltre una rilevante risorsa strategica, in quanto erano una frequentata via di comunicazione con la Savoia, da cui provenivano, ad esempio, bestiame e sale. Inoltre il contrabbando non era mai mancato, vista anche la possibilità di percorrere vie impervie, ma alternative. Nei periodi di pestilenze Forno garantiva alla valle ed alle autorità, nei periodi annuali di maggior rischio, la presenza di sentinelle sui due colli principali, Sea e Girard. Nonostante questo c’era chi tentava di stornare i controlli. Dopo l’ennesima alluvione, nel 1789, si verificarono un periodo di siccità ed un’epidemia bovina, che rese necessaria una maggiore sorveglianza. Nel 1796, mentre era in atto la guerra con la Francia, il cappellano di Forno ed un sottotenente della milizia organizzarono nascostamente un vantaggioso contrabbando con la Savoia. In piena epidemia arrivarono ad importare pelli bovine fresche. Per sfuggire i controlli aprirono addirittura un nuovo passaggio dal secondario Colle Piatou (vicino a quello di Sea). Poiché ne avrebbero potuto fruire anche i soldati francesi, in seguito ad un’ispezione delle autorità locali, il tracciato fu distrutto. Il pascolo transumante, in Sea, durò fino agli anni ’70 del secolo scorso, ma via via meno praticato, tanto che i margari (provenienti dalla pianura) si ridussero ad uno. Nel secondo dopoguerra il Governo, non ancora sottomesso al sogno industriale, fece restaurare le baite fino al Gias Nuovo (come avvenne anche a quelle dei pascoli di Baudron). Era un progetto ammirevole, ma purtroppo anacronistico, poiché la transumanza era al tramonto. L’intervento edilizio iniziò fin dall’alpeggio più basso, le Casette (m 1350, proprio ai piedi del canalone di Mombran), che sono però di proprietà privata. Qui il bestiame, vista l’esiguità del territorio disponibile, sostava solo pochissimi giorni, tanto per far riposare gli animali dalle fatiche del trasferimento, prima di ripartire per l’alpe Sea. In mancanza di sorgenti o corsi d’acqua, questa veniva convogliata, prelevandola parecchio a monte, dal torrente. Oggi una fitta ricrescita degli alberi e gli scavi per la pista dell’acquedotto si sono mangiati una cospicua parte dei prati, che sono utilizzati solo saltuariamente. Tuttavia i proprietari, di recente, hanno lodevolmente provveduto ad un restauro degli edifici.
Al puro e semplice abbandono si è poi aggiunto il vergognoso vandalismo umano. Alle due estremità della lunga stalla di Balma Massiet era stato predisposto un soppalco interamente foderato di legno, che offriva un buon ricovero. Ebbene le assi sono state quasi tutte schiodate, probabilmente per bruciarle. Il muretto di grosse pietre che fungeva da parapetto è stato, per puro vandalismo, in gran parte abbattuto. Ci si chiede allora, con scoramento, se valga la pena costruire qualcosa in questo paese. Il territorio di Sea (m 1785), a quanto mi risulta, costituiva invece un signor alpeggio, dove “l’erba si presenta rigogliosa e la cotenna erbosa in buono stato di conservazione”. Gli animali sostavano 25-30 giorni. Ancora “Economia rurale” testimonia che, nel 1909, ospitava trentatrè vacche, quattro vitelli, un toro, un mulo ed un centinaio di pecore, tenute all’aperto. Gli edifici sorgono in posizione rilevata sul contiguo torrente, sotto una grande rupe. Da una valletta laterale, alle baite giunge un copioso ruscello sorgivo. Anche qui, come a Balma Massiet, il nucleo principale è costituito dalla ciavanna e da una lunga stalla a doppia corsia. Di lato si scorgono “crote” e “veilin” per la conservazione delle tome e del latte. Giungendo a Sea non può sfuggire un particolare: il “ciuté”, cioè il deposito dei liquami con cui si concimava il pascolo (la “veilera”) a fine stagione, sorge proprio a ridosso del torrente, tanto da parere inutile. Ebbene io ricordo che, quando l’alpe era ancora utilizzata come si deve, al ponte era affiancato un rudimentale canaletto di legno in cui, appunto, confluiva il concime che, sull’altra sponda, era convogliato ai prati da una piccola “roia”. Anche questo umile elemento costituisce la testimonianza di una cultura, la dimostrazione di come i montanari sapessero ingegnarsi per sfruttare al meglio le proprie risorse. Oltre la rupe di Sea si estende la vasta piana del Gias Nuovo (m 1888), le cui baite, a loro volta ricostruite nel dopoguerra (due a doppia corsia), sono addossate alla montagna, in prossimità di un ruscello e di una modesta sorgente. Sono visibili qua e là i resti dei canali di irrigazione. “Economia rurale” scrive che l’alpe ospitava trenta vacche lattifere, cinque asciutte, quattro-cinque vitelli, un toro, un mulo e 150 pecore, custodite di notte in un recinto all’aperto. La metà del bestiame era del margaro, l’altra in affitto, e sostava in quell’alpeggio oltre un mese, dal 25 giugno a tutto luglio. La rivista si sofferma a lungo a parlare del Gias Nuovo, vantandone i pregi, come “la buona cotenna erbosa”, “la buona esposizione dei pascoli a mezzogiorno, il dolce declivio della falda e le poche accidentalità del terreno”. La produzione era di 8-10 chili al giorno di burro e da 16 a 20 di toma. Oggi, purtroppo, l’autore non scriverebbe più così, perché la zona è stata duramente colpita dalle alluvioni e vaste aree sono state coperte di detriti. Ricordo ancora che, quand’ero ragazzo, in un punto critico era stato realizzato un argine di pietre a secco, che oggi non esiste più. Il pascolo, comunque, è ancora utilizzato, da qualche anno, per bovine asciutte, lasciate “a ragiu”. Di recente nella piana è stato costruito un piccolo bivacco, che può fungere da base per i semplici escursionisti. L’ultima stazione per chi soggiornava al Gias Nuovo era Lavassè, che con la sua notevole altitudine (m 2276) è uno dei più elevati alpeggi di Forno. Secondo gli specialisti il nome risalirebbe a “Lavassètum”, indicando una distesa di lapazio o rumex acetosa, una pianta nitrofila tipica degli alpeggi. Vi sono due stalle, la “ciavanna” ed il “veilin”, tutte costruite in pietra a secco e volta a sesto acuto (data la mancanza di legname a quelle altitudini). Gli edifici rappresentano uno splendido esempio di architettura alpina e meritano sicuramente una visita, così come i luoghi stessi, così intatti. Ai piedi del pendio finale si estende un piccolo ripiano prativo stupendo, mentre le zone soprastanti si fanno via via più rocciose. Non mancano i ruscelli, che in passato consentirono lo scioglimento e l’immissione sui prati del liquame. La sosta era un tempo limitata ad una ventina di giorni. Il margaro di Sea, attraversata la piana del Gias Nuovo, saliva invece a Piatou (m 2189). La mandria doveva affrontare un percorso lungo, erto e difficoltoso, ivi comprendendo il passo di Napoleone. Tuttavia restava in tale sede fra i 30 ed i 40 giorni, sfruttando le vaste praterie circostanti. L’acqua, proveniente dal Pian di’ Giavanot, è abbondante. Le baite erano state costruite con lo stesso materiale e la stessa tecnica di Lavassè, ma purtroppo sono in gran parte crollate. Tuttavia quelle che si vedono ora devono essere relativamente recenti: un disegno del 1800, gentilmente mostratomi dall’amico Guido Girardi, mostra una conformazione dell’alpeggio del tutto diversa dall’attuale. Mi raccontava un anziano montanaro che il progetto governativo del dopoguerra prevedeva anche il restauro di Piatou: quell’anno non si fece in tempo a provvedere e successivamente non se ne concluse più nulla. Naturalmente anche questo alpeggio, come Lavassè, oggi merita una visita per apprezzare la bellezza dei luoghi e dei manufatti, come un bel tratto di passaggio lastricato. A poca distanza dalle baite, su un ripiano, si trovano i resti del Rifugio Rey. Costruito nel 1927, fu trovato distrutto nel 1933. Le tracce di incendio (avanzi di pali ed assi bruciate) fecero pensare ad un atto doloso, rimasto però senza spiegazioni né colpevoli. Ringrazio il Prof. Rivoira ed i signori Maria Teresa Serra, Piero Tetti e Guido Girardi per le informazioni gentilmente fornitemi. |