Storia |
I complicati esordi della riacquistata libertà |
29 Giugno 2016 | ||||||
Uno scorcio di storia locale di una comunità alpina delle Valli di Lanzo in Piemonte, testimonianza di un momento emozionante e ancora tutto da capire nell’immediato dopoguerra
L’emozione che investì i balmesi (abitanti di Balme, Val d’Ala, Piemonte – NdR) la mattina del 26 aprile del 1945, suscitata dalla fine delle ostilità e dalla conclusione delle tante sofferenze sopportate durante i problematici mesi del periodo resistenziale, non cancellò la mestizia per i tanti lutti subiti e nemmeno l’incertezza che ancora gravava sulla sorte dei compaesani ancora dispersi. Il Comune, dopo il ventennio podestarile si trovò nell’incombenza di darsi un governo provvisorio, situazione non facile per una realtà frazionata su fronti contrapposti durante il regime fascista e laceratasi ulteriormente negli ultimi frangenti bellici. Fu il Comitato di Liberazione Nazionale a scegliere i soggetti più adeguati ad amministrare la transizione verso le libere elezioni dei governi locali, individuando prontamente due personalità in grado di ricomporre al meglio le ferite non ancora rimarginate. Alla guida del paese fu nominato, coincidenza senz’altro singolare, il giovane parroco del paese don Lorenzo Guglielmotto. Come vice venne scelto Michele Castagneri Miklàn, dall’agosto del ‘44 presidente del locale Comitato di Liberazione (CLN). Il trentaquattrenne Guglielmotto, originario della frazione Castagnole di Germagnano, piccola borgata all’imbocco della valle di Viù dove si parla un dialetto del tutto simile a quello della val d’Ala, già dal ’38 aveva assunto la guida spirituale della parrocchia balmese e di quella di Mondrone. Nell’estate del 1944, quando la situazione alimentare si era fatta gravissima, non aveva esitato a guidare le corvées in pianura per sfamare la sua gente. Più di una volta si trovò in pericolo di vita, come nel settembre ‘44 quando fu preso in ostaggio dai tedeschi. Alpinista provetto – il 1° luglio del ’44 aveva persino celebrato un matrimonio sulla vetta della Bessanese - si soprannominò “camoscio filosofo” nella redazione sferzante del bollettino parrocchiale, mostrando una certa vivacità letteraria nell’esprimere le proprie riflessioni. Ideò anche la figura del “cammello di montagna” per rappresentare la popolazione in un frangente denso di disagi e privazioni. Con la fine della guerra si accollò ancora, in virtù dell’impegno e della condivisione dei rischi e dei pericoli vissuti in quei mesi segnati da morti di ogni fazione, la responsabilità amministrativa del comune. Noncurante del diritto canonico, accettò di buon grado il ruolo di primo cittadino, pur dovendo render conto del fatto all’arcivescovo Maurilio Fossati. Questi, rassicurato sulla durata transitoria dell’incarico e motivato dal rischio che potesse esser nominata una persona di troppo diverso orientamento politico, accordò la sua approvazione. Quando il 2 maggio il comunicato del prefetto di Torino Passoni ratificò la nomina dei nuovi amministratori, altre drammatiche e sanguinose informazioni avevano frattanto raggiunto il paese: il giorno prima a Robassomero una colonna di nazisti in ritirata aveva ucciso con altri suoi compagni il partigiano Antonio Castagneri (Succi) della 17ª Brigata Garibaldi “Felice Cima” attiva al Colle del Lys, mentre il 29 aprile era stato ammazzato da reparti tedeschi in Veneto il diciannovenne Giuseppe Castagneri. La guerra, ufficialmente conclusa, recava ancora pesanti strascichi e ulteriori vittime.
Altre brutte notizie si aggiungeranno ancora quando comincerà il ritorno dei superstiti e si aggraverà il sanguinoso e sproporzionato tributo dei morti balmesi e degli oriundi: dei cinque deportati nei campi di concentramento non faranno ritorno alle loro case Giovanni Martinengo (defunto il 23 aprile 1944 nel lager lazzaretto di Fullen/Meppen, soprannominato non a caso il “campo della morte”,) e i civili Antonio Bricco (deceduto nel campo di Erfurt nel marzo del ’45) e Pancrazio Castagneri Bitch (a Torgau, dove scomparve a seguito del bombardamento del campo il 15 novembre del ’44). Altre otto persone in quei pochi anni avevano perso la vita in situazioni differenti per cause riconducibili agli eventi bellici: disperso in Africa Orientale nel ’41 Francesco Castagneri (Chinàt), sotto i bombardamenti di Torino, Michele Castagneri (Mantlàta) il 13 e Caterina Droetto il 19 luglio 1943; fucilati in circostanze oscure, Pancrazio Castagneri (Malèna) e la figlia Marianna (Nini) nel maggio 1944 a Castelnuovo Nigra, Ernesto Bricco a Balme il 23 luglio del ’44, l’ausiliaria Luciana Drovetto, il 6 aprile 1945 a Inverso di Pinasca; Bartolomeo Castagneri Trumblìn, guida partigiana, trucidato il 12 aprile a Mezzenile. Come non bastasse, il 15 settembre del 1945 in un telegramma inviato alla Prefettura di Torino il Sindaco denunciava: “Il Comune non ha avuto danni per effetti di bombardamento ma in azioni di rappresaglia da parte di truppe nazifasciste ha avuto complessivamente sei case completamente distrutte”. A seguito dei ritrovati diritti politici, 175 elettori balmesi sui 198 aventi diritto (per la prima volta potevano votare anche le donne) parteciparono il 2 e 3 giugno 1946 al referendum per scegliere la forma istituzionale dello stato. Non influirono sull’esito elettorale le numerose passate frequentazioni dei più illustri componenti di Casa Savoia, cosicché 89 elettori si pronunciarono a favore della Repubblica e 78 per la Monarchia, oltre a 2 schede che risultarono nulle e 6 bianche; nella stessa consultazione contribuirono ad eleggere l’Assemblea Costituente, votando soprattutto per la Democrazia Cristiana, il Partito Socialista e, in misura minore, per il Partito Comunista. Nell’autunno i balmesi furono nuovamente chiamati al voto per eleggere i propri rappresentanti all’interno del Consiglio Comunale. Alle elezioni si presentarono due liste contrapposte di dodici candidati ciascuna: la prima, contrassegnata da due circoli concentrici e la seconda da tre cerchi intersecati. Il nuovo parroco don Andrea Bonino, attento alle dinamiche politiche locali e nazionali, riassunse sul bollettino parrocchiale: “Ebbero luogo il 20 ottobre in questo clima freddo che servì forse a temperare gli ardori dei partiti contrastanti. Ardori tali da…lasciar tale e quale la neve sui prati. Partiti: due soli; due liste formate e ispirate da motivi e idee esulanti affatto dal campo politico. C’erano infatti democristiani con socialisti e qualunquisti, magari. La gente, con grande confusione, parlava di democristiani, di rossi, di fascisti; un’idea però era dominante e distingueva due partiti avversi, battezzati così: socialisti e fascisti. Vinsero - sempre secondo le gente – i socialisti, che la domenica successiva partorirono nel loro augusto seno il nuovo Sindaco, nuovo per modo di dire, ché già ne esercitava la funzione fin dal settembre scorso”. Dei quindici consiglieri designati solo cinque scelsero di dichiararsi indipendenti, due si definirono apolitici mentre gli altri non esitarono a riconoscersi nei partiti maggiori: uno democristiano, quattro socialisti e tre comunisti.
I tredici presenti alla prima riunione elessero sindaco con otto preferenze il più anziano di loro, il cinquantasettenne Michele Castagneri Casténa detto Miklàn, proprietario di una segheria idraulica e distillatore di genziana, già capo del Cln locale, vice di don Guglielmotto dopo la Liberazione e facente funzioni di primo cittadino dopo il trasferimento nell’autunno del ’45 del prevosto/sindaco a Buttigliera Alta. La Giunta risultò composta da Michele Castagneri Mimì e Pietro Dematteis Nissòt come assessori effettivi e da Giovanni Battista Castagneri Piarèt detto Tìti, che sarà poi sindaco tra il 1956 e il ’58, e la guida alpina Pancrazio Castagneri Tuni detto Gin ’d Tounìn. In un paese dove i nomi e i cognomi si ripetono ed è facile confondere le identità (dei ventiquattro candidati ben sedici erano Castagneri), il segretario comunale Domenico Magoia, anch’egli attivo durante la guerra nel produrre falsi documenti, nel brogliaccio della seduta consiliare indicò tra parentesi i vari soprannomi coi quali erano conosciuti i nuovi consiglieri. Sappiamo così che il primo consiglio comunale di Balme fu composto, oltre ai già citati Miklàn, Mimì, Nissòt, Tìti, e Gin ’d Tounìn anche da Bucalìn, Gàri, Nèti, Tòni ’d Rìga, Maciulìn, Bugiàt, Menelìc, Perulìn ’d Prät, Brùstia e Tòni ’d Limùn, pittoreschi nomignoli di solidi montanari che alcuni balmesi dei nostri giorni hanno ancora conosciuto. L’ultimo dell’elenco, Tòni ’d Limùn, al secolo Antonio Dematteis, dal 4 agosto 1942 aveva ricoperto fino alla liberazione il delicato incarico di Commissario Prefettizio. Fedele al motto “Fate bene e non temete!” e a rischio della sua stessa vita, non rinunciò durante il suo complesso mandato a fornire documenti contraffatti che garantirono la sopravvivenza a diversi perseguitati razziali. I pesanti frangenti sembrarono non ostacolare quelli che parvero timidi segnali di un’insperata ripresa. Nel 1948 la ditta tessile Magnoni & Tedeschi di Cafasse inaugurò la colonia montana per i figli dei propri dipendenti alla frazione Molette dopo aver acquisito un grande caseggiato dalla famiglia Bricco Camussòt. La necessità di risollevare le sorti del paese, indusse molti a raggrupparsi il 1°marzo 1950 nel “Comitato promotore della seggiovia di Balme”, del quale facevano parte, oltre alle principali autorità comunali, alcuni imprenditori e villeggianti. La finalità era quella di costruire un impianto di circa 1300 metri che dai campi di Balme portasse a Pian Gioè, “provvedendo alla sistemazione delle piste di discesa e a prendere tutte le iniziative atte a favorire e sviluppare il movimento turistico”. Nello stesso anno venne anche asfaltata la strada principale fino al capoluogo e si cominciò a studiare un tratto viario alternativo che rimuovesse i disagi dell’isolamento invernale in caso di valanghe. Per altri versi il dopoguerra non si rivelò purtroppo semplice per la nuova generazione di amministratori, animati ciò nonostante da grande slancio e volontà. A fine settembre del ’47 una devastante alluvione che distrusse ponti e strade mise a dura prova l’amministrazione comunale. Nel solo giorno 26 cadde in ventiquattro ore una quantità d’acqua mai registrata in oltre cento anni di misurazioni. La situazione, resa critica dalla precarietà economica derivante dalle attività agricole - nel 1948, a fronte di 258 residenti vi erano durante l’estate ben 82 unità di allevamento e salivano in alpeggio 658 bovini, 608 pecore, 357 capre - e dalla situazione del turismo e della villeggiatura, azzerati dalle ostilità belliche, indusse molti a lasciare il paese. Le risorse umane come quelle economiche, risultarono insufficienti a contrastare l’emigrazione, rafforzata dal richiamo che la città esercitava soprattutto in termini di offerta di lavoro. I problemi si accumulavano e le aspettative, spuntate assieme all’entusiasmo per la fine del ventennio fascista e alla fiducia generata dalla neonata Repubblica, sfumarono di fronte allo svuotamento sociale e umano del paese. Non bastarono i successivi decenni a metter fine al declino che in quei primi anni del dopoguerra sembrò essere appena iniziato.
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