Storia |
Storie di uomini d’altri tempi |
20 Ottobre 2015 | ||||||||
Racconti di montagna: Francesco Castagneri Canàn detto Mìciu (1913-1990)
Era quel che si dice una pianta d’uomo, alto, asciutto e robusto, come sono del resto tutti gli uomini della sua stirpe, quella dei Castagneri Canàn di Balme (Valli di Lanzo, Piemonte), gente solida che da innumerevoli generazioni esercita il secolare mestiere del bergé nel selvaggio vallone di Servìn. In paese la sua forza era leggendaria e ricordo di aver udito narrare, negli anni della mia infanzia, che lui e suo fratello Censo avevano trasportato - da soli - una frésta, cioè la trave di colmo di una baita, su fino ai 2300 metri di altezza dell’alpeggio del Giassèt. Il volto di Mìciu era magro, rugoso e sempre abbronzato, con il forte naso aquilino di tutti i Balmesi che si rispettano. Ma erano soprattutto le sue mani a richiamare l’attenzione della gente: non soltanto erano enormi, ma davano l’impressione, persino inquietante, di una forza erculea, temperata tuttavia da una evidente destrezza. Erano mani che rivelavano una lunga consuetudine con le intemperie dell’alta montagna, con i lavori più pesanti, con il metallo rovente e con il ghiaccio, affrontati senza risparmio e senza riguardo.
Ma non solo. Ricordo la radiografia di una delle sue mani, che ebbi occasione di vedere quando, negli ultimi anni, Mìciu si sottopose ad accertamenti medici per ottenere la pensione. Una pallottola vera e propria, rimasta conficcata, era il risultato di una pistola carica, gettata nel fuoco durante un gioco di ragazzini. Inutile dire che la pensione gli fu accordata senza bisogno di ulteriori approfondimenti. Dire che aveva la pelle dura è dir poco, se pensiamo che una volta, mentre mostrava ai curiosi una vipera che aveva catturato viva, questa riuscì a mordergli il pollice. Senza tuttavia che i denti del rettile riuscissero a penetrare la spessa epidermide, indurita dal gelo, dal fuoco e dal tabacco. Perché Mìciu, in aggiunta ai tanti mestieri che aveva fatto e che sapeva fare quando occorreva, era anche il serparo di Balme. Se qualcuno si accorgeva di avere una vipera vicino a casa o nel giardino, lo chiamava e lui la catturava. In queste occasioni, di solito si radunava un capannello di curiosi che poi iniziava un pellegrinaggio nelle diverse osterie. Mentre la comitiva, in ambiente sempre più alcolico, proseguiva i festeggiamenti per la cattura del pericoloso serpente, spesso accadeva che il povero rettile, approfittando della confusione e della sorveglianza allentata, riuscisse a riacquistare la libertà. Con poco entusiasmo dei vicini di casa. Perché Mìciu, come tutti i Balmesi della sua generazione, amava il buon vino e la festa. Era un ottimo suonatore di fisarmonica e ricordo con nostalgia certe sere d’estate alla borgata Cornetti. Era la stagione dei fieni e, per l’occasione, arrivavano a casa di Mìciu, per dargli una mano, i suoi amici più cari, belle figure di montanari come Lou Trì, Cesco di Nòna, Toni Birba e Péru d’Chiaves (che bei nomi…). Dopo una giornata di duro lavoro nei campi e qualche sosta all’osteria della Vittoria (giusto per bagnarsi le labbra), la serata proseguiva tagliando una toma e versando il vino nelle scodelle. Capitava anche (anzi capitava quasi sempre…) che il vino finisse (di solito prima della toma) e allora Mìciu andava a bussare alla porta di Bruno Molino, capo della squadra del soccorso alpino ma soprattutto titolare dell’unico negozio di alimentari della borgata. Questi era un alpinista esperto e un generoso soccorritore, ma, a differenza della maggior parte dei suoi colleghi, era uomo famoso per essere sobrio e morigerato, anzi era l’unico astemio di tutta l’alta valle. Di solito era già andato a dormire e quindi appariva in camicia da notte ed esprimeva le sue rimostranze per il fatto di essere stato svegliato a tarda ora non già per causa di prima necessità (era anche l’infermiere della borgata), ma per quelli che, a suo dire, erano futili motivi come la fornitura di un bottiglione di vino.
A questo punto, senza scomporsi, Mìciu additava la targa di metallo che stava accanto all’ingresso del negozio, con la scritta “SOCCORSO ALPINO, POSTO DI CHIAMATA” e si giustificava dicendo: “qui sta scritto Soccorso Alpino e noi ne abbiamo bisogno!”. La festa proseguiva di solito nella piazzetta proprio sotto le finestre di casa mia e ricordo la sera (ma forse era tarda notte...) in cui alcune vecchiette della zona tra cui mia nonna, che di Mìciu era prima cugina ma molto più anziana, forse infastidite dal protrarsi dei canti, invitarono l’allegra brigata ad andare a dormire. L’invito fu poi sottolineato da alcuni secchi d’acqua. Mìciu non si scompose e anzi si giustificò dicendo “noi siamo gli eroi della montagna!”. Forse non era un eroe, ma certamente era uno che non aveva paura di niente, anche perché aveva fatto la guerra sul serio, in Albania e in Grecia, naturalmente come artigliere di montagna, e ancora parlava con affetto del suo capitano e del suo colonnello. Una foto ingiallita in casa sua lo ritraeva mentre faceva il presentatàrm con una canna di cannone al posto del fucile. Un cannone vero, teneva a sottolineare, non il finto cannone di legno che il fotografo del reggimento teneva a disposizione per quelle mezze cartucce che non volevano rinunciare a mandare la stessa foto alla morosa. Era un uomo generoso. Si raccontava in famiglia che nel Quaranta, quando scoppiò la guerra, avrebbe potuto non partire ma preferì arruolarsi nella speranza di evitare il servizio al fratello, che si era appena sposato. Anche nei giorni più freddi del crudo inverno balmese, andava in giro con un paio di zoccoli, senza calze e non gli vidi mai indossare un paio di guanti. Una volta, nel gioco da bocce dell’Albergo Pinete, una boccia andò a finire nel torrente sottostante. Senza scomporsi, Mìciu scavalcò il muretto e si immerse nelle acque gelide, frugando tranquillamente finché ebbe recuperato la boccia. Un’altra volta in una casa della borgata una bombola di gas prese fuoco. Mentre tutti correvano e gridavano in preda al panico, Mìciu conservò il suo sangue freddo, prese un sacco, lo immerse nella fontana e quindi lo gettò sulla bombola, estinguendo le fiamme.
Da lui imparai molte cose utili a sopravvivere a Balme e anche altrove, come spaccare la legna, caricare la legna sulla slitta, dare la sciolina agli sci da fondo (era stato un campione di sci in gioventù), fare i nodi con le corde, camminare con le racchette da neve, che allora si chiamavano sèrquiou e non ciàspole. E tante altre cose che mi fecero fare bella figura tra gli alpinisti cittadini quando andai alla scuola di roccia del Club Alpino. Naturalmente non aveva studiato, ma leggeva molto e di tutto. Talvolta mi faceva domande su cose che avevano destato la sua curiosità, magari molti anni prima. “Sulla facciata di una casa di Viù sta scritto «parva sed apta michi» sai dirmi che cosa vuol dire?” Senza saper di latino, la frase era rimasta impressa nella sua mente. Si ricordava anche di amici che non vedeva da molti anni. Al principio degli anni Ottanta, stavo partendo per Bessans e mi chiese di portargli un po’ di tabacco grigio e di cartine di sigarette. E aggiunse anche di passare a salutargli il suo vecchio amico Germain, indicandomi con precisione la casa di Avérole dove questi abitava. Ma ad Avérole ormai non abitava più nessuno, nessuno almeno che conoscesse Germain e anche la casa non c’era più... Quando tornai a Balme e glielo dissi, scrollò il capo dicendo “Può anche darsi che sia morto. Prima della guerra aveva già più di ottant’anni!”. Come i Balmesi del suo tempo, Mìciu sapeva vivere con poco e di poco. Negli ultimi anni passava l’inverno in una cascina vicino a Cirié, con suo figlio Giuseppe. Una volta, era la fine di ottobre, vide che stavo per partire per Torino con la mia cinquecento e mi chiese se potevo dargli un passaggio fin laggiù. Gli risposi che sì, che dovevo partire entro un’ora, ma che lo avrei aspettato. “Dammi solo cinque minuti”, rispose. Entrò in casa, prese un sacco (non uno zaino, proprio un sacco di iuta…) vi buttò dentro qualche indumento, un paio di libri e un album di Tex Willer. Quindi uscì e chiuse accuratamente l’uscio di casa con un buon giro di corda attorno alla maniglia, perché era un uomo che si fidava del prossimo e non usava chiavi, che poi facilmente si perdono. Con questo leggero bagaglio salì sulla mia cinquecento. Per andare a svernare. Ricordiamocene, quando non riusciamo a chiudere la valigia, magari per un viaggio di poche notti in business class. |