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New York Stories |
20 Luglio 2017 | |||||||||||||||||
Racconti di luoghi e di protagonisti. Nuove mete nella capitale del mondo: la High Line per passeggiare tra i grattacieli, il Whitney firmato Renzo Piano, la Freedom Tower dove salire verso il cielo. Ma anche le storie di torinesi che hanno conquistato Nyc attraverso l’eccellenza
A New York c’è sempre una storia da raccontare, infinite storie da raccontare. Il suo eclettismo verticale, la sua foresta di skyscraper, oggi ha epigoni globali che vanno da Dubai all’estremo Oriente, i record non ci sono più ma l’anima resta inimitabile. Le storie, le infinite storie di Nyc, continuano ad alimentarsi col nuovo che irrompe sulla scena, perché c’è sempre qualcosa che accade, qualcuno che arriva, una rivoluzione urbana dietro l’angolo, economica o artistica, sociale o gastronomica, ineguagliabile approdo metropolitano per i trendsetter di moda, finanza, design, cinema e teatro. Tanta roba, tutto sotto lo stesso cielo. Ma il nuovo ha fatto la storia perché tutto è sempre stato nuovo, a partire dall’architettura. A New York City non ci sono solo i grattacieli, ma anche i primi grattacieli, solo qua possiamo ammirare Empire State e Chrysler, building per antonomasia. Ma ‘sotto di loro’ ci sono il Greenwich e Harlem, il Bronx e Chinatown, Brooklyn e Chelsea, luoghi di cinema e di romanzi, di immigrazione e di cultura che è stata (e sarà sempre) avanguardia permanente, di delitti efferati e di smisurate fortune. Questa è l’America bellezza. Questa è la capitale del mondo. E vale un viaggio, qualche volta ‘il viaggio’. Lo vale anche se è diventata costosissima, anche se le auto di Time Square vanno di clacson come in India, anche se la sua metropolitana è un rebus non sempre decifrabile.
A New York trovano pieno alloggio tutti gli aggettivi, che si possono elencare ma sempre col sapore dell’estremo: selettiva, colta, brutale, abbagliante, ricca, ambiziosa, potente, surreale, frenetica, trasformista, curiosa, veloce, anzi velocissima. Poi, però, se ti collochi indolente nel verde di Central Park, o se passeggi per il West Village e Chelsea, il ritmo cambia; scopri il lato easy di megalopoli, complice quando meno te lo aspetti, prezioso per tirare il fiato, indispensabile per sopravvivere. Come indispensabile per viverci è la sua anima libera e tollerante, tra i ruggiti di Nyc l’espressione individuale trova dimora senza pregiudizi. Detto che ogni viaggio a Manhattan è un’esperienza differente, che gli scenari vanno letti e riletti, perché resi mutevoli dal continuo rinnovamento non meno che dalle stagioni, ci sono tre obiettivi da mettere in agenda: la High Line, la nuova sede del Whitney Museum of American Art e l’area dell’ex World Trade Center, con il One World Trade Center e il National September 11 Memorial & Museum. Chi avesse visitato la zona della High Line prima del 2009, probabilmente non riconoscerebbe nulla di quanto può ammirare oggi (e ammirare è proprio la parola esatta!), godendosi una delle location più suggestive di tutta Manhattan, in assoluto tra le più vivibili ed emozionanti. A partire dagli anni Trenta l’area era dominata da una ferrovia sopraelevata, la West Side Line, successivamente dismessa e lasciata completamente in abbandono. Anche il quartiere circostante non ebbe uno sviluppo felice, con lo scenario dominato dal degrado, dai mattatoi e da frequentazioni poco raccomandabili. La logica avrebbe voluto l’abbattimento della struttura e dei vecchi binari, sarebbe stata la soluzione più semplice, ma intervenne lo spirito visionario newyorkese (in questo caso personificato dalla Friends of the High Line) e la soluzione fu rivoluzionaria. Tra il 2009 e il 2014, una spettacolare passeggiata prese il posto della vecchia ferrovia insediandosi lungo il suo percorso, questo senza rendere necessaria alcuna opera di demolizione. L’apparente svantaggio della High Line, i pilastri in cemento della sopraelevata, non certo belli a vedersi, divenne punto di forza del progetto, con la proposta di un percorso a 9 metri di altezza, maestosamente panoramico. Intorno, il quartiere di Chelsea modificò sempre di più il proprio dna, da area marginale a sede ricercatissima di gallerie d’arte, studi design e ristoranti di tendenza.
Ma definire la High Line una semplice passeggiata è sicuramente riduttivo: lungo gli oltre 2 chilometri di percorso si trovano spazi per sedersi (panchine, sedie sdraio, gradinate…), giardini, opere d’arte, chioschi, punti ristoro ed è garantita una costante animazione, con numerose esibizioni musicali gratuite. In assoluto, il pezzo forte è costituito dal grandioso panorama sui grattacieli, alcuni dei quali nuovissimi (firmati da Jean Nouvel e Frank Gehry), che si possono ammirare in piena serenità e lontano dai clamori del traffico. Ma – visto che New York è pur sempre la capitale del business – l’operazione ha garantito formidabili riscontri economici, con il forte aumento di valore degli edifici di tutta l’area e una dinamica propulsione alle attività edilizie. Il prossimo progetto che verrà realizzato porta la firma dell’archistar Zaha Hadid, recentemente scomparsa, ed è un complesso di 11 piani con un’avveniristica pedana di 232 metri quadrati. Quasi una propagazione della High Line è la nuova sede del Whitney Museum, capolavoro concepito da Renzo Piano e inaugurato nel 2015. L’edificio – suggestivamente asimmetrico – è interamente rivestito in acciaio grigio blu, il contenitore perfetto per una delle maggiori collezioni d’arte moderna americana. L’istituzione – creata da Gertrude Vanderbilt Whitney – ha una storia lunga e affascinante che prende il via nel 1931, quando la fondatrice allestì il museo dopo il rifiuto del Metropolitan Museum of Art di ospitare le sue 500 opere. Probabilmente nella querelle pesò il valore fortemente innovativo della collezione, ritenuto ai tempi inadeguato per una realtà come il Moma. Da allora il Whitney ha sempre mantenuto fede a un impegno prioritario: aiutare i nuovi artisti a emergere, senza limitarsi a valorizzare quelli già affermati. Oggi il patrimonio conta oltre 11mila opere, e, nelle luminose sale della nuova sede, se ne può ammirare una selezione significativamente intitolata ‘Where We Are: Selections from the Whitney’s Collection’. Molti i nomi che hanno fatto la storia, tra cui Edward Hopper, Jasper Johns, Georgia O’Keeffe e Mark Rothko. Fino al 23 ottobre è visitabile la raffinata esposizione ‘Hypermobility’, dedicata ad Alexander Calder. E ora un viaggio nel futuro e nella memoria, nella tristezza e nella meraviglia. 11 settembre 2001, non solo il giorno che tutti ricordiamo, ma il giorno in cui tutti ricordiamo dov’eravamo, che cosa stavamo facendo. 11 settembre 2001, 2974 vittime e il volto di Manhattan stuprato dal crollo delle Torri Gemelle. Cosa fare dopo, come ricostruire, non fu una sfida solo architettonicamente impervia, ma anche emotivamente delicatissima. Una sfida vinta facendo appello alla formidabile capacità di concepire il nuovo che New York possiede nel proprio dna, ma anche grazie a una sensibilità struggente che ha permesso di conciliare orgoglio e rispetto. L’America che mostra i muscoli è il One World Trade Center (confidenzialmente Freedom Tower), il quinto grattacielo più alto al mondo e il primo del mondo occidentale: 541 metri di altezza (compresi i 50 del pennone), 1776 piedi, cifra simbolica perché fa riferimento alla data della dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti. La genesi del progetto – inizialmente concepito da Daniel Libeskind e successivamente trasformato da David M Childs – fu travagliata, ma il risultato toglie il fiato per l’emozione: una meraviglia di 104 piani che si protende aguzza verso il cielo, con le forme nitidissime esaltate dalla superficie a specchio, composta geometricamente da grandi triangoli isosceli.
E poi ci sono i simboli in ricordo delle torri che furono: le terrazze panoramiche sono alla medesima altezza dell’ultimo piano delle Twin Towers, mentre le misure della base sono identiche a quelle dei due edifici. Tra i dati costruttivi più emblematici, i parametri legati alla sicurezza: la Freedom Tower è praticamente indistruttibile, con la base resistente a ogni impatto ed esplosione. La visita è un itinerario verso il futuro, si approda al 102° piano in soli 47 secondi con l’ascensore più veloce al mondo, ma senza avvertire assolutamente la velocità. Nella cabina i pannelli a led sulle pareti raccontano la storia di Manhattan, partendo dall’isola verde e disabitata si arriva alla skyline contemporanea. Sbarcati in cima – nel One World Observatory – il colpo d’occhio spazia sull’intera New York e nessun grattacielo manca all’appello. Unica assente, l’ebbrezza dell’aria sulla pelle, nonostante la limpidezza delle vetrate. Per quel tipo di emozione il ‘grande vecchio’ Empire State non teme ancora confronti. Fin qui l’orgoglio, ma quel lembo di Manhattan non poteva sottrarsi alla dolorosa memoria dell’11 settembre, al commovente ricordo delle vittime dell’attentato. Negli esatti spazi dove sorgevano le Torri Gemelle oggi si trovano le due Memorial Pool, grandi vasche a specchio irrorate da una cascata perenne che scende dai bordi; intorno, incisi, i nomi di coloro che persero la vita. Concepite da Michael Arad e Peter Walker, sono un tributo semplice quanto maestoso. A pochi metri di distanza si scende nel museo. L’elemento più impressionante è la collocazione: a metà strada tra le vasche, l’allestimento è posizionato sotto i due piloni portanti della North Tower, iconici cimeli del devastante attentato. Varcato il padiglione d’ingresso il percorso propone 10300 oggetti che raccontano la giornata fatale; in più video, ricostruzioni accurate, voci e suoni che danno i brividi. A Downtown, in poche centinaia di metri quadrati, New York espone – con perfetta sintesi – audacia di vedute, fierezza e rispetto della propria memoria.
Da Torino alla conquista di Nyc L’idea è di Andrea Visconti, corrispondente da New York per il gruppo L’Espresso – La Repubblica e conduttore, su Radio Capital, del programma domenicale New York Stories. «Perché non proponete storie di torinesi che hanno conquistato posizioni d’eccellenza in città?». Così, grazie alla sua sensibilità di scouting, abbiamo rintracciato case history emblematiche di come la metropoli globale per eccellenza abbia accolto il talento subalpino. Ma, per Andrea Visconti, cosa rappresenta New York? Non esiste un luogo perfetto in assoluto. Però, se parliamo di città, allora New York rappresenta il meglio, è sicuramente prototipo dello stile di vita metropolitano». Come si racconta una città? Bisogna cercare le storie per poi inserirle nel contesto urbano, quello dei quartieri, dei luoghi, delle vicende politiche sociali. Una città va scoperta quotidianamente. Se alla fine una giornata non hai trovato qualcosa di nuovo hai buttato via il tuo tempo. Un piccolo segreto è cambiare strada ogni giorno, senza ripetere mai lo stesso percorso. Così si incontrano sempre nuove situazioni, diverse prospettive, le scoperte più interessanti qualche volta sono dietro l’angolo». E adesso è arrivato il momento di conoscere 4 torinesi che hanno saputo imporsi nello scenario più ambizioso al mondo. Storie lavorative e personali di una New York che ospita 200 nazionalità, ma che non smette di parlare italiano.
Dino Borri Un impero dove non tramonta mai il sole, quello di Eataly, perché mappa prevede Torino e l’Italia, poi l’Oriente, con Tokyo, e – dal 2010 – gli Stati Uniti, prima New York, dopo Chicago e Boston, quest’anno Los Angeles e prossimamente Las Vegas. Proprio a Nyc, nella sede di Flatiron, incontriamo il referente di questa realtà che ha conquistato gli States: Dino Borri, 38 anni, originario di Bra. Qual è la tua storia? Il mio battesimo del fuoco è stato a Tokyo, dove ho seguito startup della nostra prima sede, era il 2008. In Giappone ho preso confidenza con il ruolo, cimentandomi con la grande clientela internazionale. È stato un banco di prova che mi ha permesso di arrivare a New York preparato, quando abbiamo aperto i battenti il 31 agosto 2010». Quanto c’è di torinese nella vostra esperienza americana? Tantissimo. più piemontesi che a Torino. Abbiamo imposto i sapori della nostra terra per gradi, prima con prodotti classici, poi proponendo i gusti più tradizionali. Senza le radici non vinci, ne sono profondamente convinto. E poi il nostro è un modo di lavorare da ‘travajun’, le cose si devono far bene, rapidamente, con un progetto solido e concreto. Tutte cose che funzionano benissimo a Manhattan». Nella tua squadra lavorano altri piemontesi? «Certo, e sono lo zoccolo duro del team. Oltre a me e Nicola Farinetti, ci tengo a ricordare: Noemi Ferro, Margherita Bisoglio, Ilaria Dutto, Katia Delogu, Ginevra Santopietro, Alessandro Fucile, Fabrizio Germano e Raffaele Piarulli». I numeri della sede di Eataly a Flatiron – 5mila metri quadrati e 4 ristoranti – sono impressionanti, con 6 milioni di passaggi durante l’anno… «Siamo un punto di promozione ideale per il nostro paese, con quest’attività facilitiamo sicuramente l’incoming verso l’Italia. Eataly è un modello che andrebbe preso ad esempio, invece, purtroppo, non è così. L’Italia è nota all’estero per il cibo, la moda e l’arredamento, ma non siamo capaci di fare sistema». Come trovi New York? «Questa è una città che gira veloce, dai ritmi frenetici, che non dorme mai. Tutti vogliono venire qui, ma se non ce la fanno se ne devono andare. Per restare devi dimostrare di essere bravo e competitivo. New York è divertente se hai i soldi, non la definirei cara ma sicuramente costosa. Mi affascina il suo melting pot, la mescolanza delle culture. A New York ti senti libero e non giudicato». Qui hai messo su famiglia… Crescere la bimba a New York comporta una responsabilità particolare, devi darle il senso della famiglia e prepararla a un ambiente stimolante ma molto competitivo» .
Anna Irrera 30 anni, torinese, laureata in giurisprudenza, giornalista, Anna inizia con Italia Oggi e approda in Brasile per uno stage con la Reuters; il passo successivo la porta a Londra ed entra in staff al Financial News. Dal 2016 è corrispondente per la Reuters da New York, dove si occupa di fintech (tecnologia finanziaria), praticamente il futuro, il tema più attuale visto dalla capitale del mondo.
Come affronti la tua professione? Non esiste scenario migliore dove operare. Qui si cerca continuamente la notizia vali per il numero di scoop che riesci a conquistare. Negli Stati Uniti il giornalista non fa l’editorialista, non si limita mai al commento, ma si dedica alle inchieste e alla ricerca di vere news». La finanza dettata dalle grandi banche condiziona profondamente le scelte politiche? «Molte volte è un mito. Il potere delle banche spesso è una scusa per i politici e per le loro scelte». Come vivi la tua New York? «Bene, qui sei e qui resti perché ti senti nella capitale del mondo. Io vivo nell’Upper West Side, una posizione strategica per il lavoro e la vita privata. La mentalità newyorkese è molto selettiva, in particolare dal punto di vista economico: più paghi e più hai, questa è l’equazione. Però è anche una città vivibile oltre ogni apparenza; io la trovo meglio di Londra, dove tutto è più lontano ». C’è una cosa che non ti piace? «La distanza da casa è la cosa peggiore, sia per i tempi che per i costi».
Silvia Cerrato McGinley 45 anni, torinese, dopo aver lavorato per Luxottica e Salvatore Ferragamo, oggi Silvia manager nell’azienda di ottica Silhouette segue la linea Atelier. Il suo amore per New York – dove vive dal 1997 – inizia negli anni dell’università, con i primi viaggi e gli studi alla New York University. La prima folgorazione? Grand Central, una stazione bellissima, quando ci arrivi senti al centro del mondo. Poi una passione crescente per l’energia che ti trasmette questa città, un luogo unico dove le cose accadono, dove si creano sempre grandi opportunità».
Come si vive a New York? «Questa è una metropoli stimolante ma anche stancante, c’è sempre una forte pressione, sei tu che devi mettere dei limiti. Sicuramente New York è una città per benestanti, se non hai successo tende a respingerti. Contrariamente a quanto succede in Italia, qui puoi cambiare facilmente, in meglio come in peggio, nulla è mai scontato o definitivo. Lavorativamente, le grandi opportunità sono un forte stimolo, ma, se non sai essere all’altezza, puoi perdere rapidamente quello che hai conquistato. A me piace il ‘fattore tempo’, nello stesso numero di ore riesci a fare più cose che in ogni altro luogo». Quando torni a Torino come ti senti? «Amo molto la mia città d’origine, però ho la sensazione che le persone a Torino facciano sempre le stesse cose. Ogni volta che torno non vedo mai novità. Questo penso sia un limite». Cosa vuol dire crescere dei figli a Manhattan (Silvia è madre di Mafalda, 7 anni, e Maximilian, 13)? «New York è competitiva a partire dall’istruzione. Bisogna fare molta attenzione, seguire i figli nel loro percorso ma anche proteggerli. I costi per una famiglia sono molto elevati e raggiungono il massimo con l’università, dove per completare il ciclo di studi si spendono 250mila euro».
Giulia, 55 anni, torinese, redattrice de Il Manifesto, selezionatrice delle pellicole statunitensi per la Mostra del Cinema di Venezia, autrice di numerose biografie sui maestri del cinema americano – Clint Eastwood, Robert Altman, George A Romero, Robert Aldrich, John Carpenter, William Friedkin… – direttrice del Torino Film Festival dal 2003 al 2006, il suo è un punto di vista prezioso per comprendere l’evoluzione culturale e sociale di Nyc. «Vivo a New York da oltre 20 anni e ho visto questa città nelle sue trasformazioni. Col tempo è diventata sempre più selettiva e condizionata dai valori economici. Negli anni Ottanta – soprattutto nella zona dove vivo, il West Village – c’era una forte comunità intellettuale che poteva affrontare il quotidiano senza budget esasperati. Va detto che questa è sempre stata una città costosa, dove non sono certo mai mancati i generi di lusso; però chi voleva risparmiare ha sempre avuto delle piste parallele e molte opportunità. A poco a poco, e soprattutto negli ultimi anni, le cose sono cambiate e i prezzi si sono alzati in ogni settore, a partire dagli alloggi. Nel mio quartiere – dove abitavano artisti, docenti universitari, scrittori e giornalisti – si sono trasferiti i manager che lavorano nella finanza».
Come giudichi New York? «È una città dove ti trovi molto bene o non ti trovi affatto, un luogo senza mezze misure. A me piace perché puoi vivere molte esperienze, continua a essere tollerante e incontri una grande libertà mentale. A New York sei indipendente ma, quando vuoi, puoi vivere pienamente la gente; sei tu a scegliere». Cosa ti piace di meno? «Questo divario economico, questa trasformazione che privilegia solo chi può spendere».
Foto di Simona Bertolotto e Marco Carulli Guido Barosio, giornalista, fotografo e scrittore, è direttore della rivista Torino Magazine. |