Megalitismo

Tecnologia segreta del megalitismo

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04 Ottobre 2022
Veduta parziale dell’area del sito megalitico di Puma Punku, in Bolivia
Veduta parziale dell’area del sito megalitico di Puma Punku, in Bolivia


Più volte le pagine di questa rivista hanno dato spazio a quel fenomeno archeologico planetario davvero misterioso che è il megalitismo. Solleva tanti di quegli enigmi sia tra i ricercatori amatoriali affascinati dall’indagine della storia umana non convenzionale, sia tra gli scienziati addetti ai lavori che si trovano di fronte un gran bel rebus quando indagano sulle sue origini, sugli artefici, sulle funzioni, sulla datazione, tutti elementi ai quali non sanno dare risposte certe.

Eppure il megalitismo è li davanti agli occhi di tutti, in ogni angolo del pianeta, ad ogni latitudine, ad ogni altitudine, e persino nel sottosuolo e nelle profondità marine.

La sua diffusione planetaria è senz’altro il primo elemento misterioso che si incontra quando lo si studia. Rimane un grandissimo enigma come, in un lasso di tempo che si snoda dal paleolitico al neolitico per terminare verso la metà del Bronzo Antico, si sia potuto espandere in tutti i continenti. Questo è il primo fenomeno a cui la scienza non trova risposta, e l’unica spiegazione che finora sembra plausibile è che il cosiddetto “uomo delle caverne”, descritto dal luogo comune come un selvaggio troglodita vestito di pelli dedito solo alla sopravvivenza, non fosse propriamente tale e avesse bensì sviluppato una civiltà molto progredita sotto il profilo sociale, religioso e della comunicazione.

Civiltà che a sua volta solleva, come in un incastro di scatole cinesi, la questione di come una cultura così complessa possa essersi sviluppata quasi improvvisamente dal nulla al termine dell’ultima glaciazione. Uno scenario possibile come risposta a questo interrogativo, anche perché supportato da numerosi indizi paleontologici e archeologici messi in luce dalla ricerca non convenzionale, che sconfina nel mito universale delle grandi civiltà scomparse che hanno calpestato il pianeta in tempi antidiluviani… ma questo è un altro discorso che merita un approfondimento dedicato.

 Gigantesco monolite nelle adiacenze di Balbeek ancora parzialmente interrato nella cava di estrazione
Gigantesco monolite nelle adiacenze di Balbeek ancora parzialmente interrato nella cava di estrazione

Ad ogni modo proprio in virtù dello sviluppo culturale raggiunto questa civiltà megalitica era in grado di spostarsi molto facilmente in lungo e in largo sul pianeta e per questo motivo noi oggi constatiamo stupiti l’esistenza di monumenti, reperti archeologici, elementi culturali molto simili, se non proprio identici tra loro, appartenenti però a civiltà molto distanti nello spazio e nel tempo.

Già solo per questo aspetto inspiegabile, senza considerare gli altri misteriosi elementi che lo caratterizzano, come ad esempio la tecnologia sconosciuta che vi sottende, il megalitismo dovrebbe essere studiato come un vero e proprio OOPART.

Con questo termine, acronimo di Out Of Place Artifacts, ci si riferisce alle “anomalie storiche” con cui alcuni ricercatori, detti anche maledetti, classificano gli oggetti impossibili, così definiti  perché non hanno alcuna relazione temporale con il contesto in cui sono stati rinvenuti e che quindi non dovrebbero esistere secondo i parametri storici convenzionali.

Esiste una gamma di questi oggetti tecnologici talmente ampia che non basterebbero 10 articoli per descriverli tutti. Dalle famose e controverse Pietra di Ica, al meccanismo di Antikitera, dalla Pila di Badgad, ai Nomoli, fino alle microscopiche spirali metalliche risalenti a più di 100.000 anni fa ritrovate in Russia, ecc. ecc.

Tuttavia il megalitismo nella sua essenza rappresenta qualcosa di molto più complesso, paradossalmente sfuggevole nonostante la sua mastodontica ingombranza.

Racchiude tantissimi aspetti perché tante sono in effetti le sfaccettature che mostra, sia sotto il profilo della funzione che del significato simbolico.

Tra i ricercatori non accademici, oltre l’oramai obsoleta concezione sostenuta dalla scienza convenzionale che i megaliti fossero nati semplicemente per una funzione funeraria, si sta facendo strada l’idea che invece avessero una funzione soprattutto religiosa, legata alla sfera del sacro, del divino, vissuta e vivificata al loro interno con il culto di Madre Terra.

Il carattere universale di questa pratica evidenzia la stretta relazione che esisteva tra megalitismo e il culto della Grande Madre, due elementi culturali che si sviluppano e camminano fianco a fianco durante la diffusione di quella primigenia civiltà unitaria.

 Terzo monolite nelle adiacenze di Balbeek nella posizione in cui fu estratto estratto della cava di estrazione
Terzo monolite nelle adiacenze di Balbeek nella posizione in cui fu estratto estratto della cava di estrazione

Oltre ad un ruolo simbolico di natura mistica i megaliti ne avevano sicuramente anche uno molto più pragmatico diretto alla catalizzazione delle energie della natura, del Cielo e della Terra, dei quali erano sempre stati considerati un naturale trait-de-union.

In questo modo venivano sfruttate le proprietà terapeutiche dei megaliti, ma anche quella di rappresentare un trampolino con la dimensione mistica “dell’aldilà” dando così vita al culto degli antenati, pratica religiosa fondamentale per la sopravvivenza della società megalitica.

Attraverso approfonditi studi condotti da autorevoli astronomi nei megaliti è stata appurata anche una funzione astronomica, con grande stupore da parte della comunità scientifica per la complessità e l’incredibile precisione con cui gli “uomini delle caverne” erano in grado di studiare, al loro interno, i fenomeni celesti.

Tuttavia questi aspetti non incontrano l’interesse della scienza ufficiale che anzi ha sempre ostentato nei confronti della civiltà megalitica un atteggiamento marginale, minimalista, additandola come un fenomeno principalmente motivato dalla superstizione e da una visione animista dell’esistenza, quindi del tutto irrazionale e istintuale; argomentazioni che stridono con l’”imbarazzante” complessità architettonica e matematica che molti monumenti megalitici mostrano, che al contrario rivelano una profonda capacità progettuale.

Inoltre rimane del tutto aperta la questione relativa all’aspetto sicuramente più misterioso e allo stesso tempo più evidente del megalitismo, un fattore che la scienza non riesce ancora a spiegare, quello della tecnologia con cui è stato prodotto.

Già, perché si può trascurare la natura e la funzione dei megaliti, ma non possiamo certo fare la stessa cosa con l’altissimo livello tecnologico che il megalitismo manifesta. Non si può ignorare il fatto che l’estrazione delle grandi pietre dalle cave, la loro lavorazione, il trasporto e la collocazione in situ furono rese possibili solamente grazie ad un know-how tecnologico avanzatissimo che la scienza dei giorni nostri, secondo il parere di molti scienziati ed ingegneri, non è in grado di mettere in campo. E’ un fatto assolutamente non trascurabile e da cui non si può prescindere se si vuole studiare con onestà intellettuale la cultura megalitica.

Sarebbe doveroso che la scienza le riconosca l’espressione di una cultura molto complessa e raffinata in grado di produrre una tecnologia avanzata, ma allo stesso tempo misteriosa per la sua provenienza e datazione.

Al cospetto, ad esempio, degli impressionanti megaliti del Trilithon di Balbeek in Libano, che compongono il basamento su cui venne eretto dai Romani il Tempio di Giove, o di quelli scoperti recentemente con enorme scalpore nella Russia centrale, a Gornaya Shoria, si rimane increduli e affascinati perché sorge la sensazione di avere di fronte opere che per le loro dimensioni di umano hanno veramente ben poco.

Anche senza ricorrere all’intervento di civiltà extraterrestri che, soprattutto in alcuni casi, molti studiosi ed autori comunque ritengono essere stati gli artefici del fenomeno megalitico, si rimane sbalorditi dall’imponenza e dalla perfezione di queste opere colossali, che invece sono state realizzate semplicemente con l’ingegno e la conoscenza umana.

La piattaforma su cui poggia il tempio di Giove, ad esempio, ha delle dimensioni incredibili e tre delle pietre che compongono la base costituiscono quello che viene appunto viene chiamato Trilithon, ossia l’assemblaggio di tre enormi monoliti, lunghi ognuno circa 20 mt con una profondità e un’altezza di circa 5 mt e dal peso che supera le 1200 tonnellate l’uno.

Anche il basamento in pietra sotto i tre grandi megaliti è costituito da diversi blocchi pesanti oltre 400 tonnellate ciascuno e larghi circa 10 mt, posizionati ad un’altezza di oltre 7 mt.

 Il basamento del Tempio di Giove a Balbeek
Il basamento del Tempio di Giove a Balbeek

Solo riflettendo sulle misure di questi giganteschi blocchi si rimane a bocca aperta, perché diventa un rompicapo cercare di capire, semmai sia possibile, come i misteriosi edificatori abbiano potuto movimentarli e posizionarli uno accanto all’altro con un livello di precisione millimetrico tale che, se non fosse per la presenza appena percettibile dei giunti verticali della pietra, sarebbe quasi impossibile distinguere la fine di un blocco e l’inizio di un altro.

Consideriamo inoltre che questi giganteschi monoliti sono stati elevati ad oltre 7 metri di altezza rispetto al livello del terreno e solo questo fattore costituisce di per sé un enigma irrisolvibile. Con l’impiego di quale tecnologia si è infatti potuto realizzare una movimentazione del genere?

Fu chiesto a riguardo un parere tecnico-scientifico a Bob MacGrain, direttore tecnico della Baldwins Industrial Services, che mise in campo la sua esperienza e i suoi macchinari per simulare lo spostamento della Ḥajjar al-Ḥibla, uno dei giganteschi megaliti ancora parzialmente interrati nella cava di estrazione di Balbek, con l’utilizzo di una gru, la Gottwald AK-912, in grado di sollevare pesi fino a 1.200 tonnellate. Il macchinario, però, risultò inutile al momento del trasporto, in quanto tali gru non possono muoversi durante il carico di un tale peso, dunque, per farlo sarebbe stata necessaria una macchina dotata di cingoli.

Un’altra simulazione di movimentazione dei blocchi è stata fatta recentemente nell’area della Piana di Giza, documentata con un video che è diventato virale in rete, in cui si riprende una prova di carico eseguita su un autocarro di grande portata di un blocco di pietra gigantesco, anche se non delle dimensioni di quelli del Trilithon, del peso equivalente a quelli impiegati nelle piramidi.

E’ sconvolgente osservare cosa accade al veicolo non appena il masso viene posato con una enorme gru sul vano di carico: si è letteralmente accartocciato su se stesso ed è stato scaraventato in un burrone.

Queste sperimentazioni simulate ci danno un’idea precisa di quanto sia estremamente complicato anche ai giorni nostri intraprendere movimentazioni di quella portata, quindi figuriamoci quanto lo deve essere stato allora senza l’impiego, secondo il pensiero comune, di mezzi tecnologici.

Allo stesso tempo mettono profondamente in discussione le spiegazioni fornite dagli archeologi accademici, in primo luogo quello dell’utilizzo di funi e tronchi di legno per spiegare come avveniva il trasporto e la collocazione dei grandi megaliti: come avrebbero potuto le funi reggere lo strappo o i tronchi di legno il peso di più di 1.000 tonnellate?

 Struttura megalitica scoperta in Russia, a Gornaya Shoria, Urali dalle dimensioni impressionanti. Notare le misure del portale
Struttura megalitica scoperta in Russia, a Gornaya Shoria, Urali dalle dimensioni impressionanti. Notare le misure del portale

Tornando ai megaliti di Balbeek è in dubbio che la loro presenza rappresenti un bel mistero che però gli archeologi e gli studiosi accademici minimizzano perché sostengono che in realtà si tratti di un’opera che va attribuita ai Romani. Nonostante sia vero che essi erano in grado di trasportare monoliti di circa 300 tonnellate, come fecero con gli obelischi, questo non significa che fossero altrettanto capaci di scolpire, estrarre dalla roccia e movimentare blocchi quasi cinque volte più grandi degli obelischi.

Come se non bastasse lo stupore prodotto dal Trilithon, si rimane altrettanto sbalorditi dalla presenza a meno di 1 km di distanza da esso di altri tre colossali monoliti scolpiti alla perfezione ma lasciati misteriosamente incompiuti nella roccia della cava come fossero in procinto di essere estratti.

Le dimensioni di questi blocchi sono inverosimili perché il terzo di questi, rinvenuto nell’estate del 2014 è un sensazionale e smisurato monolite chiamato “La pietra di Janeen”, lungo 20 mt, largo quasi 6 mt e profondo oltre 5 mt, dall’incredibile peso di oltre 1.600 tonnellate, ed è il più grande blocco di pietra esistente sulla faccia della Terra, al cui confronto l’enorme menhir bretone Grand Brisé, che giace spezzato in quattro monconi ma che quando era eretto misurava 20 metri di altezza  pur pesando quasi 5 volte meno, sembra una piuma.

Gli altri due menhir ancora sepolti non sono da meno visto che il primo, il più famoso, conosciuto come Ḥajjar al-Ḥibla, “la roccia della partoriente”, è davvero impressionante: lungo più di 20 metri, ha un peso stimato di oltre 1.100 tonnellate.

Nella stessa cava fu rinvenuto l’altro monolite dalla forma perfettamente rettangolare, e con un peso stimato di 1.200 tonnellate, così da renderlo addirittura più pesante del primo.

Alla luce di questi valori, e considerando anche la datazione che le viene attribuita, la posa in opera della gigantesca piattaforma di Balbeek sembra proprio che non possa essere ricondotta a nessuna cultura nota, tanto meno ai Romani, a meno che non si tiri in ballo una sconosciuta civiltà dalle avanzatissime capacità tecnologiche in campo ingegneristico.

Questa affascinante ipotesi però ci riconduce al punto di partenza perché inconciliabile con la posizione della scienza che nega con cieca fermezza che all’epoca delle piramidi potesse esistere una forma di civiltà con una tecnologia così avanzata, che oltretutto risulterebbe addirittura superiore alla nostra.

Certo non ci sono risposte definitive in grado di dirimere questo intrigante dilemma ma sicuramente la questione meriterebbe di essere indagata con un ben altro spirito scientifico ed interesse, poiché questo monumento “impossibile” in realtà e lì sotto i nostri occhi e la cascata di domande che la sua presenza pone non può essere ignorata dalla scienza.

 Monolite gigantesco scoperto in località Gornaya Shoria, Urali
Monolite gigantesco scoperto in località Gornaya Shoria, Urali

Il mondo delle leggende e delle antiche tradizioni avrebbe in realtà una risposta molto semplice sul modo in cui i grandi megaliti vennero movimentati; infatti risolvono il mistero chiamando in causa l’esistenza dei giganti, mitici esseri di natura semidivina che avrebbero popolato il pianeta in epoca prebiblica e unici esseri viventi ad avere le caratteristiche fisiologiche compatibili con imprese così colossali.

Le leggende locali libanesi fanno riferimento alle citazioni presenti anche nella Bibbia, ad esempio nel Libro dei Numeri, a riguardo l’esistenza di questa stirpe gigantesca.

L’era a cui fanno riferimento questi racconti popolari corrisponderebbe a quella della costruzione del tempio di Salomone, e la datazione verrebbe confermata dalla presenza nelle fondamenta di questo edificio di una piattaforma megalitica, conosciuta come “Pietra Occidentale, sicuramente assimilabile alla tecnologia del Trilithon del Tempio di Giove, anche questa di dimensioni pazzesche e considerata uno degli oggetti più pesanti mai sollevati dagli esseri umani.

Eppure il Trilithon di Balbeek per quanto impressionante per le sue dimensioni, non è il maggiore monumento megalitico del pianeta. Si rimane increduli di fronte alla notizia che recentemente è venuto alla luce un complesso megalitico nella Russia centrale, a Gornaya Shorya in prossimità della catena montuosa degli Urali, di gran lunga più imponente di Balbeek.

Le straordinarie immagini di questo sito megalitico lasciano davvero attoniti e di fronte all’imponenza senza uguali dei monoliti ritrovati si arriva quasi a dubitare che la civiltà umana sia in grado di edificare strutture del genere. Pongono inoltre l’annosa questione sul perché e con quali vantaggi venivano erette strutture del genere.

In fondo che cosa ci raccontano questi monumenti? Come li possiamo spiegare?

Non abbiamo alcun tipo di risposta a queste domande ma possiamo solo prendere atto che le tante spiegazioni fornite finora dagli scienziati, studiosi e archeologi non sono affatto esaustive, anche perché vengono elaborate come se si riferissero a pochi casi isolati, trascurando che invece  si tratta di un fenomeno diffuso in ogni parte del mondo.

L’America andina, ad esempio, ne è particolarmente ricca: sono note a tutti le stupefacenti muraglie ciclopiche di Cuzco, di Sacsayhuaman, di Ollantaytambo, ma è nel sito boliviano di Tihuanaco, e precisamente a Puma Punku, non lontano dalla celebre Porta del Sole, che sono presenti gli elementi megalitici più enigmatici del pianeta.

Si tratta di numerosi blocchi a forma di H che oggi si trovano inspiegabilmente dispersi a terra ma viene spontaneo domandarsi se forse una volta componevano o appartenevano a una qualche struttura immensamente più grande, altrimenti che senso avrebbero?

 Monolite dalle dimensioni pazzesche rinvenuto all’interno dell’area megalitica di Gornaya Shoria, Urali
Monolite dalle dimensioni pazzesche rinvenuto all’interno dell’area megalitica di Gornaya Shoria, Urali

Questi blocchi costituiscono un bel rompicapo per la scienza per una serie di motivi: innanzitutto sono tantissimi e disposti sul terreno in formazioni allineate, tutti identici fra loro, come se fossero degli elementi prefabbricati. Può essere possibile un’ipotesi così ardita?

E soprattutto quale poteva essere la loro funzione dal momento che pesano diverse decine di tonnellate ognuno? E ancora, come si spiega la precisione millimetrica dei suoi blocchi, tutti della stessa grandezza come fossero stati prodotti in serie con una specie di stampo?

Hanno suscitato l’ammirazione e lo stupore di diversi ingegneri dei giorni nostri che interpellati in merito alla loro natura e scopo non hanno saputo rispondere ma hanno comunque riconosciuto la difficoltà che oggi incontreremmo nel riprodurre strutture analoghe.

Come spiegare inoltre le scanalature perfettamente levigate presenti sui blocchi che in alcuni casi non superano il decimo di millimetro, i fori di estrema precisione disposti simmetricamente sulle facce, una serie di scanalature estremamente regolari modellate per ospitare le grappe di giunzione tra i blocchi? Una serie di elementi, insomma, che lascerebbero pensare fossero predisposti per un assemblaggio ad incastro, forse per creare muraglie megalitiche.

Siamo al limite della fantascienza, eppure non lo è.

Queste misteriose strutture ci riservano ancora un’altra sorpresa, celata nella composizione chimica del materiale che li compone.

Comparando al microscopio elettronico la conformazione geologica di alcuni campioni di pietra prelevati dai blocchi con quella delle rocce locali si è evidenziata un’anomalia davvero sorprendente.

Oltre alla silice, che è il componente principale dell’andesite, la durissima roccia vulcanica presente nell’ambiente circostante, gli scienziati hanno scoperto che all’interno dei campioni analizzati si trova anche una materia organica a base di carbonio, un geopolimero a base di acidi carbossilici. Ciò che costituisce la misteriosa anomalia è il fatto che questo elemento chimico non dovrebbe essere presente in una roccia vulcanica naturale che si è formata ad altissime temperature, perché verrebbe naturalmente ed immediatamente vaporizzato.

Potrà sembrare assurdo ma questo elemento organico sembrerebbe di natura artificiale, e la sua presenza potrebbe essere spiegata solamente se fosse stato aggiunto al costituente base che è sabbia di andesite, allo stesso modo con cui oggi si forma un conglomerato.

Secondo il parere del ricercatore del Geopolymer Institute Ralph Davidovits in effetti la composizione che risulta dalle analisi chimica dei blocchi è quella di un cemento, ma non si tratta di un cemento moderno, bensì di uno geologico naturale ottenuto per geosintesi.

 Il cosiddetto “Muro dei 6 monoliti” presso Ollantaytambo, Perù - nell’America andina sono moltissime le testimoninaze megalitiche dalle dimensioni colossali
Il cosiddetto “Muro dei 6 monoliti” presso Ollantaytambo, Perù - nell’America andina sono moltissime le testimoninaze megalitiche dalle dimensioni colossali

E l’unica spiegazione plausibile che può essere dedotta dalle analisi, pur sembrando pazzesca, è che il conglomerato sia stato ottenuto dalla sintesi di andesite e tufo vulcanico proveniente probabilmente dal vicino vulcano Cerro Kapia, in Perù; il composto è stato poi amalgamato da un legante organo-minerale a base di acidi organici naturali estratti da piante locali e altri reagenti naturali.

Un’ipotesi del genere troverebbe un inaspettato riscontro in alcune antiche leggende andine che raccontano come le grandi pietre fossero realizzate grazie ad un antichissimo procedimento tradizionale che utilizzava dei misteriosi estratti vegetali in grado di ammorbidire la pietra. Tracce dell’uso di una tecnica simile sono presenti anche nelle cronache di viaggio redatte da diversi esploratori occidentali giunti in queste terre nell’’800 in cui affermano di aver assistito direttamente, e con grandissimo stupore, a questa pratica indigena.

Se ammettessimo per attimo l’attendibilità di questa narrazione potremmo immaginare che l’impasto cementizio una volta amalgamato poteva poi essere colato in appositi stampi e lasciato indurire, ottenendo così quella perfezione costruttiva che caratterizza quei blocchi megalitici.

C’è chi si è spinto ancora oltre, lo scienziato e viaggiatore Andrei Sklyarov, un talentuoso fisico, scrittore e ingegnere russo scomparso nel 2016, laureato alla Facoltà di Aeromechanics e Aircraft di Mosca, dotato di una mente libera fuori dagli schemi accademici che ha condotto studi molto approfonditi anche in campi che esulavano dalle sue competenze come le antiche tradizioni.

Era infatti convinto assertore che nell’era antidiluviana il pianeta abbia ospitato una grandissima civiltà tecnologica poi scomparsa, la cui conoscenza superiore fu preservata e diffusa per millenni in ogni angolo del mondo.

Ispirato da questo filone di ricerca egli compì studi molto approfonditi anche sulla civiltà andina e in particolare, grazie alle sue conoscenze fisiche e sperimentali, si dedicò a scoprire la tecnologia  che rese possibile l’edificazione della famosa città inca di Machu Pichu, individuando per primo l’esistenza di due periodi costruttivi ben distinti e separati, quello più recente riconducibile all'imperatore Inca Pachacutec intorno al 1400 d.C., e uno molto ma molto più antico che, come narrato nelle leggende locali, risalirebbe alla mitica figura di Viracocha, ritenuto dagli studiosi un personaggio di stirpe atlantidea che approdò in queste terre dopo la lunghissima migrazione intrapresa a causa della distruzione di Atlantide.

Sklyarov ricostruì le vicende del popolo megalitico andino partendo dall’ipotesi che le strutture ciclopiche da esso edificate furono realizzate con un procedimento che sembrerebbe analogo a quello individuato e descritto dal ricercatore Ralph Davidovits.

 Il famosissimo muro ciclopico situato a Sacsayhuaman, nei pressi di Cuzco, Perù
Il famosissimo muro ciclopico situato a Sacsayhuaman, nei pressi di Cuzco, Perù

Anche in questo caso gioca un ruolo di primo piano la presenza di un vulcano attivo nelle vicinanze del lago Titicaca da cui riteneva che i costruttori andini ricavassero la roccia vulcanica fusa che veniva poi additivata con altri elementi minerali e infine colata in appositi stampi per produrre i megaliti. Non esistono certezze sull’impiego di una tecnica del genere, tuttavia è significativo il fatto che sono stati rinvenuti nella zona diversi stampi molto antichi in ceramica e argilla per pietre da costruzione, per blocchi di pietra megalitici e ordinari ed esiste ancora oggi un enorme forno costruito con pietre megalitiche per bruciare prodotti di argilla.

Questa tecnologia basata sull’attività vulcanica potrebbe essere stata utilizzata per costruire molti dei manufatti megalitici del mondo.

L’utilizzo di “pietra liquida, secondo lo scienziato russo,” avrebbe permesso di realizzare le stupefacenti e fantastiche murature poligonali giunte sino a noi.

In sostanza gli antichi avrebbero creato i blocchi megalitici sul posto, versando questo cemento ante-litteram in appositi stampi ovviando così alle problematiche rompicapo legate al trasporto, al taglio di precisione, alla posa in opera, alle quali la scienza non è mai stata capace di dare risposte.

La teoria di Davidovits non è solo il frutto di una sua congettura ma in effetti sembrerebbe trovare riscontro su quanto riportato nella famosa "Stele della Carestia", un reperto trovato sull'isola Sechel in Egitto e datata circa 200 a.C., dove vengono descritti con estrema precisione i minerali necessari e il luogo dove reperirli per realizzare la pietra “sintetica” usata nella costruzione dei grandi templi.

Peraltro, all'interno di un blocco calcareo della Grande piramide sono state rinvenute fibre organiche e bolle d'aria, insieme a pezzetti d'intonaco rosso. Non solo, all’interno di alcuni blocchi il senso della disposizione delle piccole conchiglie fossili presenti non segue il naturale allineamento orizzontale che avrebbe dovuto assumere con la sedimentazione degli strati in fondo al mare avvenuta nel corso di milioni di anni, ma risulta disordinata e molto casuale.

Appare quindi molto strano che la tipica conformazione geologica lamellare delle rocce contenenti fossili non si riscontri anche all’interno dei blocchi della piramide e che le conchiglie fossili siano invece disposte casualmente; questa constatazione inequivocabile sembrerebbe dimostrare la natura artificiale della pietra. In qualsiasi calcestruzzo, infatti, l’impasto viene riaggregato e, di conseguenza, è privo di strati sedimentari.

Davidovits è anche riuscito, in barba allo scetticismo della comunità scientifica classica, a ricreare in laboratorio una sorta di questo calcare riagglomerato, confermando sperimentalmente la validità di questa ipotesi ardita.

D’altronde anche gli storici classici vengono in sostegno a questa affascinante teoria.

 Allineamento delle strutture monoblocco di cui si ignora la funzione all’interno dell’area archeologica di Puma Punku, Bolivia
Allineamento delle strutture monoblocco di cui si ignora la funzione all’interno dell’area archeologica di Puma Punku, Bolivia

Erodoto infatti, parlando della costruzione delle piramidi egiziane non affermò mai che la muratura del nucleo fosse realizzata in pietra calcare locale, e che i blocchi della piramide erano ricavati dalla nuda roccia. Egli descrisse che le pietre (quindi non necessariamente blocchi estratti) furono portate sul luogo dalla sponda orientale del Nilo e riporta dettagliatamente la procedura di collocazione dei blocchi: dopo averli sollevati con l’impiego di macchine e posti all’interno di una sorta di stampo venivano collocati uno alla volta ad altezze progressive usando ogni volta, nel passaggio verticale, un appoggio provvisorio ricavato con dei gradoni sui fianchi della piramide.

Questa tecnica apre uno scenario affascinante perché dimostrerebbe che i blocchi delle piramidi egizie non erano di pietra naturale estratta dalle cave ma di un calcestruzzo artificiale di alta qualità composto essenzialmente dal 90-95% circa di detriti di pietra calcarea e dal 5-10% di cemento, e questo potrebbe anche spiegare i tempi di esecuzione delle piramidi che sono stimati essere stati stranamente molto brevi in relazione all’immane mole del lavoro.

L’analisi approfondita della materia costituente i blocchi della piramide di Chefren ci fornisce degli indizi significativi a riguardo.

Osservando la natura della roccia dell’Altopiano di Giza si nota la tipica conformazione a strati sedimentati. Proprio questa costituzione lamellare rende impossibile tagliare la pietra in dimensioni perfettamente uniformi, senza rischiare di fratturarla e sbriciolarla lungo i piani degli strati.

Sembrerebbe quindi strano che i blocchi con cui venivano erette le piramidi fossero composti di roccia calcarea con numerose inclusioni di conchiglie fossili, perché questa combinazione lo rende un materiale eterogeneo molto difficile da tagliare con precisione.

 Particolare dell’Osireion di Abydos - si notino dimensioni dei singoli blocchi megalitici
Particolare dell’Osireion di Abydos - si notino dimensioni dei singoli blocchi megalitici

Esaminando più attentamente i blocchi della piramide, si nota che gli strati superiori della maggior parte di essi presenta un’alveolizzazione, dovuta ad un processo di degrado.

I livelli deteriorati sembrano per questo motivo delle spugne. Lo strato inferiore, più denso, invece non mostra lo stesso fenomeno e va considerato che in un impasto di calcestruzzo le bolle d’aria e un eccesso di legante acquoso tendono a salire in superficie conferendo allo strato superiore una costituzione più debole e leggera.

Inoltre è stato riscontrato che nei blocchi lo strato superiore rimane più o meno sempre della stessa dimensione, indipendentemente dall’altezza del blocco, un fenomeno di natura fisico- meccanica analogo a quello che avviene nelle gettate di calcestruzzo all’interno di casseforme.

La presenza nei blocchi di parti superiori erose dalle intemperie e molto fragili si riscontra in tutte le piramidi e i templi di Giza e quindi ciò potrebbe indicare che gli elementi costruttivi non sono di pietra naturale scolpita ma di un conglomerato cementizio gettato.

Quelle illustrate in questo percorso rappresentano solo alcune delle possibili tecnologie segrete del megalitismo, altre come l’impiego della levitazione acustica, un’ipotesi sempre più accreditata negli ambienti scientifici non accademici, meritano una trattazione approfondita separata. Comunque anche solo alla luce degli elementi fin qui trattati diventa sempre più viva la sensazione che il megalitismo sia un fenomeno davvero misterioso, di cui si conosce molto poco, e per quel che si riesce a capire costituisce un vero e proprio OOPART, il più grande e sotto gli occhi di tutti.


Marco Pulieri, ricercatore della Ecospirituality Foundation, conduce la trasmissione “Archeomistery World” su Radio Dreamland www.radiodreamland.it



 

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