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Valle di Sea, così selvaggia, così dolce

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22 Novembre 2017
La cima innevata della Leitosa. All'etrema sin. il Bec d'la Capletta
La cima innevata della Leitosa. All'etrema sin. il Bec d'la Capletta

Una delle ultime wilderness della Valgrande in Piemonte


Forno Alpi Graie è l’ultimo paese, ormai quasi disabitato, della Val Grande di Lanzo in Piemonte. Superata la rupe che domina le case, si apre la vasta conca dei Gabi, chiusa quasi verticalmente dai massicci della Levanna e del Martelot.  A sinistra del villaggio, invece, si estende  un lungo e sinuoso solco glaciale, che prosegue fino allo spartiacque con la Francia: è il vallone di Sea, una delle ultime aree wilderness del territorio lanzese.  Le due dorsali che lo delimitano incombono sul fondovalle con alte e severe pareti rocciose,  divenute oggi il paradiso degli scalatori.

A chi ama i panorami bucolici  il paesaggio, fin dall’avvio, non si rivela gradevole, anzi può incutere timore, con i suoi dirupi e le  colate di massi grigiastri.  Anche in estate la valle riceve il sole piuttosto tardi e  la sua ombra scura emana un senso di gelo.   E’ un posto che non a tutti piace.  Tuttavia chi preferisce la montagna “cruda”, selvaggia, vi trova l’ambiente ideale e scopre mille prospettive  da ammirare.  Al sole del pomeriggio il torrente impetuoso scintilla, le grigie pareti si indorano, mutando colore, e si spogliano del loro aspetto opprimente. Allora è il momento di sedersi su un tiepido masso, osservare i giochi di luce sui picchi e spuntoni che si affacciano dall’alto,  seguire il lento avanzare delle ombre sui pendii.


Impariamo a conoscerla

Sul significato del nome “Sea”, piuttosto diffuso sulle Alpi, esistono diverse ipotesi; la più ragionevole mi sembra quella che identifica il termine con “cresta ghiacciata”.  La nostra valle si sviluppa per una decina di chilometri, dal Colle omonimo alla piana di Forno, con andamento curvilineo.  Così l’escursionista, risalendola, non ne ha la visione d’insieme, ma  scopre i luoghi a poco a poco, con prospettive  sempre diverse, sino alla conca del Gias Nuovo, da cui  si intravede la testata.  Fin lì il sentiero, spesso disagevole, poiché attraversa quasi di continuo colate di pietre e massi,  sale con pendenze moderate, intervallate da brevi rampe.  Invece, nella seconda parte dell’itinerario, i pendii si impennano, diventando ardui e faticosi.

L'alpe Sea
L'alpe Sea

Il vallone di Sea  è delimitato, ai lati, da due dorsali montuose. Sulla destra orografica si estendono i rilievi che partono dalla Ciamarella (la vetta più alta delle Alpi di Lanzo) e procedono con l’Albaron, la cima della Rossa, l’Uja di Mondrone (tutte costituite da serpentiniti o prasiniti) ed il massiccio della Leitosa, in cui dominano gli gneiss, come anche nel versante sinistro; questo si dispiega dalla Punta Bonneval  alle cime Piatou e Monfret, all’Uja di Mombran ed al Bec Ciarel,  incombente su Forno.  Le due dorsali calano a picco sul fondovalle con alte pareti rocciose (interrotte qua e là da cenge cespugliate). Dalla loro base partono lunghe colate di  massi,  derivanti da frane antiche e recenti,  in parte ancora a nudo, in parte coperte da una cote erbosa, su cui, con la cessazione del pascolo, sono ricresciute alcune specie arboree, come aceri, sorbi, betulle, maggiociondoli.  Nei tratti più erti e sassosi dominano le “drose”  ed i rododendri, che a giugno offrono uno spettacolo stupendo, rosseggiando a chiazze o in vaste distese.

Ancora ai primi del ‘900 il paesaggio era diverso.   Su un numero del 1909 della rivista “Economia Rurale” si legge: “La valle di Sea si volge poscia in mezzo a montagne brulle,  senza ombra di boschi, con pochi cespugli”.  Sembra accertato che tale situazione degradata dipendesse dal disboscamento legato all’attività mineraria, benché, già in antico, la vegetazione arborea non abbondasse né  superasse di molto la conca di Balmamassiet.  Nonostante la recente ricrescita di alberi, il vallone conserva il suo aspetto aspro, che in qualcuno può suscitare un senso di oppressione, anche tra la  gente del posto.   Ad esempio lo zio di mia moglie, Mini Girardi,  diceva di preferire a Sea i pendii della Gura e del Columbin, giudicandoli più aperti e “domestici”.  Tuttavia me lo ricordo ancora, nelle sere d’estate, appoggiato al muretto dell’aia,  intento ad osservare il massiccio della Leitosa con i suoi stupendi chiaroscuri tra picchi e valloni, dove la luce si ritirava a poco a poco.  Fu lui ad insegnarmi a distinguere, quando ormai ogni cresta era in ombra, l’emergere della punta dell’Uja di Mondrone ancora indorata dal sole.

Sea era invece il paradiso di suo fratello Clemente, il leggendario “Mentu”, che ne conosceva ogni segreto e che, armato di falcetto, ne puliva talvolta i tratti di sentiero ostruiti dalle ramaglie.  Ancora ad ottantadue anni, partendo come al solito di notte e tornando a metà pomeriggio,  era salito fino al Colle (che chiamava “Ghicet”).  Una sua passione era raccogliere un po’ di genepy, come d’altronde facevano tanti altri valligiani.  Ancora adesso, se ne incontri uno lungo il sentiero e ti dice di essere andato “a fè na gira”, puoi star certo che sia salito in altura, dove il territorio è più intatto, a cercare le preziose piantine.

Tratto del torrente presso l'alpe Sea
Tratto del torrente presso l'alpe Sea

Proprio per la sua wilderness, per l’ambiente che offre ripari e cenge sicure, Sea è la valle degli stambecchi. A primavera li si incontra in branchi numerosi di adulti e giovani, intenti a brucare in bassa valle.  Solo in seguito compaiono a gruppetti le femmine con i loro cuccioli.  E’ suggestivo scoprirli nella piana di Balmamassiet, magari immobili su di uno dei caratteristici roccioni, intenti a ruminare ed a guardarsi d’attorno.  In autunno la discesa varia secondo il clima.  Un anno mi è capitato di vederne un folto gruppo  ad ottobre, nell’inverso del Gias Nuovo, dove l’erba si conserva meglio.


Esploriamo il territorio

La valle di Sea si sviluppa con un’alternanza di ampi bacini e di strozzature, che segnano gli spazi occupati  dai ghiacciai.  E’ angusta dal suo imbocco, dove il celebre Santuario sembra vegliare come una sentinella, fino al sassoso Pian Tendǜ, oltre il quale la montagna è incisa da una suggestiva forra, in cui rumoreggia il torrente.  Superata una breve rampa, lo scenario si apre sulla modesta ed accidentata piana di Balmamassiet, dove le baite lontane si distinguono appena tra i “roc”.  Qui, già in passato, l’erba era poca (come alle sottostanti Casette), per cui il bestiame vi si fermava pochi giorni, per riposarsi del lungo cammino dalla pianura ed acclimatarsi.  Un tempo erano sfruttati per il pascolo anche i circostanti pendii, magri e sassosi, dove ora ricrescono alberi e cespugli.  I terreni in piano, disseminati di sassi, vedono di anno in anno diminuire la copertura erbosa, soffocata dalla crescita di sterpaglie.  La conca che ospita l’alpeggio è cosparsa di enormi massi, che hanno un aspetto minaccioso e formano grotte ed anfratti.  Il luogo incuteva paura agli antichi valligiani, che vi scorgevano qualcosa di diabolico.  Infatti il nome originario era “Balma Maschett”:  “balma”  riferito a caverne e ripari sotto roccia,  “maschett” alle masche.

Dopo questo alpeggio la valle torna a restringersi, tra pareti rocciose e colate di pietroni, a giugno ravvivati  dai rododendri;  quindi sbocca nell’ampia conca dell’alpe Sea, dominata dalla Rossa e dall’Uja di Mondrone.  Le baite sorgono, quasi schiacciate, sotto un’imponente rupe, che determina un’altra spettacolare forra, dove spumeggia il torrente.  I pendii erano ricchi di foraggio e di fiori, tanto che i bovini vi sostavano circa un mese (“l’erba vi cresce rigogliosa” scriveva “Economia Rurale” nel 1909), ma oggi sono in pieno degrado, invasi da cespugli e sterpi.  Sono sempre più rari, qua e là, i cespi di botton d’oro e le aquilegie sembrano sparite.  E’ una vista che mi dà molta tristezza: meglio volgere lo sguardo in alto, verso le cime.  Eppure i montanari di un tempo avevano cura delle loro risorse.  Chi transita presso le baite, proprio in riva al torrente, vede un “ciuté” (vasca del liquame) e si chiede a che cosa servisse, messo lì.  Ebbene, io ricordo ancora gli anni in cui al ponticello (tante volte spazzato via dalle  piene) era attaccato un canalino fatto di assi, che convogliava il concime nei vasti prati al di là del torrente.

Dal Gias Nuovo, prospettiva su Leitosa e Uja di Mondrone
Dal Gias Nuovo, prospettiva su Leitosa e Uja di Mondrone

Oltrepassata la strettoia, la valle si apre di nuovo nell’immensa conca del Gias Nuovo (sicuramente un antico lago), sulla quale incombe la mole dell’Albaron, con i suoi vertiginosi dirupi.  Vista dalla piana, sembra una cima a sé stante, mentre non è che una cresta collegata alla Ciamarella.  Sul suo fianco si vedono  pareti a strapiombo, intervallate qua e là  da verdi cenge in pendio, dove crescono le stelle alpine.  Quei praticelli erano il paradiso di zio Mentu, che vi trovava la gioia dei luoghi irraggiungibili  e se ne serviva come inconsueta  ed ardita via di accesso al Colle Sea.  Anche i pascoli del Gias Nuovo erano un tempo rigogliosi, tali da ospitare per oltre un mese una trentina di lattifere, oltre a manze, vitelli, muli e circa 150 pecore.  Per questo era assai ricercata.

Ai piedi della catena che va dall’Albaron all’Uja di Mondrone, cioè nell’inverso, prevalgono le colate di detriti, mentre resta poco spazio per il pascolo.  Tuttavia si è conservata abbastanza intatta una striscia che  sale fino all’ultima “gorgia”: qui, ad estate avanzata, quando tutto avvizzisce, si scorgono ancora fioriture variopinte, tra cui risaltano le spighe blu-violette del delfinio.  Tanto i bovini quanto i branchi di stambecchi si spingono fin lì per brucare tranquillamente.  Invece sul versante opposto,  all’adret,  i pendii non sono impervi, anche se ripidi, ed offrono pascoli abbondanti, ma a tratti sassosi, fino alla stupenda alpe di Lavassè, tutta di pietra a secco, con copertura a volta.

Il sentiero principale  va ad affrontare il gradone che, frontalmente, sembra chiudere il solco vallivo e ne cela invece il prolungarsi  fino al Colle.  Superato il passaggio che domina la forra, si incontrano i vasti pascoli dell’alpe Piatou, ormai diruta.  Qui le mandrie soggiornavano fino a quaranta giorni.  Ricordo che zio Mini si rammaricava del fatto che, dopo l’ultima guerra, avessero restaurato quasi inutilmente le baite di Balmamassiet, dove l’erba scarseggiava, anziché quelle di Piatou.   Finalmente, dopo l’ultima strozzatura,   occupata un tempo dal ghiacciaio,  si accede alla conca  sotto il Colle di Sea, che immette in Francia.  Un tempo essa era rivestita da una copertura ghiacciata, non ripidissima su entrambi i versanti, che consentiva perfino il passaggio di mandrie e greggi dalla Savoia al Piemonte.  Allorché non fu più possibile servirsi di questa via diretta, si fece ricorso, un po’ più in alto, al meglio  accessibile passo di Piatou.  Da questi valichi transitarono per secoli anche i traffici clandestini delle merci più svariate, in primo luogo il sale.

Adenostyles leucophylla nell'inverso del Gias Nuovo
Adenostyles leucophylla nell'inverso del Gias Nuovo

Molto al di sopra della grande piana di Sea, nella destra orografica, rispettivamente sotto l’Uja di Mondrone e presso la cima della Rossa,  si trovano due valichi che in passato  furono importanti per le comunicazioni con la contigua Val d’Ala: il Passo dell’Ometto ed il Ghicet di Sea.  Luoghi di wilderness stupenda, sentieri arditi, che richiedono però una trattazione apposita.  Lo stesso vale per l’aspro vallone di Mombran, che si eleva nella sinistra orografica all’imbocco della Val di Sea, e per gli alpeggi di Leitosa, posti su di un ampio terrazzo sotto la cima omonima.


Qualche cenno storico

I pascoli di Sea  furono praticati fin dal Medioevo.  I documenti li citano  almeno dal ‘300.  E’ probabile che il loro utilizzo sistematico, incentivato dai monaci, sia iniziato con l’incremento demografico verificatosi intorno al Mille,  che spinse a colonizzare stabilmente i territori.  Alcuni studiosi hanno anche ipotizzato che le valli alpine abbiano prima dato riparo a popolazioni sfuggite alle invasioni barbariche.  La ripresa economica favorì  le ricerche minerarie, tanto è vero che Forno sorse proprio come centro di raccolta e lavorazione del ferro.  Nell’attività estrattiva fu coinvolta pure la Val di Sea, dotata di alcuni giacimenti.  Oggi si ricordano due carbonaie, una sotto le Casette, l’altra presso Balmamassiet.

Tuttavia lo sfruttamento dei pascoli di Sea fu praticato in tempi assai più remoti, se non addirittura preistorici.  Nella piana di Balmamassiet gli impressionanti massi staccatisi dalla montagna hanno formato balme, ripari sotto roccia, anfratti, che potevano offrire rifugio a pastori ed animali.  Presso uno di questi ricoveri (subito dopo il Pian di’ Charbouneri, dove già si trova un’ampia balma) si notano i resti di un recinto pastorale, in parte diruto, ma ancora ben delineato.  Un insediamento analogo è visibile al di là del torrente.  Si tratta di reperti che meriterebbero l’esame di studiosi, se non altro per stabilire una datazione.

Anche più in basso, oltre il corso d’acqua (a Pian Tendǜ), è visibile una grande balma, che certo fu utilizzata dagli antichi pastori.  Oggi questo ripiano sassoso è tagliato fuori dal sentiero, ma, fino all’inizio degli anni ’70, non era così.  Dove termina la pista dell’acquedotto, il solco torrentizio era assai più stretto ed il tracciato lo  varcava su un ponticello, per poi riattraversarlo  a monte, sotto lo “sc-iàleri” (rampa) per Balmamassiet.  Poiché le piene travolgevano spesso le due fragili strutture di legno, si scelse un percorso interamente nella sinistra orografica, dove però sussisteva il problema di una parete a picco sul greto.   Due montanari di Forno e Groscavallo,  “Mentu” Girardi e Pietro Garbolino, fecero saltare la roccia e realizzarono abilmente un ampio passaggio.  Sulla cengia avevano collocato con fatica anche dei grossi massi squadrati come parapetto.  Tuttavia i soliti ignoti, per vandalismo o per dispetto, li fecero poi precipitare giù dal dirupo: uno dei tanti segni di inciviltà del nostro paese.

L'alpe Lavassè
L'alpe Lavassè

Già nel IX-X secolo le Valli di Lanzo dipendevano dal vescovo di Torino, il quale poi le infeudò all’Abbazia di Pulcherada (San Mauro).  E’ possibile che siano stati proprio i monaci, come accadde un po’ in tutte le Alpi, a promuovere lo sviluppo della pastorizia in Val Grande, e perciò anche in Sea.  Nella seconda metà del ‘500 il Lanzese tornò sotto i Savoia che, quindi,  dopo una serie di passaggi dotali ed ereditari, ne infeudarono un Este (Sigismondo III) con il titolo di Marchese.  Anche i nobili, né più né meno dei monaci, volevano far fruttare le loro terre.  Sappiamo che nel 1516 metà della Valle di Sea fu ceduta alla famiglia degli Arcour, l’altra ai Graneri di Lanzo, ricchi borghesi che operavano nel ramo minerario e metallurgico, i quali poi ne assunsero l’amministrazione in toto.  Essi, quando nel 1602 i Savoia  salirono a Lanzo per la caccia all’orso, furono orgogliosi di offrire dei formaggi di Sea, che avevano fama di qualità.

Nel 1628 i Graneri vennero a contrasto con la Comunità di Forno, che decise infine di comprare l’alpe di Sea, tenendola per sempre  in proprietà.  Raccontava zio Mentu che, quando nel 1800 fu costruita la strada carrabile, il Comune (il quale, invece, aveva ceduto la Gura a privati), piuttosto di cederla  si adattò a versare imposte per più di trent’anni.  Nel 1694 l’alpe fu affittata per quattro anni a margari del posto.  Ai “particolari” era consentito condurre il bestiame nel modesto tratto fra la Gorgia di Mombran  e gli Sc-iàleri di Balmamassiet.  Tuttavia, già nel 1713, i nuovi affittuari venivano  dalla pianura.  In epoche più antiche le Comunità vietavano al bestiame “lombardo” (cioè straniero) il pascolo nel proprio territorio, ma ormai i tempi erano cambiati e le mandrie “esterne”, pagando un’apposita tassa, rendevano di più.

Nel 1789 si verificò una grave alluvione, seguita da un periodo di siccità e da un’epidemia bovina.  Si cercò  di fermare ad ogni costo il contagio, predisponendo dei posti di blocco.  Tuttavia, nel 1796,  quando era in atto da tempo la guerra con la Francia,  si scoprì che il cappellano di Forno (Don Vallino) ed un sottotenente della Milizia di Richiardi (Felice Rapelli) avevano organizzato un lucroso contrabbando con la Savoia lungo la Valle di Sea.  Addirittura, in piena epidemia, avevano importato pelli bovine fresche. Per passare più liberamente, fu aperto un nuovo sentiero dal secondario Colle Piatou.  Poiché ne avrebbero potuto fruire anche i soldati francesi, dopo un’ispezione dei sindaci interessati, il tracciato fu distrutto.

Il laghetto di Mombran. Al centro Ciamarella ed Albaron
Il laghetto di Mombran. Al centro Ciamarella ed Albaron

Il pascolo transumante, in Sea, durò fino agli anni ’70 del secolo scorso.  Nel secondo dopoguerra il Governo, non ancora asservito al sogno industriale,  fece restaurare le baite fino al Gias Nuovo.  Era un progetto lodevole, ma anacronistico, poiché l’attività d’alpeggio era al tramonto. Nella ricostruzione, alle due estremità delle lunghe stalle di Balmamassiet e di Sea, era stato predisposto saggiamente un soppalco foderato di legno per il riposo dei pastori.  Ebbene, soprattutto cacciatori e peudo-turisti schiodarono le assi e le bruciarono.  Il muretto sovrastante l’ingresso della stalla fu abbattuto per puro vandalismo.  L’abbandono dei pascoli fece il resto. Un altro  esempio dell’inciviltà che regna nel nostro paese.


L’itinerario

Da Forno, giunti al termine della strada, si svolta a sinistra in una strettoia, si attraversa il ponte sulla Stura e si prosegue sulla sterrata fino ad un bivio, dove si parcheggia (m 1250 circa).  Si imbocca la ripida ed accidentata pista di destra e la si risale, passando sotto le Casette (m 1290), fino al  Pian di’ Rovas,  ormai cancellato dagli sbancamenti.  Attraversando il torrente, ci si dirigerebbe  verso le palestre di roccia  lungo il sassoso ripiano (Pian Tendǜ), dove si trovano la balma citata e le captazioni della sorgente che alimenta l’acquedotto.  Procedendo invece sulla destra, si imbocca il sentiero segnalato.

Si percorre il tratto aperto nella roccia negli anni ’70 (il Passet) e si scende ad una piccola cava di lose, dove restano i muri della casetta degli operai (nei pressi c’è una sorgente).  In breve si va ad affrontare la breve rampa (Sc-iàleri) che, in cima, si apre sulla conca di Balmamassiet.  Camminando in falsopiano, si superano il Pian di’ Charbouneri, una grande balma e l’antico sito pastorale.  Non ci sono fonti permanenti e, per il bestiame, si attingeva dal torrente. Da un dirupo scende la cascatella del Rian dou Sautet.  Su entrambe le sponde si nota come i pascoli siano ormai degradati, invasi dagli sterpi; sui pendii erbosi, un tempo utilizzati, abbondano i cespugli.  Finalmente, attraversato il ponticello, si giunge alle baite (m 1500), che, per l’erosione, sono ormai quasi sull’orlo dell’impetuoso corso d’acqua.

Da Balmamassiet il sentiero sale in progressione, con rari tratti ripidi,  nell’umido versante dell’ “invers”, i cui pendii, coperti da colate di massi, in stagione si colorano di stupende distese di rododendri.  Sono una delle bellezze della valle. Si supera un tratto sconvolto da una recente frana (l’Arvina Bienci), nei cui pressi, però, si prova il piacere di rigogliose fioriture di aconito.   Al culmine della salita, in un tratto scalinato sulla pietraia, si apre la vista della  piana di Sea,  con i suoi pascoli  invasi dalle “drose”  ed ormai rari cespi di botton d’oro.  Si risale la valle con modeste pendenze fino al ponte sul torrente (tante volte ripristinato), poco prima del quale c’è una freschissima sorgente.  Per la gente di Forno era la miglior acqua del mondo.

Stambecco a Pian di' Giavanot
Stambecco a Pian di' Giavanot

Il transito presso le baite di Sea ( m 1785), abbarbicate sotto la rupe, è difficoltoso, poiché il luogo è invaso da altissime ortiche.  Il sentiero entra in una valletta appartata, diventando ripido e disagevole (sulla destra, oltre il rio, una serie di pianorini), e la risale riattraversando poi il piccolo corso d’acqua.  Si supera ancora un dosso prativo e ci si trova di fronte l’immensa conca glaciale del Gias Nuovo, su cui incombe la mole dell’Albaron (m 3262), con una parete di quasi mille metri.  Poco prima delle baite (m 1888), presso una sorgente, si diparte il sentiero per l’alpe di Lavassè (m 2349), che comporta almeno un’ora e mezza di ripido pendio, ma immette in una delle zone più belle della valle, in un grande silenzio.  Da tali baite, su una traccia con vecchi bolli rossi, si può andare alla scoperta dell’unico passaggio utile per scavalcare la dorsale e scendere su Gias Piatou.

Si attraversa per intero la piana del Gias Nuovo,  sempre più sassosa per le frequenti alluvioni, e si affronta un’erta rampa a tornanti  Di qui in avanti si fa sul serio. Il tracciato attraversa un ruscello e supera uno dei punti più noti della valle, la suggestiva trincea fra le rocce del “Passo di Napoleone”.  Più oltre si percorre un tratto di sentiero realizzato artificialmente, a picco sul torrente che rumoreggia in basso.  Anni fa un tratto era franato, ma lo si riparò collocando due putrelle di acciaio coperte di lose.  Successivamente si risale l’erto pendio per Gias Piatou (m 2193), i cui edifici di pietra a secco sono in gran parte in rovina.  Volendo, se ne segue “al libero” il corso del ruscello e si arriva, in breve, ad uno stupendo terrazzo con un laghetto: è il bucolico Pian di’ Giavanot (m 2290).  Deviando e dirigendosi verso Piatou, sulla destra, si imbocca la traccia, qua e là segnalata, che con un lungo cammino conduce al Colle delle Lose (m 2866), da cui si scende sulla Gura.  E’ un passaggio piuttosto aereo, adatto  a  chi ha una certa esperienza di roccia.

Il percorso per il Colle delle Lose ad un certo punto  entra in un valloncello.  Abbandoniamo la traccia segnalata, attraversiamo a destra il ruscello e ci dirigiamo verso un esteso prato in pendio.  Lo risaliamo e svoltiamo a destra, procedendo su un’ampia e lunghissima cengia (visibile dal basso) sospesa sul dirupo.  Al termine c’è una pietraia: procediamo a mezza costa, senza perdere quota,  e in pochi metri ci troviamo di fronte ad un’autentica perla: il laghetto di Mombran (m 2630), nelle cui acque cristalline si specchia la Ciamarella.

DaI pressi di Piatou il tracciato principale risale una serie di erbosi dossi morenici  fino al Bivacco Soardi Fassero (m 2297), edificato nel 1957 e ricostruito nel 1993 con notevoli miglioramenti.  Nel 1927, presso Gias Piatou, era stato eretto il rifugio Rey, che andò  distrutto nel 1936.  Il Bivacco  è la base ideale per chi vuole sostare e riprendere il giorno dopo l’ascesa alla parte più alta della valle o alle punte circostanti.

Dal Soardi si scende su traccia nel vallone e si compie poi un tratto detritico a mezza costa, per risalire ad  uno stretto canale morenico, racchiuso tra pareti rocciose.  Fin qui arrivava, ancora nel ’70, il soprastante ghiacciaio ormai ritiratosi.  La salita è disagevole e sbocca nell’ampia conca glaciale ai piedi dei seracchi della Tonini, sotto la parte nord della Ciamarella. Siamo in vista del Colle di Sea.   Quella che un tempo era un’uniforme distesa di ghiaccio fino al valico oggi è diventata un percorso tra gli sfasciumi.  Dal Colle Sea (m 3100), posto tra la punta omonima (m 3217) e la Tonini (m 3324), il panorama verso la Francia è grandioso e compensa d’ogni  fatica.


Ringrazio Maria Teresa Serra e Marco Blatto per le informazioni gentilmente fornitemi.


L'articolo è comparso a suo tempo sulla rivista "Panorami", di cui si ringraziano Direttore e Redazione per la gentile concessione.

 

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