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Conversando con Piergiorgio Odifreddi - 1 |
03 Aprile 2013 | ||||||||||||||||
Il “matematico impertinente” si racconta...
Lo scienziato e scrittore Piergiorgio Odifreddi è un personaggio complesso ed eclettico che nei suoi libri e nei suoi scritti si è sempre mostrato con la schiettezza che lo contraddistingue, anche prendendo posizioni scomode e affrontando temi spinosi come la critica religiosa. Matematico, logico e saggista italiano, i suoi scritti, oltre che di matematica, si occupano di divulgazione scientifica, storia della scienza, filosofia, politica, religione, esegesi, filologia e saggistica varia. Conversare con Odifreddi significa entrare in un vortice in cui ci si trova ad affrontare qualsiasi argomento dello scibile umano, dalle cose quotidiane al senso dell’esistenza, senza poter sfuggire alla sua logica stringente. Ogni argomento ne apre altri mille, e non ci si fermerebbe mai. Piergiorgio, l’universo è frutto di un caso, o c'è una programmazione? Dipende. È anche una questione di fede in un certo senso, perché se vediamo l'universo come qualche cosa di programmato, allora possiamo pensare che all'origine ci sia un programmatore. Se, invece, lo si vede come qualcosa di casuale o di caotico, allora si può pensare che agli inizi ci sia stato un casinista. Ma si può anche immaginare che il casinista non sia necessario postularlo. Cioè, il caso in fondo si spiega da sé. La programmazione è un po' più complicata da spiegare, richiede forse il programmatore, e anche un ordine. L'ordine però, effettivamente lo si vede nell'universo, gli scienziati in fondo fanno quello: ricercare le tracce di questo ordine, cercare di esprimerle attraverso quelle che si chiamano “leggi di natura”. La cosa interessante è proprio questa: ossia che la scienza riconosce l'esistenza di un ordine, ma ha bisogno della matematica per poterlo descrivere, non ha bisogno di fare appello a qualche cosa di trascendente. Questa è una delle tre grandi domande: “da dove veniamo”, e riguarda l'universo; poi: “da dove arriva in realtà la vita su questa Terra”, che porta a interrogarci su come si sia formata la vita dalla materia inanimata; e poi, l'ultimo passo, che è quello che ci interessa più di tutti: “come si è formata la coscienza” negli esseri, nelle scimmie antropomorfe. Sono le tre grandi domande, i grandi perché, ma la scienza si interessa meno del “per” e si interessa solo del “che” e del “come”, diciamo così. Sono domande filosofiche, ma la filosofia e la scienza vanno parallele. La filosofia è ispirazione, fornisce appunto queste grandi problematiche. Gli scienziati poi, spesso, forse anche con più umiltà, si dedicano a rispondere a domande magari meno roboanti, meno grandiose, alle quali però si possono dare delle risposte precise.
Hai parlato di coscienza. Mettiamo pure che sia tutto un caos, un qualcosa di caotico che in qualche modo porta alla coscienza, quindi all'io consapevole, che sia di un animale o di un uomo. Si potrebbe pensare che a monte ci sia stato un programma, altrimenti come ci saremmo arrivati? Che cosa sia successo agli inizi è molto difficile dirlo perché non c'eravamo. Però si possono fare, ad esempio, delle simulazioni. Oggi si preferisce fare delle simulazioni con i computer piuttosto che delle prove tipo: “vediamo se questo aereo tiene, andiamo a guidarlo e se poi casca ci accorgiamo che non funzionava”. Meglio farlo con i simulatori di volo. Si possono fare anche simulatori, per esempio, dell'evoluzione della vita. C'è un programma, un gioco informatico, che si chiama “Life”, in cui ci sono semplicemente delle caselle; le caselle si accendono o si spengono, però a seconda di come le si accendono possono formare delle figure e le regole, molto semplici, di questo universo fanno vedere che, per esempio, la vita si forma spontaneamente; anche se si accendono e si spengono queste caselle a caso. A un certo punto ci sono delle configurazioni che incominciano a riprodursi, cominciano a spostarsi, a muoversi... Sulla coscienza: ovviamente noi siamo coscienti solo di ciò di cui siamo appunto “coscienti”, quindi crediamo che quella sia la cosa fondamentale, ma il rapporto tra la nostra attività cosciente e la nostra attività inconscia (o incosciente spesso) è un rapporto enorme, di uno a cento miliardi. Effettivamente è un numero gigantesco, è più o meno il numero dei neuroni che abbiamo nel nostro sistema nervoso, quindi è come se (ovviamente non funziona così, perché la coscienza è distribuita) un neurone del nostro sistema nervoso servisse per la coscienza e tutto il resto servisse per tutto ciò che facciamo. Quasi tutto ciò che facciamo è inconscio e la coscienza è una piccolissima parte. Solo che, appunto, è l'unica cosa di cui siamo consci. Io faccio spesso un esempio: quando gli uomini andarono sulla luna, con Armstrong che guidava l'Apollo 11, era tutto organizzato in maniera computerizzata, c'erano i primi computer, la navicella stava scendendo. A un certo punto, poco prima di scendere nel Mare della Tranquillità, si accorsero che stavano andando a sbattere contro un masso, al che Armstrong prese i comandi per pochi secondi, spostò la navicella di qualche metro e la fece atterrare. Ecco, la coscienza è quello. Noi siamo guidati da un computer, che ci fa fare tutto quello che serve, ma ogni tanto c'è bisogno di una piccola correzione di rotta ed è quello che fa la coscienza. Un grande scienziato del novecento, Schroedinger, uno dei padri della meccanica quantistica, diceva che in fondo il motivo per cui noi abbiamo la coscienza è perché abbiamo bisogno di queste correzioni di rotta.
Altri animali, che ormai sono più evoluti di noi, vanno col pilota automatico, non hanno bisogno di correzioni. Noi non siamo ancora così perfetti da dover andare soltanto col pilota automatico e, ogni tanto, ci tocca rimettere le cose in sesto. E quindi, non è nemmeno detto che il fatto di averla, questa coscienza, sia poi un indice del fatto che noi siamo così progrediti, potrebbe essere l'indice del contrario, per l'appunto. Se noi fossimo soltanto un cervello collegato, invece che con un corpo e con dei sensi o degli strumenti per esplorare il mondo intorno, con dei fili e un programma che ci dà gli stimoli giusti, sarebbe molto difficile riuscire ad accorgersene. Cambiando argomento, hai scritto dei libri che non potevano non destare scalpore già dal titolo, come “Perché non possiamo essere cristiani e meno che mai cattolici”. È una provocazione culturale? Sì, è vero. In precedenza ne avevo scritto un altro, “Il vangelo secondo la scienza”, ma in realtà il titolo era dell'editore. L'avevo intitolato invece “Dalla Galilea a Galileo”, perché mi sembrava un gioco di parole, e il sottotitolo era appunto “Il vangelo secondo la scienza”. Era il mio primo libro e l’editore era Giulio Einaudi, che disse “ma cos'è questo titolo, dalla Galilea a Galileo?” e come titolo mise il sottotitolo. Però è vero, alcuni titoli dei miei libri sono volutamente provocatori. D'altra parte, diceva Bernard Shaw che per lasciare un'impressione bisogna esagerare. Non è detto che l'impressione sia quella buona, magari si lascia una cattiva impressione, però perlomeno se si esagera leggermente si attrae l'attenzione. Poi, bisogna vedere se dentro il libro c'è qualcosa che vale la pena di essere letto. Proprio per questi titoli e per la tua critica religiosa sei stato etichettato come ateo materialista. Eppure tu ti identifichi in una concezione di spiritualità laica. Non solo io. Einstein sosteneva che – e questo era già ormai un secolo fa – nel mondo moderno, così legato a questioni sempre molto pratiche, produzione, denaro, lo svago superficiale eccetera, gli unici esseri spirituali sono in realtà gli scienziati. Sono gli unici che si pongono quelle domande alle quali abbiamo alluso prima: come è nato l'universo, come è nata la vita, come è nata la coscienza e, poi, tutti i corollari di queste domande, e cercano di dare delle risposte che siano paragonate, come grandiosità, alla grandiosità della domanda. Anche le religioni si pongono queste domande, però quello che sorprende delle religioni è che le loro risposte sono quasi fumettistiche, caricaturali. Si fanno queste grandi domande e poi si danno delle risposte che sono, insomma, un po' una caduta di stile. Anche perché spesso sono risposte vuote.
“È dio che ha fatto l'universo, è dio che ha fatto la vita...” È sempre la stessa risposta e, soprattutto, non ci rivela nulla, perché in realtà, quando si parla di dio, è soltanto un modo diverso di dire “non so la risposta a questa domanda”, e allora ci ficco dentro qualche cosa, ma intanto non conosco nemmeno lui, perché pure lui è il mistero più grande, quindi in definitiva è solo un modo di dire “non so”. Però c'è un modo più semplice di dire “non so”, che è “non so”. C’è un tuo scritto che è stato musicato dal cantautore Alessandro Orlando Graziano: “Il mio credo”. Cosa volevi esprimere? Voleva essere una provocazione. Ho preso il credo di Nicea e ho fatto vedere come, in realtà, cambiando solo qualche parola, si potrebbe creare un credo laico, in cui invece di adorare dio padre onnipotente, o il figlio che diventa uomo, si adorano semplicemente la natura da una parte e l'uomo, inteso come umanità, dall'altra. È una versione del Credo un po' atea, o meglio spinoziana, perché in fondo è Spinoza che ha insegnato che dio è in realtà un sinonimo della natura. Diceva proprio così: “deus sive natura”, dio cioè la natura. Se quando si parla di dio si intende la natura, mi può anche andar bene. In questi giorni è stato incoronato (o meglio scoronato perché non ha messo la corona) il nuovo papa, e ha fatto un appello di questo genere, dicendo “in fondo dobbiamo preservare il creato”. Ora, se si parla di creato si usa la parola sbagliata, perché si presuppone ci sia, appunto, un creatore. Ma se si afferma “dobbiamo preservare la natura”, allora è un passo avanti nella direzione di una convergenza tra scienza e fede. Non si tiene mai conto che ci sono i popoli nativi di tutto il pianeta che hanno proprio questa concezione di spiritualità laica, però sono relegati in sacche come fossero fuori dalla storia. Questo tipo di concezione li unisce anche se sono molto diversi tra di loro e geograficamente lontani. Non so quanto siano effettivamente laici quei popoli, perché in realtà quella è una forma di religione primordiale. Anche i romani per esempio, o i greci, avevano questo modo di identificare gli eventi naturali con delle divinità: Giove che tuona, Giove che fulmina e così via.
Intesi però più che altro come simboli, non come divinità da adorare. Ma sono simboli, appunto, primitivi, nel senso che appartengono a un livello primordiale del pensiero. A un certo punto, molti si sono accorti che non c'è bisogno di postulare delle divinità. Lucrezio, per esempio e, prima di lui, Epicuro e quel genere di filosofi si sono accorti che si può in qualche modo decostruire la religione. La religione aveva ragione, nel senso di guardare alla natura, di vedere che c'erano delle regolarità, immaginare che dietro ci fossero addirittura della persone perché sembravano, appunto regolarità razionali. Però poi, le divinità si possono smantellare, e allora emerge effettivamente qualche cosa di laico, ma allora arriviamo al “De rerum natura”, non sono più gli dei dell'Olimpo. Anche se in Lucrezio, in realtà, gli dei c'erano, ma se ne stavano a casa loro, non rompevano le scatole, diciamo così. “Non venite a dirci nulla, siete lontani da noi e, soprattutto, non v'interessate a noi”, questo continuava a ripetere Lucrezio. Io oggi andrei anche più lontano: non c'è bisogno d'immaginare che dio o gli dei ci siano, e stiano là a fare non si sa bene che cosa. Tanto vale decostruire e cercare di capire la natura per se stessa, senza immaginare che ci sia qualcosa di ancora più incomprensibile come spiegazione. La natura può essere un grande insegnamento. Ma tu come la intendi? Come qualcosa di ecologico, prati verdi eccetera, o anche come il tramite con qualcosa che va oltre l’aspetto materiale? Non tanto con qualcosa che va oltre, ma soprattutto non soltanto prati verdi. Se si guarda la natura, per esempio le specie animali, ci si accorge che spesso la visione, in realtà un po' ingenua, romantica, della natura è completamente sbagliata. Ogni tanto, poi, la natura arriva a ricordarcelo con uno tsunami, con un terremoto per esempio, per citare cose che sono successe negli ultimi anni. Però la natura non è né buona né cattiva, siamo noi che le diamo dei valori. Il motto del filosofo greco Gorgia “l'uomo è la misura di tutti i valori”, in genere lo si traduce malamente con “l'uomo è la misura di tutte le cose”, ma se ne perde il senso. “L'uomo è la misura di tutti i valori” invece è una definizione estremamente sensata.
Siamo noi che attribuiamo i valori alle cose, li assegniamo in base al nostro modo umano di guardare, e allora, ecco che certe cose ci appaiono buone e altre ci appaiono cattive, che sono appunto valori. Ma non è che le cose siano buone o cattive, non è che le specie animali siano buone o cattive. Sono come sono. Perché hai scelto la matematica come campo di studio? In realtà l’ho scelto quasi per caso. Ho fatto l’istituto per geometri e mi sono diplomato nel ’69. Proprio quell’anno ci fu la riforma dell’accesso all’università, però fino alla primavera del ’69 pensavo che avrei fatto Ingegneria, perché da geometri si poteva, all’epoca, andare soltanto a Ingegneria o Architettura. E, quando poi mi diplomai, credevo che avrei continuato, appunto, a fare Ingegneria. Mio padre aveva sognato di laurearsi in Ingegneria ma con la guerra non aveva potuto, così si è poi laureato in Architettura dopo che mi sono laureato io, perché non gli andava che io mi fossi laureato e lui no, quindi studiava di sera e di mattina, e in cinque anni perfetti si laureò. Per caso, durante l’estate, su una bancarella vidi un libro di Bertrand Russell che si chiamava “Introduzione alla filosofia matematica” e io, avendo fatto geometria, non avevo studiato niente di filosofia. Questa idea di combinare filosofia e matematica mi incuriosì. Presi il libro, lo lessi e fu quasi una rivelazione. Mi sono detto “ma come? Ma se questa è la filosofia, allora è una cosa meravigliosa”, e ho deciso di andare a Matematica. Mio padre era poco convinto, perché ormai sperava di avere un figlio ingegnere, invece un matematico non si capiva bene che cosa poi avrebbe fatto. Ed è stata la mia salvezza, perché, se avessi fatto Ingegneria sarei andato a lavorare, mentre invece, facendo il matematico ho potuto fare il professore e girare il mondo e, soprattutto, fare qualcosa che mi piaceva, continuare a studiare, a leggere, a scrivere eccetera. Mi sono accorto che con la matematica ci andavo d’accordo, quindi non ho avuto grandi difficoltà all’università. Evidentemente ho trovato la mia via, ma è stato casuale, alla faccia della programmazione. Mi sembra che tu veda la matematica anche un po’ come la spiegazione ai grandi misteri dell’universo. La matematica è l’unico modo di rispondere a certe domande. Le domande le pone la filosofia, a volte anche la religione; le risposte, le dà la Scienza. Però, la Scienza parla un linguaggio, e il linguaggio della Scienza è la matematica. Senza la matematica non si potrebbero dare delle risposte precise, e la precisione è proprio ciò che rende quelle risposte interessanti, perché altrimenti tutto il resto sarebbe solo grandi parole, grandi chiacchiere filosofiche, ma non si arriverebbe molto lontano, come dimostra il fatto che la filosofia è lì da duemila anni, ma non è che abbia cambiato il mondo. Mentre invece la Scienza, da quando ha capito che bisogna usare la matematica per descrivere la realtà, ha cambiato il mondo.
Per esempio, in Italia, dall’epoca di Galileo sono passati solo quattro secoli. Pensiamo a quanto poco sia dal punto di vista storico questo intervallo di tempo, e come sia cambiato il mondo proprio grazie alla Scienza. Cento anni fa la vita media era di 35 anni. Se ora l’aspettativa di vita è di circa 90 anni, dobbiamo dire grazie alla Scienza, alla medicina, alle cure e alle prevenzioni. La medicina, se non è soltanto pratica o praticoneria, è basata ovviamente sulla chimica, sulla fisica, sulla biologia, tutte scienze che parlano il linguaggio della matematica. Quindi possiamo dire che la matematica è il linguaggio della Scienza.
In realtà è il titolo di una conferenza che fece un famoso matematico alla fine degli anni ’50, appartenente al gruppo di Bourbaki, un gruppo rivoluzionario che voleva fare una matematica nuova, che poi è quella che è entrata nelle scuole, cioè i famosi insiemi. Oggi non si insegna più ai bambini quanto fa 2+2, ma che c’è l’intersezione, l’unione degli insiemi e, naturalmente, i bambini non imparano a fare 1+1 o 2+2. E però, il grido di questo matematico, che si chiamava Dieudonné, fu appunto “abbasso Euclide”. Io l’ho adottato, ma in un senso molto diverso. I due volumi precedenti trattavano proprio la geometria euclidea. Il primo, “Una via di fuga”, era la storia della geometria fino ai greci, quindi fino a Euclide. Il secondo, “C’è spazio per tutti”, era la reazione alla geometria euclidea, quelle che poi nell’Ottocento furono chiamate le geometrie non euclidee. Ma il fatto che si dica “non euclidea” dimostra che in realtà è il contrario di quella euclidea. Nel caso delle parallele, sono geometrie in cui invece di esserci un’unica parallela a una data retta che passa per un punto, ce n’è più d’una, ce ne sono infinite. Ma sono pur sempre lo stesso impianto, sono variazioni sul tema. Invece, nel novecento la geometria è diventata una cosa completamente diversa, ci sono geometrie che non si conoscevano prima, per esempio la topologia che è una geometria fatta con la gomma, gli oggetti si deformano, mentre invece nel caso della geometria euclidea, quando li si sposta mantengono le loro caratteristiche. Oppure, i frattali, che tutti hanno perlomeno sentito nominare e così via. Ci sono geometrie finite; una retta per esempio ha infiniti punti nella concezione di Euclide e di tutti quelli che sono venuti dopo. Ormai si riescono a fare delle geometrie in cui, per esempio, ci sono solo quattro punti. Ora, cosa si può fare con quattro punti? Quando ci sono infinite cose di fronte, non si capisce nulla, è molto complicato. L’infinito è uno dei concetti più complicati, mentre invece, quando ci sono pochi punti si può effettivamente vedere. E allora, in questo senso “abbasso Euclide”, abbasso quelle geometrie di cui abbiamo parlato negli altri due volumi e viva le geometrie nuove. E poi, c’è anche un altro senso ed è che, se uno studia Euclide, sono libri molto ponderosi, un po’ pesanti, nel senso che tutto avviene in maniera assiomatica, c’è un impianto formale molto stretto e si capisce poco. “Abbasso Euclide” vuole essere anche il trionfo dell’intuizione. Se si sfoglia il libro lo si coglie subito. Ci sono centinaia di immagini. C’è l’uso delle opere d’arte per illustrare i concetti della geometria, oppure delle foto della natura. “Abbasso Euclide” nel senso che Euclide è stato fondamentale nella storia e nella geometria greca, e in generale della matematica, però si può anche fare la matematica in una maniera diversa da come la si fa a scuola, e forse questo potrebbe dare un po’ di sollievo.
Perché sei andato a fare il Cammino di Compostela, hai fatto proprio ottocento chilometri a piedi? Ci sono dei testimoni perché è venuta anche Rai Tre che ci ha ripresi. Ci abbiamo messo 33 giorni. Ci sono andato perché il direttore di Radio Due e Radio Tre, cioè Sergio Valzania, mi aveva sfidato, diciamo così, in una trasmissione. Lui è un cattolico molto praticante, molto credente e l'idea di andare con un ateo a discutere su questo cammino poteva essere interessante, infatti lo è stato. Abbiamo fatto una trasmissione, ogni giorno trasmettevamo, e poi abbiamo pubblicato un libro. In realtà, lui ha fatto la staffetta, è venuto per dieci giorni, poi a metà percorso mi ha fatto raggiungere da Franco Cardini, che è uno storico molto interessante tra l'altro. Ha scritto dei bellissimi libri sul Graal... Sì, lui si interessa molto di esoterismo. Ma io il Cammino l’ho fatto tutto, mentre loro hanno fatto la staffetta... Cosa ti ha dato quest'esperienza? E cosa ti aspettavi? Quando sono arrivato avevo male ai piedi naturalmente, quindi questo m'ha dato ma non solo: mi si è incarnita un'unghia proprio l'ultimo giorno, quindi per una settimana non riuscivo manco a muovermi e dentro di me dicevo “ma guarda, se capitava qualche giorno prima avrei fatto una figuraccia”. Ma mi ha dato anche altre cose. Per esempio dal punto di vista della natura, nei boschi di eucalipti, oppure nella Galizia o nelle mesetas tra Burgos e Leon. Bellissimo. A me è sempre piaciuto camminare in montagna o fare sport, ma quando viviamo in città non lo facciamo in maniera così sistematica. Il fatto che per un mese non sali su una macchina, continui a camminare lontano il più possibile dalle strade (non sempre, perché purtroppo il cammino a volte passa vicino alle strade), è una sensazione molto interessante, si comincia a percepire la vita e anche il ritmo della vita in una maniera diversa. L'hai fatto come una cosa un po' curiosa, folcloristica, ma non ti è arrivata la fede, l'illuminazione. Non mi è arrivata la fede, no, anche se Valzania temo che ci sperasse. 1 - continua
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