Tradizioni Celtiche

Le Torri del Silenzio

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21 Febbraio 2011

Il “bonhom dou Cialvet”

Alla scoperta di un sito archeologico alpino
in Val Grande di Lanzo


Bonhom e mongioie a San Bernè

Chialamberto, in Val Grande di Lanzo: chi risale la strada provinciale non può fare a meno di notare i profili della montagna che incombe su paesi e borgate, con i dirupi a picco sulla valle, intagliati dai ghiacciai in epoche remote ed ora rivestiti di vegetazione, poi i pendii più dolci, su cui si estendono i pascoli, ed infine, contro il cielo, la sagoma appuntita del Gran Bernardè. La vetta non si stacca bruscamente dalle distese prative, ma ne sembra il coronamento. Sui declivi si distinguono le casette degli alpeggi: la Daia, la Cialmetta, il Cialm e, il più importante, San Bernè. Questi prati sono ricchi di un’erba tale che, fino ad una cinquantina d’anni fa, vi si produceva addirittura la fontina. Purtroppo, però, i margari dovevano lottare con la scarsità d’acqua. In tutto il territorio sgorga una sola sorgente degna di nota, nel piano di Marmottera, sopra i Funs, convogliata in un canale (oggi in tubatura) alle baite sottostanti. Quell’acqua bastava a malapena per dissetare gente e bestiame, non certo per irrigare, se non in misura assai limitata. Per il rigóglio dell’erba bisognava quindi affidarsi alla pioggia, che poteva essere più o meno benigna.

Oggi la zona di San Bernè è quasi abbandonata, ma l’escursionista che vi capita ne rimane comunque affascinato, perché, al di sopra delle baite, sparsi qua e là per le distese solitarie dei pascoli, vede ergersi decine di “bonhom”, piloni di pietra grezza dalle proporzioni spesso notevoli, dalle molteplici forme e nelle posizioni più ardite, i quali popolano il territorio silenziosi ed enigmatici. Nelle valli di Lanzo sono frequenti, ma solo a San Bernè costituiscono una presenza così numerosa e suggestiva. Se ne incontrano esemplari isolati già nei dintorni degli alpeggi inferiori, come il celebre “bonhom dou Cialvet”, alto più di tre metri e caratterizzato da “finestre”, ben visibile dal fondovalle sul suo cocuzzolo erboso. Poi, via via che si sale, i piloni si moltiplicano, superando il limite dei pascoli ed attestandosi sulle pietraie sotto la cima del Gran Bernardè. Sono un elemento troppo unico per non suscitare degli interrogativi. E non sono i soli. Presso le baite di San Bernè scopriamo anche tante “mongioie”, parallelepipedi di pietre accatastate in modo perfetto, fino a costituire armoniose forme geometriche che le rendono simili ad antiche are. Tutto questo lavoro degli antichi abitatori dei pascoli sottintende una volontà precisa, nascosta, che ci sfida a svelarne il mistero.


Ritorno ad un mondo remoto

L’uso di costruire i “bonhom”, colonne strutturate di pietre, risale alla preistoria e poi ai Celti ed ai Romani ed è sempre stato diffuso nelle zone di montagna; non solo nelle nostre, se è documentato anche in Nepal ed in Tibet. Gli studiosi hanno formulato numerose ipotesi di spiegazione, spesso discordi fra loro. Qualsiasi discorso, però, non può prescindere da un dato di fatto: nell’immaginario dei popoli antichi le montagne rivestivano un ruolo fondamentale, sia perché erano teatro di fenomeni terribili, come i temporali ed i fulmini, e catalizzavano le nubi portatrici di piogge vitali, sia perché, per la loro altitudine, avvicinavano al cielo, alla divinità, come ci dimostra la Genesi a proposito di Mosè. Il “bonhom”, nella sua verticalità, è una continuazione, e forse anche un’imitazione, della tensione verso l’alto della montagna.

Alcuni esperti, come Piercarlo Jorio, ritengono che per gli uomini preistorici le “torri di pietra” rivestissero una funzione magica, evocatrice di forze misteriose. Forse si ispiravano a certe realtà del mondo fisico (rocce particolari, menhir naturali), sentite come fonte di energia emanata dalla terra. Basti pensare al monolite del Passo dell’Ometto, tra la Val Grande e quella d’Ala sotto l’Uja di Mondrone, o allo spettacolare “gendarme” del Colle di Nora, sopra Chialamberto, al confine con la valle di Locana. Il “bonhom” poteva quindi rappresentare il contrassegno in superficie o addirittura il punto di “emissione” di tali energie sotterranee, contraddistinguendo un’area sacra.

In tal senso le “torri” finirono poi per svolgere un ruolo propiziatorio, come è testimoniato per i Celti ed i Romani. Spesso nascevano spontaneamente lungo i percorsi, non solo di montagna, quando ogni singolo viandante deponeva, su un mucchio che andava crescendo, una pietra come ringraziamento, di solito a Giove o Mercurio, per le difficoltà superate o come voto per quelle da affrontare. Talvolta la pietra deposta andava invece ad accrescere un tumulo sepolcrale, per propiziarsi le anime dei defunti. La colonna di pietra rivestiva così un ruolo di collegamento con il mondo dell’oltretomba o del soprannaturale, che ne sottolineava la sacralità.

Il Cristianesimo inglobò anche questa usanza, così come tante altre provenienti dal paganesimo, trasformando la “superstizione” in un atto di “pietas”. Ecco allora dai “bonhom” derivare “li pilon”, le edicole consacrate alla Madonna o ad un Santo, in genere a ringraziamento di una grazia ricevuta o di un pericolo scampato, persino per essere sopravvissuti ai malefici del diavolo o delle “masche”. Il pilone riusciva così a mantenere, in chiave religiosa, un ruolo di contatto con il mondo soprannaturale.

Nel corso del tempo la funzione propiziatoria delle “torri di pietra” venne a fondersi con quella segnaletica. La presenza di un “ometto”, nato come impetrazione di un buon cammino dalla divinità, stava anche ad indicare al viandante che era sulla buona strada. In francese, osserva Ariela Robetto, l’espressione popolare “aller son petit bonhomme de chemin” significa “andar per gradi” e dà comunque l’idea del procedere su un percorso. Ecco allora una serie di torricini, di diverse dimensioni e fattura, posti a segnalare particolari punti dell’itinerario o mete pastorali: valichi, passaggi obbligati, pianori di pascolo, alpeggi. È significativo, ad esempio, quello che contrassegna con evidenza l’Arp ‘d lou Rous nel vallone di Vertea, sopra Mondrone, in Val d’Ala. Non tutti gli ometti, però, sono di tali proporzioni e rilievo. In Val Grande si distingue tra il “bonhom”, vera e propria torre di pietra, e la “caletta”, di più modeste dimensioni. Il Pian d’la Caletta, presso il Gias Vei del vallone Vercellina, trae appunto il nome dal piloncino che lo contraddistingue.


   Il “bonhom” di Pian Gioè

A questo punto sottolineiamo un ulteriore passaggio semantico: l’ometto diventa anche segnale di confine di un luogo o di un alpeggio. Come tale il “cumulo di sassi” è nominato perfino nella Genesi. L’ardito ed imponente “bonhom” dell’Arp ‘d lou Rous non sta solo ad indicare una meta ed a rassicurare chi vi è diretto. La sua peculiarità suggerisce che chi l’ha costruito, con fatica e rischio, vista la collocazione sullo strapiombo, volesse anche e soprattutto marcare un territorio. Quindi, riallacciandoci al discorso sulla funzione magica, pure la costellazione di “torri” di San Bernè potrebbe delimitare un’area particolare, forse di tipo sacrale.

Un ruolo simile svolsero probabilmente le “mongioie”, che a San Bernè sono assai numerose, schierate sul pendio a valle delle baite, quasi a stabilire un confine. Gli studiosi intendono tale costruzione litica in modo diverso, talvolta come una specie di “ometto” piramidale, talaltra come un parallelepipedo di pietre dalla forma ben squadrata, nel qual caso richiama l’immagine di un’ara. Nella sua funzione originaria poteva pertanto essere sede di sacrifici o di consacrazione dei prodotti alla divinità oppure di pasti rituali consumati in comune, come testimoniato dalla Bibbia. Anche sull’origine del nome gli esperti sono discordi: se alcuni si rifanno a “Mons Iovis”, il Giove latino, altri sostengono etimologie differenti. Il Bessat ipotizza un “mont joye”, dove quest’ultima voce sarebbe la francesizzazione del germanico “gaud” “gau”, nel senso di “territorio”, “regione”, poi evoluto verso “confine”, elemento che è appunto contraddistinto da pietre.


Interrogarsi su un enigma

Le pendici del Gran Bernardè non mostrano solo elementi litici isolati, episodici per quanto significativi (quale il “bonhom dou cialvet”), come accade in altre zone delle valli di Lanzo e delle nostre montagne in generale, ma costituiscono un sistema, complesso ed articolato, il quale richiede, per essere interpretato, uno studio approfondito, che qui non è certo possibile, ma compete agli specialisti di archeologia alpina e di antropologia culturale. Ora possiamo solo avanzare qualche elemento di riflessione. Ad esempio le “mongioie” di San Bernè non possono essere soltanto il frutto di un normale lavoro di spietramento dei pascoli, come tanti altri “mucchi” di pietre che capita di vedere presso gli alpeggi. Esse sono di notevoli proporzioni, realizzate con perfezione geometrica che richiede cura particolare, utilizzando anche massicci lastroni certo non reperibili sul posto, ma portati appositamente per completare ed abbellire la “composizione”. Inoltre non sono isolate, come certune, altrettanto belle, che si incontrano lungo il percorso da Chiappili a Vassola, ma disposte lungo un fronte sotto le baite, quasi una barriera per chi risale il pendio.

I “bonhom” sparsi nella zona non hanno, per gran parte, una funzione di segnale o di confine, poiché situati fuori dai sentieri e senza un ordine apparente. Naturalmente alcuni fanno eccezione, come quello della Cialmetta e soprattutto del Cialvet, il quale, oltre a differenziarsi per la particolare struttura, occupa davvero una posizione chiave per l’orientamento. Nel complesso, però, sono disposti “a caso”, anzi talvolta in punti marginali, risaltando se mai per la posizione ardita sulla roccia, oltre che per la forma, come lo “scalfà” che ricorda una persona a gambe divaricate. Quanto alla determinazione di un limite, concordando con Jorio, si può pensare solo che costituiscano un “confine psicologico”, poiché collocati in prevalenza tra la parte superiore dei pascoli e l’inizio delle pietraie, cioè dove il cammino verso la cima del Gran Bernardè comincia a farsi difficile e faticoso e richiede un aiuto celeste. Visto il “sacrificio” che il trasporto delle pietre e la costruzione comportano, questi “bonhom” potrebbero essere nati come offerte propiziatorie.

Tutto sembra rispondere ad un disegno, ad una ricerca del sacro. Bisogna vedere perché, e qui si entra nel campo delle ipotesi. Un’idea che mi gira per la mente è quella dell’acqua. San Bernè, l’alpeggio delle vaste distese di pascoli, della produzione casearia d’eccellenza (la fontina), ne è poverissimo, cosicché essa rappresenta un bene prezioso. La fonte della conca di Marmottera era sfruttata in modo da ottimizzarne la resa. Ancora ai primi del ‘900 vi fu realizzata una diga di enormi losoni ben levigati per creare un bacino di raccolta. Tra l’altro, lungo il ruscello, poco prima del punto di captazione, ho notato due lastroni di pietra con un solco di scorrimento, usati a suo tempo per derivazioni o sovrappassi del flusso. Il signor Benedetto Genotti, per tanti anni margaro a San Bernè, mi raccontava di un canale (la “roya dou bandit”), realizzato anticamente fra mille difficoltà, per far affluire risorse idriche dal vallone di Vassola. Mi spiegava inoltre che, quando dai Funs si doveva convogliare l’acqua verso le Giornate, essa impiegava una settimana per giungere alla meta attraverso misteriose vie sotterranee. Insomma, tutto ci parla di una cura maniacale per il prezioso elemento. Naturalmente le poche fonti non erano sufficienti: occorreva che dal cielo scendesse il miracolo della pioggia e non è difficile immaginare che i pastori di un tempo la impetrassero con riti propiziatori. Se certi popoli, fino a tempi non troppo lontani, hanno creduto di ottenerne il beneficio scavando coppelle nella roccia, la gente di San Bernè può essere ricorsa alla costruzione dei totem di pietra, facendo del luogo un centro di culto “en plein air”, una sorta di Sacro Monte di allora. Poi, con l’andar del tempo, la realizzazione dei “bonhom” perse il suo valore sacrale e divenne solo più tradizione o, come ritiene Jorio, l’espressione della volontà di testimoniare la propria presenza. Un montanaro di Bussoni mi ha raccontato che il torricino, in splendida posizione, di uno dei tanti “Pian Gioè” (quello tra gli alpeggi delle Combe e di Malatrait), sarebbe stato costruito da un garzone che vi aggiungeva di volta in volta una pietra, mentre faceva una sosta nel suo cammino. Anche lui ha voluto lasciare un segno della propria esistenza.


“Bonhom” nei dintorni di San Bernè


Accesso

Da Torino si segue, dopo Venaria, la Direttissima della Mandria (Prov. n. 1), per proseguire quindi nella Val Grande di Lanzo. Dopo la frazione di Prati della Via, alle porte di Chialamberto, si devia a destra per Vonzo (m 1230). In vista del paese, ad un bivio si prende a sinistra per passare a monte dell’abitato ed andare a parcheggiare nel piazzale contiguo alla chiesa.

Per il percorso a piedi suggeriamo l’itinerario che ci sembra più chiaro ed agevole. Dal parcheggio imbocchiamo verso monte un’asfaltata e saliamo alla borgata di Chiappili (m 1440), all’uscita dalla quale svoltiamo subito a destra su un sentierino che monta tra i prati. Esso va poi a confluire su una sterrata che, a sinistra, termina al Pian di Vassola (m 1620). Si attraversa il ponticello; verso sinistra si vanno a rasentare le baite, dopo le quali il sentiero piega a destra lungo le rocce. Superato un tratto di pietraia e boscaglia, si entra nella zona dei pascoli. Dietro l’alpe della Cialmetta prendiamo il sentiero di destra, che procede con lunghe anse a mezza costa fino ad arrivare sotto le baite di San Bernè (m 1969), da raggiungere per prato, passando fra le “mongioie”. Conviene portarsi alle grange più alte, da cui è evidente il tracciato che compie un lungo traverso a sinistra, per affrontare poi la rampa che conduce al “bonhom dou Cialvet”, ben individuabile da lontano. Di qui sono visibili le “torri” disseminate per pascoli e pietraie. Seguendo la traccia a monte del “bonhom” lungo una valletta, si può raggiungere l’alpeggio delle Giornate, da cui, traversando a sinistra, si perviene facilmente al crinale del Gran Bernardè (m 2747). Verso destra, invece, imboccando un bel passaggio scalinato sotto la roccia, ci si dirige al vallone dei Funs e lo si costeggia, per toccare, alla sua testata, la conca di Marmottera con la sua bellissima diga.








 

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