Tradizioni Celtiche |
Passeggiando nel Giardino dell’Eden |
26 Novembre 2013 | ||||||||||||
Meditare passeggiando nel verde scenario della Natura. L’antico giardino druidico per celebrare il perduto Eden. L’importanza della coltivazione come atto creativo che accompagna l’esperienza interiore. Come realizzare un giardino da frutta e bello da vedersi secondo la lezione di Madre Terra
Il giardino come forma di meditazione contemplativa e creativa La Natura non è da intendersi solamente come lo scenario delle grandi foreste, gli estesi prati e l’immenso cielo in cui corrono le nubi e dove si affacciano le stelle. Rappresenta anche la manifestazione dell’esistenza più intima che possiamo ipotizzare, la cui qualità fenomenica antecede il Big bang, l’evento da cui è nato l’universo sensibile che è sorto nel contesto di una dimensione di realtà che trascende i nostri sensi e la nostra immaginazione. Una dimensione trascendente a cui l’antico sciamanesimo druidico diede il nome di Shan per definire in qualche modo l’esperienza globale della Natura che tracimava dall’apparenza sensoriale verso una qualità fenomenica immateriale e invisibile agli individui. Una qualità di esistenza che si rivelava in una essenza di “Vuoto” per via dell’impossibilità di definirla attraverso l’immaginazione e i concetti. Una dimensione globale dell’esistenza che manifestava un Mistero mistico che, secondo l’antico sciamanesimo druidico, era immanente a tutte le cose e dava significato al tutto. Una qualità fenomenica che, sia pure soprannaturale, per il druidismo non era tuttavia irraggiungibile, ma si rendeva accessibile a quanti sentivano il bisogno interiore di rispondere al richiamo del trascendente. L’antico druidismo indicava l’esperienza del “Sah”, ovvero del Silenzio interiore, come la porta di accesso a questa dimensione trascendente che si manifestava all’Io consapevole di ogni individuo mostrando un sentiero di evoluzione spirituale che poteva portarlo ad una precisa conoscenza interiore. L’esistenza è simbolicamente e sostanzialmente “silenzio”. Essa infatti manifesta la sua natura parlando con il linguaggio misterioso del silenzio. Siamo noi che con le nostre attribuzioni sensoriali e concettuali la ricopriamo di “rumore” che, come il dito che indica la Luna, ci distoglie dal sentire la sua voce nascondendola con concetti e valori. Solamente sottraendosi al “rumore” prodotto dai sensi e dalla mente si può realizzare il silenzio che ci consente di ascoltare la voce della Natura. Un silenzio che può porre l’individuo in sintonia con la sua misteriosa essenza e aprirsi alla percezione dello Shan, il piano più intimo e reale della Natura.
Per riuscirci dobbiamo cercare innanzitutto una situazione che contribuisca a inibire il “rumore” di fondo della nostra mente e favorisca questo silenzio. Gli antichi druidi indicavano l’attuazione del “Saah”, la “predisposizione al silenzio interiore”, che favoriva la conquista del Silenzio interiore. L’esperienza che, ad esempio, possiamo vivere quando veniamo a trovarci nella quiete di una cattedrale o di un tempio animista. Luoghi predisposti allo scopo in cui veniamo inevitabilmente rapiti dalla pace che emanano, acquietando spontaneamente la mente piegandola al riflesso dell’infinito di fronte del quale ci si viene a trovare. Ma anche entrando in questa condizione di “Saah”, che ci predispone al silenzio, non è facile realizzare un effettivo Silenzio interiore. Il “Saah” può sembrare di appagarci sul momento, ma in realtà siamo ancora lontani dalla reale esperienza cercata, in quanto ci propone una percezione che è ancora soggettiva, basata sulla gratificazione emozionale. Il Silenzio interiore non è una manifestazione culturale o egotica, ma rappresenta una precisa esperienza in cui il nostro Io consapevole può entrare in sintonia con il Vuoto e fondersi con la sua natura come due diapason posti sulla stessa frequenza. L’esperienza propria dell’Io consapevole non è da confondersi con la consapevolezza emotiva o verbalizzata della mente. Essa rappresenta uno stato di essere che non può definirsi se non nel suo stesso stato di consapevolezza. Gli antichi druidi avevano paragonato questo stato ad un cristallo trasparente senza forma e sostanza, invisibile anche a se stesso, che non può vedersi, ma che può esistere nel suo silente atto di esistenza consapevole. Uno stato di silenzio che spesso non è vissuto poiché rimane coperto dal “rumore” della mente in cui finisce per identificarsi, interpretando il senso dell’esistenza attraverso il pensiero e le emozioni. Per questo motivo per poter giungere all’Io consapevole nella sua vera natura interiore occorre, dopo aver realizzato la condizione contributiva del Saah, tacitare concretamente le pulsioni del corpo e della mente. Ed è per via di questa esigenza che da millenni, per realizzare il Silenzio interiore, l’antico sciamanesimo druidico propone l’esperienza della meditazione con precise e sperimentate tecniche dell’interiore che non nascono dal genio di qualche profeta, ma seguono semplici archetipi spontanei esistenti in natura. Le tecniche della meditazione dapprima portano a realizzare il Saah, nella postura seduta oppure in quella dinamica della Kemò-vad, e quindi attraverso altre varie tecniche ulteriori portano a percorrere un preciso sentiero che si snoda interiormente sino a raggiungere la completezza di una conoscenza propria del segreto della Natura.
Un sentiero simboleggiato dall’archetipo manifestato nel simbolo dell’Yggdrasil, l’albero cosmico della cosmologia druidica che mostra il procedere dell’evoluzione dell’individuo in una e vera propria catarsi alchemica. Il Nah’barsi e la contemplazione creativa La forma più semplice della meditazione che viene proposta dallo sciamanesimo druidico è quella del “Nah’barsi”, che comporta l’immediato rifiuto della produzione mentale sostenendosi sull’attenzione alla propria consapevolezza. Questa tecnica può essere realizzata nella semplicità della contemplazione creativa che si esprime partecipando all’armonia della Natura nell’esperienza del Silenzio interiore. In pratica seguendo il principio dell’ecospiritualità vissuto dai Popoli naturali del pianeta nel dare risposta alla necessità di sviluppare un’armonia interiore con cui poter sviluppare un altrettanto rapporto armonico con l’ambiente. Una filosofia che stigmatizza il rapporto tra l’individuo e la Natura, quest’ultima intesa come la depositaria del Mistero mistico che è immanente al tutto. Un principio spirituale già adottato dai vari ordini religiosi, come ad esempio quello dei benedettini che praticavano il principio dell’ “ora et labora”, ovvero del “prega e lavora” ma che l’antico druidismo applicando il Nah’barsi avrebbe potuto sostituire con la massima di “ascendi et labora”, ovvero, nella sua interpretazione in chiave ecospirituale, con il significato di “evolvi interiormente sul piano dell’Io consapevole e opera coerentemente nell’ambiente attraverso il suo principio di armonia”. La pratica del Nah’barsi è una semplice esperienza di rifiuto delle distrazioni mentali, attuata rimanendo nello stato di consapevolezza proprio dell’Io consapevole. Si tratta in definitiva di non ascoltare il “rumore” dei sensi e della mente evitando di dare importanza alle pulsioni del suo richiamo. Ascoltare queste pulsioni significa accettare la loro logica e finire nuovamente all’interno di essa perdendo le reali facoltà dell’Io consapevole. Rimane un significativo esempio la narrazione dell’ “Odissea” di Omero, quando Ulisse si fa legare al palo maestro della sua nave per ascoltare, senza farsi sedurre, le voci delle sirene ammaliatrici che lo avrebbero portato ad annegare in mare. Inutile ricordare che l’albero della nave richiama inevitabilmente il simbolismo del tronco dell’Yggdrasil quale riferimento e forza dell’evoluzione spirituale dell’individuo. Il “Nah’barsi” può essere attuato camminando, eseguendo un lavoro manuale o in qualsiasi altra situazione di creatività personale. Presso l’ordine monastico-guerriero dello Za-basta, creato all’alba dei tempi secondo la narrazione druidica dal mitico Fetonte, era consuetudine da parte dei Kaua (i sacerdoti-guerrieri) preparare il Koshtar, un pasto sacro eseguito in una condizione di “said”, ovvero di “pace interiore”, utilizzando l’attuazione del Nah’barsi. In questa semplice condizione meditativa ancora oggi, ad esempio, nei monasteri ortodossi dell’Asia vengono dipinte le icone a tema religioso per dare ad esse un valore di sacro che sgorga dall’interiore dell’artista consapevole di sé e del suo lavoro. Il Nah’barsi lo si può realizzare anche nell’edificazione di un giardino vero e proprio, interpretandolo come un atto creativo personale, magari realizzandolo anche in collaborazione con altri che intendano condividere la stessa esperienza. La creazione di un giardino può rappresentare una immancabile fonte di esperienza ecospirituale che porta a contatto con la Natura e permette di scoprirne i suoi segreti più riposti.
Il più antico giardino a cui possiamo riferirci, ricordato a memoria umana, è quello del “gala druji”, il “giardino druidico”, concepito e realizzato dall’antico sciamanesimo druidico attraverso l’esperienza del “Nah’barsi”, nell’insegnamento dell’armonia propria della Natura e nel rispetto di un’alimentazione vegetariana che è stata da sempre considerata specifica della specie umana. Il giardino sacro degli antichi druidi Nel frequentare il mondo delle foreste dove si trovavano le radure in cui i druidi praticavano le loro celebrazioni, essi si erano resi conto che il loro Bosco Sacro era una consociazione di vari enti viventi, piante e animali, che costituiva un ecosistema naturale autosufficiente in grado di autorigenerarsi senza limiti di tempo. Un ecosistema che dava la possibilità di far coabitare in sinergia tra di loro, in un mutuo scambio di protezione e di sopravvivenza, grandi piante, fiori, arbusti e vegetazione di ogni genere. Enti che si rapportavano tra loro in un completo equilibrio senza danneggiarsi a vicenda nell’occupare lo spazio boschivo e dando ospitalità anche a varie forme di vita, da quelle del terreno agli insetti, agli uccelli e ad altri animali che trovavano rifugio tra le fronde e nei tronchi dei molti alberi. Il Bosco sacro non mancava ovviamente di ospitare anche la presenza dell’uomo, il quale utilizzava a scopo rituale le radure che si aprivano nei boschi senza portare danno a quanto aveva intorno e che, come le altre creature, talvolta trovava riparo nel bosco cibandosi dei generosi frutti offerti dalle piante. I druidi constatarono inevitabilmente che questo ecosistema, oltre ad essere di supporto per le loro pratiche cerimoniali e di riferimento simbolico, poteva concedere cibo occasionale ed essere fonte di ristoro psicologico e di intuizioni spirituali. Non solo, il Bosco, nei chiaroscuri mutevoli del suo sottobosco, si rivelava come la dimensione di incontro con creature del mondo della Matchka, aspetto dell’universo solitamente invisibile ai sensi che si accompagna in parallelo al vissuto quotidiano. Una dimensione abitata da quelli che i druidi identificavano come i “kuri”, gli esseri interpretati come folletti, fate e gnomi dalle varie tradizioni nordiche, e dalle entità elementali proiettate dalle piante, prodotte alle volte spontaneamente da queste ultime per entrare in contatto con gli esseri umani. Nel Bosco Sacro i druidi trovavano confortevole riparo e cibo per la loro sussistenza e occasione di esperienza. Una dimensione che ricordava il Giardino dell’Antico Eden, o la Terra Imperitura, dove i druidi ritenevano avesse avuto origine l’umanità. Per gli antichi druidi il Giardino dell’Eden era ricordato come una terra rigogliosa, esistita in un ambiente semi-equatoriale, che era stata in grado di provvedere a tutte le necessità alimentari dei progenitori dell’umanità i quali già dai primordi non avevano conosciuto altra forma di alimentazione che quella offerta spontaneamente e primariamente dalla vegetazione. Il druidismo per questo motivo è stato anch’esso da sempre vegetariano e nella sua cultura riecheggiava l’invito arcaico appreso dalla Natura per motivi di benessere psicofisico. La tradizione del “Tempo del Sogno” degli aborigeni australiani ricorda ancora oggi l’invito del dio Baiame, considerato dalla maggior parte delle comunità native come il creatore della Terra e di tutte le forme viventi, nell’imporre la sua legge ai primi tre esseri umani, due uomini e una donna, che aveva generato e collocato in un“giardino dai rigogliosi frutti” ai quali insegnava che dovevano cibarsi solamente di piante, indicando quali di esse potevano utilizzare, e vietando in maniera assoluta di uccidere e di cibarsi degli animali che dimoravano quel luogo.
Un invito che ricorda quello del Dio della Bibbia a Adamo ed Eva. Dal libro della Genesi leggiamo infatti: “Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l'uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, e l'albero della vita in mezzo al giardino e l'albero della conoscenza del bene e del male”… “Il Signore Dio prese l'uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse dandogli Eva come compagna”… “Ecco, io vi do ogni erba che produce seme e che è su tutta la terra, e ogni albero fruttifero che produce seme: saranno il vostro unico cibo…” Fu inevitabile che i Druidi, eredi dell’antica conoscenza edenica, prendessero a riferimento l’ecosistema offerto dal Bosco Sacro per creare in proprio un sistema agricolo che divenisse fonte dell’alimentazione di base della comunità. Avevano in pratica ricreato un “giardino dell’Eden” che desse cibo e piacere per i sensi e l’anima e che fosse il più possibile autonomo, come una foresta, tanto da automantenersi senza richiedere un grande impegno di manutenzione. Prendendo a riferimento l’insegnamento della Foresta in grado di autoalimentarsi senza essere curata da altri se non da se stessa, gli antichi druidi giunsero a creare quello che viene definito come il “giardino druidico”. Una struttura agricola complessa che era in grado, oltre che di costituire una dimensione di sacro e di contemplazione, di provvedere alla produzione differenziata di ortaggi, di frutta e di frumento necessari alla sopravvivenza di tutta la comunità. Un ente che dopo essere stato attivato sul piano agricolo non richiedeva più alcun grande contributo di lavoro di semina e di sistemazione, né di manutenzione se non quella che si può dare straordinariamente ad un bosco perché non subisca danni come per esempio quelli provocati da un fortuito incendio. Il giardino druidico realizzato a immagine e somiglianza del Bosco Sacro era quindi da considerarsi un ente praticamente eterno, perlomeno finché le condizioni ambientali lo potevano consentire, che le varie generazioni potevano tramandare attraverso il tempo come fonte alimentare totemica. Un ente che tutt’al più poteva estendersi sul territorio in proporzione alla crescita del numero dei membri della comunità. Un vero e proprio giardino dell’abbondanza, riecheggiante quello dell’antico Eden, che rendeva liberi gli uomini dal giogo del lavoro e consentiva loro di potersi dedicare con più disponibilità di tempo alla creatività interiore. Il giardino sacro degli antichi druidi era stato concepito con l’intento di assolvere a tre precisi obiettivi: innanzitutto a scopo alimentare, attraverso la semina di piante e ortaggi, quindi allo scopo di costituire una grandezza estetica che si manifestasse attraverso l’armonica mescolanza di vuoto e di pieno, realizzata con le forme e i colori della struttura del giardino, e infine allo scopo di realizzare una dimensione spirituale in cui si manifestasse una potenzialità contemplativa che poteva portare al Silenzio interiore. La realizzazione del giardino druidico Il luogo su cui doveva sorgere il giardino druidico veniva scelto preferendo aree di terreno fertile che fossero aperte su tutte le direzioni, in modo che le coltivazioni non rimanessero mai in ombra e al freddo, ricevendo luce e sole senza alcun impedimento. La mappa globale del giardino druidico era realizzata adattandola alle caratteristiche del terreno, senza attuare alcuna modifica sostanziale e comprendeva solitamente la presenza di dodici “uarta”, aiuole irregolari e dalle forme asimmetriche che rispettavano tra di loro il principio dell’armonia propria dell’applicazione del vuoto e del pieno. Il giardino druidico rifletteva i simbolismi delle radure utilizzate dai Druidi per le loro cerimonie sacre all’interno delle foreste, espressi anche dai grandi cerchi di pietre che sostituivano le radure nelle grandi pianure.
La sua struttura era suddivisa in quattro aree di competenza simbolica e di scelta di destinazione agricola. Dai quattro punti cardinali si aprivano quattro sentieri principali che si univano al suo centro e portavano agli altri ingressi. Il sentiero era concepito come uno spazio concesso dal giardino all’accesso umano e solo con il continuo calpestio esso si rivelava e si manteneva visibile. Quando la frequenza del calpestio cessava, il giardino si riappropriava dei sentieri ricoprendoli con la sua vegetazione spontanea. Per tale motivo i sentieri venivano spesso tracciati da selciati non invasivi di pietre, posizionate a distanza di passo d’uomo. Oppure delimitati da pietre laterali che fungevano da tutori di percorso. I quattro sentieri principali erano accompagnati da una serie di sentieri minori che contornavano le aiuole sia per poter raccogliere frutta e ortaggi e sia per poter consentire ai Druidi una maggiore immersione nella dimensione magica del giardino. La loro presenza era ritenuta importante allo scopo di consentire l’accesso al giardino preservando le caratteristiche di ciascuna aiuola, nella sua sostanza ricettiva e produttiva, che altrimenti poteva essere danneggiata con il compattamento del calpestio umano e dalla contaminazione di sostanze o di sementi non contemplate nella progettazione. Era prassi e consuetudine che il giardino desse asilo spontaneo e indisturbato a molte specie di creature, dagli insetti, agli uccelli, ai vermi e ad altri animali di piccola taglia. Nel giardino erano previste delle “aartah”, piccole aree libere di sosta in cui venivano posizionate panchine oppure tempietti a tema contemplativo. Erano luoghi dove i Druidi e i visitatori praticavano la meditazione e dove era eseguita la “nah-sinnar”, la particolare e antica musica dello sciamanesimo druidico con la proprietà di suscitare rilassamento psicofisico e visioni spontanee. Al centro del giardino si trovava una delle dodici aiuole. Qui, attorno ad essa, si incrociavano i quattro sentieri principali. L’aiuola centrale ospitava solitamente un laghetto naturale alimentato da una fonte ed era contornata da erbe aromatiche, piante officinali e fiori. Per questa consuetudine molto spesso il giardino si sviluppava attorno ad una fonte sorgiva naturale a livello del suolo, ma capitava anche che il giardino ne fosse sprovvisto e quindi veniva realizzato un largo “bacile” alimentato da acqua corrente. Sia a fianco del laghetto naturale che accanto al “bacile” veniva collocata, perché vi crescesse, una giovane piantina di frassino. Era quindi consuetudine che più l’arbusto di frassino si sviluppava in altezza e più il perimetro del giardino doveva venire esteso, ampliando e integrando armonicamente le varie aiuole in un complesso più ampio. Per i druidi l’arbusto di frassino simboleggiava l’ “albero cosmico dell’Yggdrasil”, manifestazione del principio dell’evoluzione del cosmo e dell’individuo, e contemporaneamente anche l’ “Irmisul”, il “grande albero” che rappresentava mitologicamente il pilastro che sorregge il mondo. Intorno all’albero di frassino era consuetudine posare ventidue pietre che avevano lo scopo di simboleggiare la “cinta di pietre”, citata dal poema finnico dell’Edda, che custodiva il “Mondo di Mezzo” della cosmologia druidica e contemporaneamente rappresentavano i ventidue archetipi di conoscenza della “ruota dell’Hatmar”, la ruota forata donata all’umanità nella notte dei tempi dal mitico Fetonte. Questo angolo del giardino druidico era uno dei tanti che racchiudevano simboli iniziatici che ogni Druido, passeggiando sui sentieri, poteva incontrare e cogliere per usare come suo tema contemplativo. Era consuetudine che il principio del giardino druidico potesse essere replicato, anche se in forma decisamente minore, anche in luoghi abitativi ristretti, avendo cura di conservare il più possibile le sue caratteristiche realizzative e di principio di gestione agricola.
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