Megalitismo

I megaliti del Caucaso

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23 Luglio 2021
Vishap antropomorfizzato
Vishap antropomorfizzato

Dal mito degli Argonauti alla Porta magica di Roma sulle orme della antica scuola alchemica del Mar Nero


Il rapporto tra megalitismo e alchimia.

Alla scoperta del Caucaso, una terra ancestrale ricca di miti e di testimonianze della grande civiltà perduta del Mar Nero.

Il Vello d’Oro, una versione medio orientale del mito del Graal?


Sono davvero tantissimi i luoghi sparsi sul pianeta che conservano antichissime vestigia megalitiche affascinanti e misteriose, ma uno in particolare, rispetto a quelli più blasonati dei siti neolitici europei, merita uno studio approfondito perché poco noto ma tuttavia capace di riservare parecchie sorprese.

Stiamo parlando della regione caucasica, una delle più antiche del mondo, da sempre la cerniera culturale tra l’Oriente e l’Occidente.

Se ci si addentra nella cultura, nella storia e nelle antiche tradizioni che animano quella terra,

si rimane stupiti incontrando la ricchezza di testimonianze megalitiche imponenti e bellissime, e una cultura tradizionale talmente antica da perdersi nella notte dei tempi.

Un fascino tale che ci obbliga a superare quel luogo comune che associa il megalitismo a Stonehenge e ai paesi celtici del Nord Europa.

I megaliti infatti sono ovunque. È un fenomeno di portata planetaria la cui origine e natura mette in imbarazzo gli storici e gli archeologi assertori della storia e delle civiltà accademiche; quindi non potevano mancare nella regione caucasica.

Attraversando la Georgia, che ne rappresenta una porzione consistente, ho potuto scoprire che stavo calpestando una terra mitica, colma di magia, teatro di avventure e leggende senza tempo.

Sicuramente tra queste il mito della Colchide, la meta ambita di Giasone nel mito greco degli Argonauti, riveste un ruolo di primo piano; uno dei miti universali più affascinanti e sicuramente tra quelli intramontabili.

Era la terra in cui veniva custodito il leggendario Vello d’Oro che doveva essere recuperato da Giasone come dimostrazione di coraggio per poter aspirare alla riconquista del trono della sua città natale che gli spettava di diritto dopo che lo zio lo aveva usurpato al padre.

La Porta alchemica di Roma, Piazza Vittorio
La Porta alchemica di Roma, Piazza Vittorio

Il Vello d'oro è un oggetto presente nella mitologia greca che si dice avesse il potere di curare ogni ferita, è quindi un oggetto dotato di poteri terapeutici e dispensatore di benessere.

Si tratta, secondo il mito, del manto dorato di Crisomallo, un ariete alato capace di volare che Ermes donò a Nèfele, sposa del re Atamante di Iolco in Tessaglia. Sul suo dorso l’ariete riuscì a portare in salvo uno dei figli di Nefele, Fresso, nella mitica città di Ea.

Qui egli donò al re di quella città, Eeta, in cambio dell’ospitalità ricevuta, il vello d’oro ricavato dal sacrificio (simbolico) del sacro ariete, che fu preso in consegna dal sovrano e messo al sicuro in un bosco sacro con a guardia un terribile drago. Il mito degli Argonauti prosegue a grandi linee con le gesta eroiche di Giasone che appunto deve recuperare il prezioso vello dorato, iniziando così un lunghissimo e avventuroso viaggio verso terre lontane in cui dovette affrontare eroicamente prove durissime, tra le quali quella che più ci interessa da un punto di vista simbolico, è senz’altro la lotta con il drago. Ci torneremo più avanti per comprenderne il significato.

Riuscì alla fine della sua avventura, ma non ne avevamo dubbi, a conquistare la preziosa reliquia.

Viene da sé che questo bellissimo mito non è solo una avvincente narrazione delle gesta epiche di uno dei tanti eroi greci, ma racchiude un significato simbolico, esoterico, molto profondo.

Se ci pensiamo bene ricalca per certi versi il mito del Graal: abbiamo infatti un oggetto aureo prezioso dai poteri magici e terapeutici che in un certo momento storico viene messo al sicuro in una terra lontana, custodito da una stirpe regale. L’impresa degli Argonauti e la figura di Giasone hanno delle similitudini con le gesta cavalleresche dei cavalieri del Graal, anche loro alla ricerca di un tesoro perduto di incommensurabile valore.

In entrambe le saghe emerge la figura di un personaggio eroico e puro che deve dimostrare di essere degno di ricevere il prezioso dono. Insomma stiamo sicuramente parlando di un viaggio iniziatico, che poi è la reale natura del ciclo cavalleresco arturiano e allo stesso tempo del percorso evolutivo e di crescita che intraprende Giasone, che tra le sue mille peripezie oltre al drago deve riuscire a domare due tori infuriati, impresa a cui non poteva sottrarsi se avesse voluto misurarsi con la conquista del vello d’Oro.

Dolmen del Caucaso in cui è ben visibile il monolite forato d’ingresso
Dolmen del Caucaso in cui è ben visibile il monolite forato d’ingresso

Chiari anche qui i riferimenti esoterici al raggiungimento di una condizione spirituale accessibile solo dopo aver superato la faticosa dimensione limitante della mente e della materia, metaforicamente rappresentati dalla figura dei tori.

Ma perché è così importante il mito di Giasone ai fini di una ricerca sui megaliti del Caucaso? Può sembrare strano ma in realtà esiste un nesso molto stretto, una relazione che ci conduce attraverso la chiave interpretativa esoterica del mito ad affacciarci sui misteri dell’antica scienza alchemica.

Ma per intraprendere e capire questa esegesi prima dobbiamo fare un salto nel tempo e giungere nella Roma seicentesca, al cospetto della famosa Porta Alchemica o magica di Piazza Vittorio, intrinsecamente legata alla vita e agli interessi segreti del Marchese di Palombara, noto appassionato di alchimia insieme alla regina Cristina di Svezia che a metà del 1600 possedeva una sontuosa villa nell’area dell’attuale grande piazza romana.

Sembra che il grande giardino della sua villa fosse costellato di lapidi con incise epigrafi dal significato misterioso. In realtà tutte erano ispirate e dedicate alla scienza alchemica.

Eccoci dunque di fronte ad un primo indizio sul sentiero della comprensione del mito degli Argonauti: su alcune di queste lapidi sono infatti riportati dei versi alchemici ispirati proprio alla figura di Giasone.

“Attraversando la porta della Villa, Giasone aprendola ottiene il ricco vello di Medea”.

Medea sappiamo dal mito essere una maga, figlia del re Eeta che con un incantesimo aiuta Giasone a vincere il potente drago che era a custodia del Vello.

Un’altra iscrizione e precisamente quella posta sull’architrave della porta alchemica del Palombara recita “Il drago esperio custodisce l’ingresso del magico giardino e senza Alcide, ossia Ercole, Giasone non avrebbe gustato le delizie della Colchide”.

Dolmen del Caucaso – a differenza di quelli dell’Europa Occidentale hanno una forma quadrangolare
Dolmen del Caucaso – a differenza di quelli dell’Europa Occidentale hanno una forma quadrangolare

Ritroviamo dunque il drago che avevamo incontrato all’inizio, e da queste parole possiamo intuire che la sua funzione è quella di custode di un tesoro, potremmo dire una conoscenza, come del resto avviene in tantissimi miti appartenenti a diverse antiche tradizioni del pianeta.

Ecco perché per accedere al prezioso oggetto bisogna affrontare il suo custode.

L’aggettivo esperio si riferisce all’Esperia che è proprio l’antica regione oggi corrispondente alla Georgia, quindi alla Colchide, e ancora troviamo in un’altra epigrafe nel giardino alchemico del Palombara questa frase: “nella valle di questa villa, dove una palizzata racchiude il vello”.

Di nuovo quindi un chiaro riferimento al Vello.

Perché dunque il Marchese di Palombara presta così tanta attenzione al mitico oggetto custodito da un drago nella Colchide e alla celebre impresa degli Argonauti?

A cosa vuole alludere Palombara descrivendo il proprio giardino come un luogo dove si custodisce il favoloso Vello?

Nel cercare di risolvere il fitto mistero ci viene inaspettatamente incontro la letteratura bizantina: in un manoscritto della fine del X secolo l’autore infatti attribuisce al vello d’oro un significato totalmente diverso da quello correntemente indicato, secondo il quale era in realtà un manoscritto in cui si insegnava a fabbricare l’oro con l’arte chimica, e per questo motivo gli antichi libri chiamarono giustamente questo scritto il Vello d’oro, in riferimento all’Arte regia che esprimeva.

In sostanza, questo fatto ci fa sapere che gli antichi erano già esperti nella generazione artificiale dell’oro, e che la finzione allegorica dei miti pagani celava il sapere ermetico e alchemico simbolicamente racchiuso nel concetto del Vello.

Dolmen del Caucaso a pianta circolare – un unicum nel mondo megalitico planetario
Dolmen del Caucaso a pianta circolare – un unicum nel mondo megalitico planetario

Nel corpo di questa leggenda è presente un dettaglio molto importante e significativo, ossia che fu il dio Hermes in persona a trasformare in oro il vello.

Poiché con il termine Hermes nell’antica Grecia ci si riferiva alla figura di Ermete Trismegisto, che significa "Ermete il tre volte grandissimo", equiparato nella sua grandezza al dio egizio Thot, e poiché sappiamo anche che la dottrina ermetica secondo la tradizione prese vita proprio da Ermete con sua Tavola Esmeraldina, risulta naturale associare al simbolismo del Vello d’Oro una matrice alchemica.

Del resto nei secoli XVI e XVII il Vello d’oro è per lo più identificato con la ‘materia’ sublimata dagli alchimisti, mentre le prove degli Argonauti sono poste in relazione con il magistero, così come Giasone ed Ercole diventano l’emblema, il simbolo dell’eroe iniziato alle prese con le ‘fatiche’ della Grande Opera alchemica.

L’esegesi mitologica del Vello d’Oro ci porta dunque a concludere che nella terra della Colchide da tempi arcaici doveva esistere, anzi forse ne è stata proprio la culla, una precisa tradizione ermetica, una scuola alchemica che non si è esaurita con la conclusione dell’impresa degli Argonauti, ma si è mantenuta e trasmessa viva ed integra nel corso dei millenni fino a giungere nella nostra era moderna, tanto che appunto il marchese Palombara, come abbiamo visto, si ispira e dedica ad essa la sua villa e il suo laboratorio segreto.

Non solo, è possibile fare un ulteriore collegamento storico sull’antichissima tradizione che si tramandava, chissà da quanto tempo, nella regione caucasica che, non va dimenticato, geograficamente si snoda proprio a partire dalle coste del Mar Nero.

Sono ormai tantissimi gli indizi storici, archeologici e mitici che indicano in tempi remoti l’esistenza di una cultura un’avanzatissima nel suo bacino, culla della civiltà europea e non solo; una civiltà che molti studiosi e ricercatori odierni vedono come una diretta erede della perduta Atlantide.

Dolmen del Caucaso in cui è ben visibile l’estrema finezza delle decorazioni incise
Dolmen del Caucaso in cui è ben visibile l’estrema finezza delle decorazioni incise

Sappiamo che da questa civiltà, che molti associano appunto all’Età dell’Oro, sono discesi i mitici Pelasgi che dopo il diluvio universale, secondo le leggende e le antiche tradizioni, furono costretti a migrare in tutto il pianeta, portando con sé la sacra arte megalitica.

Ed inoltre, a proposito di diluvio, non possiamo fare a meno di notare che il mito colloca sul Monte Ararat l’approdo della leggendaria Arca di Noè, sopravvissuta al diluvio stesso, guarda caso proprio nella regione caucasica.

Quel famoso diluvio da cui appunto fuggì la grande civiltà del Mar Nero.

Diventa molto interessante e intrigante cercare allora di capire se esista una qualche remota e misteriosa relazione tra la storia tradizionale della Colchide, condensata nel mito del Vello d’Oro, e le scoperte archeologiche recenti avvenute in questa regione, che hanno portato in luce numerosissime stele di basalto che mostrano scolpite raffigurazioni proprio del vello caprino.

Un fatto puramente casuale? sembra difficile crederlo, mentre appare molto probabile che questo dettaglio abbia un significato ben preciso.

Si tratta del rinvenimento di monoliti verticali di basalto, alti fino a 5 metri di altezza.

I vishap, cosi sono chiamati nella lingua locale che significa “drago”, un elemento che sicuramente cattura subito la nostra attenzione, erano in origine dei monumenti solitari, semplici menhir eretti con la faccia principale rivolta verso nord-est.

L’iconografia scolpita su questi monoliti esprime esclusivamente due tipi di raffigurazioni: la prima riguarda il vello di un capride, e qui non possiamo fare a meno di associarla al possibile ricordo di qualche remota pratica religiosa incentrata su questo elemento simbolico, che abbiamo visto era ben attestato nella regione; il secondo tipo di stele è lavorata a tutto tondo e ha la forma di pesce, con branchie e pinne ma la testa sauroide, che rievoca immediatamente la figura del mitico dio pesce babilonese Oannes, dispensatore di conoscenza che viveva di giorno con il popolo mesopotamico per poi tornare nelle acque la notte.

Il secondo culto in virtù dei suoi elementi caratteristici è correlato all’immagine di un animale sacro delle sorgenti montane, che viene spontaneo identificare di nuovo nel mitico drago.

Karahunj, Armenia, particolare dell’allineamento di menhir
Karahunj, Armenia, particolare dell’allineamento di menhir

In alcuni esemplari di vishap le iconografie sono combinate, ed è rappresentato il capride sul pesce, a riprova che si tratta del medesimo fenomeno artistico e culturale.

Le leggende locali narrano che anticamente questi monti fossero dimora di draghi giganti, creature semidivine con il compito di custodire le sorgenti sacre.

Queste stele megalitiche, sono tutte dislocate ad un’altitudine molto elevata, poste tra i 2000 e i 3000 metri, e sarebbero secondo l’interpretazione più accreditata, offerte consacrate a queste creature leggendarie che abitavano queste terre.

Queste enigmatiche pietre di drago dalla testa di serpente sono caratteristiche e uniche di questi altopiani armeni, e la cosa singolare è che sono collocate isolate, lontane una dalle altre.

Hanno anche significati spirituali, secondo gli studiosi, ad esempio raffigurano miti sul dio del tuono che combatte il drago-pesce e lo sconfigge per dare acqua al mondo.

Una iconografia questa che risente sicuramente dell’influenza del cristianesimo, non dimentichiamoci infatti che la regione è fortemente cattolica tanto che è molto diffusa la figura di San Giorgio che uccide il drago, immagine che del resto non può mancare laddove il drago riveste un ruolo fondamentale nella cultura pagana radicata.

Questo elemento dell’immaginario collettivo nasce dal fatto che la figura del drago, che in tempi ancestrali aveva connotati del tutto benefici, positivi, evolutivi, perché associato alla forza cosmica da cui tutto l’universo è scaturito, all’energia evolutiva della natura che da quell’attimo primordiale non ha mai cessato di alimentare e guidare la vita dell’uomo, è stato tramutato dalla Chiesa in un concetto malefico, satanico, in un elemento involutivo e tentatore che deve essere annientato per rendere accessibile la conquista del Paradiso.

Karahunj, Armenia – cromlech
Karahunj, Armenia – cromlech

Quindi anche su questa terra pregna di credenze ed usanze pagane, che si basavano sulla magia della natura, sul contatto libero e diretto con le forze del cosmo, sull’evoluzione spirituale individuale, insomma su quel pensiero alchemico che aveva messo radici nella Colchide da tempi immemorabili, si è ripetuto l’annoso tentativo della Chiesa cattolica di sopprimerle per affermare il proprio credo religioso.

Molti monumenti megalitici, in virtù del loro carattere sacro, sono stati spesso riutilizzati in fasi successive; infatti è stato documentato il riuso di un vishap a forma di pesce al centro di un tumulo facente parte di un complesso funerario del 2100 a.C.

Questa data prova che il fenomeno dei vishap risale quanto meno al III millennio a.C., al termine del quale il significato originario dei manufatti venne completamente mutato, consentendone la ricontestualizzazione simbolica in un nuovo ordine sociale, ma il ritrovamento di alcuni reperti organici all’interno di una cavità che sembrava la fossa strutturale di fondazione di un vishap, ha permesso, attraverso l’esame al Carbonio14, di retrodatarne l’erezione al 5215- 5035 a.C., cioè più di 7000 anni fa.

Ma l’interrogativo più intrigante a questo punto è capire chi progettava l’erezione dei vishap, e soprattutto perché?

È interessante notare che l’iconografia dei vishap è abbastanza ripetitiva, presentando come abbiamo visto, due sole tipologie con pochissime varianti, pur diffondendosi su un arco geografico di diverse centinaia di chilometri, dall’Armenia alla Georgia.

Questo significa che le stele non avevano lo scopo, come accadeva spesso nelle comunità preistoriche, di evidenziare, delimitandolo, un territorio specifico con l’erezione di menhir e monoliti per attestare quindi la presenza di un determinato gruppo, differenziandolo da altri.

Al contrario, i creatori dei vishap vollero caratterizzare le stele con immagini che evidentemente avevano un potere evocativo condiviso da una popolazione composta da diverse tribù, aventi però caratteri religiosi comuni.

Un particolare della pietra forata nei menhir di Karahunj, Armenia
Un particolare della pietra forata nei menhir di Karahunj, Armenia

Già, perché il riferimento al concetto del drago e alla divinazione del Vello d’Oro, che diventano elementi poi immortalati nelle sculture dei vishap, doveva evidentemente nascere dal ricordo di qualcosa di molto antico e radicato e dal valore molto profondo e sacro.

Nel mito di Giasone c’è un passaggio curioso ma molto interessante ai fini della sua interpretazione.

Dopo aver aggiogato i due tori infuriati, prova necessaria per dimostrare di avere le qualità eroiche per ambire al Vello d’Oro, l’eroe avrebbe dovuto tracciare quattro solchi nel terreno, chiamato Campo di Marte, e seminarci dei denti di drago, dai quali sarebbe poi sorto un esercito di quella mitica creatura.

Quindi assistiamo ad un continuo e preciso riferimento allegorico a questa figura, e allora viene spontaneo a questo punto chiedersi se le tantissime stele a forma di drago, che furono in ere arcaiche disseminate sul territorio caucasico, abbiano qualcosa a che fare con la narrazione della semina dei denti di drago del mito di Giasone.

Non sembrerebbe affatto casuale questo intreccio storico-mitologico.

In un’epoca che potrebbe addirittura risalire alla fine dell’Età del Rame, i vishap, per ragioni a noi sconosciute, furono sistematicamente abbattuti, tanto che non se ne conosce nessuno rimasto eretto nella sua posizione originaria. Questo evento di portata epocale segnò la fine della loro produzione e l’inizio della lunga storia dei loro riutilizzi.

Nell’età del Bronzo, i vishap furono reimpiegati come pietre tombali nei tumuli montani, con la faccia decorata a vista. Poi, all’inizio dell’età del Ferro iniziò a diffondersi la tendenza a modificare i vishap con il vello di capra in altrettante statue antropomorfe, trasformando le corna caprine in acconciature, aggiungendo cinque dita agli zoccoli e tracciando una «cintura», simbolo di potere guerriero, a metà della stele.

Le Pietre del Drago – ben visibile l’opera di cristanizzazione che hanno ricevuto
Le Pietre del Drago – ben visibile l’opera di cristanizzazione che hanno ricevuto

Compaiono quindi una serie di elementi culturali e stilistici che l’antropologia individua come segnali di quel processo storico di involuzione della società matriarcale, improntata a valori religiosi, spirituali, di pace, di armonia con la natura, che inizia all’incirca verso la fine dell’età del Bronzo e l’inizio del Ferro; un fenomeno socio-culturale che si avvia per il sopravvento della cultura patriarcale, guerriera, discriminante, aggressiva.

Il mutamento provocato dall’apporto del nuovo contesto sociale che si andava pian piano affermando segnò l’iniziò dell’oblio dell’antica cultura matriarcale radicata in questa regione caucasica e con essa la cultura megalitica che proveniva direttamente dalla precedente civiltà del Mar Nero, scomparsa circa nel 7000 AC a causa di un cataclisma naturale.

Questa civiltà secondo molti studiosi non allineati con la visione dell’archeologia e dell’antropologia classica, era a sua volta erede di quella antidiluviana atlantidea, anzi alcuni si sono spinti a collocare la mitica Atlantide proprio in questa regione.

Per certi versi queste ipotesi potrebbero avere un fondamento di verità; d’altronde che questa terra evocasse sin da tempi ancestrali qualcosa appartenente all’immaginario collettivo e fortemente ambito lo possiamo dedurre dall’esistenza di una serie di miti universali le cui vicende si sono svolte proprio da queste parti.

Dalla favolosa mitologia greca del Ponte Euxin, alle fantastiche avventure degli Argonauti alla ricerca della lana d’oro, dal regno delle Amazzoni fino alla ricerca della Fonte della giovinezza, tutti miti che vengono collocati nell’area del Caucaso e del Mar Nero; ebbene con questo “background mitologico” non dobbiamo sorprenderci se quella regione veniva indicata come il luogo delle antiche origini e dell’antico Eden, o per alcuni addirittura della mitica Atlantide.

Addentrandoci nel primo mito citato, quello greco del Ponte Euxin, letteralmente del Mare Ospitale, così era chiamato il Mar Nero dai primi greci che si spinsero sulle sue sponde, si scopre un elemento significativo circa la sua fama di luogo ameno, edenico; quella terra, racconta l’antica letteratura greca, divenne tale dopo essere stata teatro delle gesta di Giasone e dell’impresa degli Argonauti, mentre prima di allora era considerata una terra sterile, inospitale.

Il mito sembrerebbe indicare allegoricamente che quel luogo divenne fertile e ospitale solo dopo che la conoscenza, come abbiamo visto proveniente da quel pensiero alchemico e custodita nel mito del vello d’Oro, vi mise radici e si sviluppò, dando vita ad una corrente culturale che divenne un impulso evolutivo per il mondo di allora.

Approfondendo invece l’altro antico mito nato in questa regione, forse non casualmente, la ricerca della Fonte dell’eterna giovinezza, scopriamo che anch’esso, al pari di quello degli Argonauti, ha dei chiari riferimenti allegorici alla ricerca alchemica.

La Porta alchemica nell’Ecovillaggio di Dreamland, nel Parco della Mandria (To) da un’idea di Giancarlo Barbadoro – la rappresentazione simbolica del percorso evolutivo dell’individuo all’interno della Grande Opera
La Porta alchemica nell’Ecovillaggio di Dreamland, nel Parco della Mandria (To) da un’idea di Giancarlo Barbadoro – la rappresentazione simbolica del percorso evolutivo dell’individuo all’interno della Grande Opera

In questo percorso spirituale individuale l’illuminazione a cui tendevano gli alchimisti era di fatto uno stato di coscienza particolare e veniva molto spesso raffigurato simbolicamente come una sorgente dalla quale scaturiva acqua limpidissima; una metafora che indica nel raggiungimento della fonte l’obiettivo finale della Grande Opera, la conquista dell’elisir di lunga vita, la famosa pietra filosofale, cioè l’elevazione dell’uomo verso la condizione edenica originaria, quella che viveva nel Paradiso Terrestre.

La leggendaria “fonte della giovinezza” in fin dei conti simboleggia proprio il percorso di questo ritorno, e lo possiamo accostare all’altrettanto noto mito del Graal, la ricerca della coppa della conoscenza perduta.

Gli alchimisti ritenevano che solo bagnandosi alla “fonte”, cioè purificandosi da tutto ciò che lo circonda, l’uomo può intraprendere il cammino verso la “perfezione spirituale”.

Il corpus ermetico giunto a noi sotto forma di testi medioevali o di raffigurazioni scultoree presenti nelle cattedrali gotiche descrive una fontana che rendeva immortali e che guariva le malattie. Uno dei primi testi scritti in cui si fa cenno alla “fonte dell’eterna giovinezza” è il celebre “Romanzo di Alessandro”, in cui il greco Callistene di Olinto, vissuto tra il 370 e il 327 avanti Cristo racconta le gesta di Alessandro Magno.

Nel romanzo Alessandro Magno attraversa, insieme con il soldato Andreas, la "terra dell'oscurità" situata idealmente nelle foreste dell’Abcasia, nel Caucaso, per cercare proprio la “Fonte dell'Eterna Giovinezza”.

Qui Alessandro perse la strada una volta entrato nella foresta ma Andreas riuscì a trovare la “fonte”, vi si immerse e divenne così immortale.

L’insieme di questi miti a sfondo esoterico e iniziatico rendono la regione caucasica una terra sacra pregna di arcaiche conoscenze ancora oggi racchiuse e custodite segretamente nelle numerose vestigia megalitiche di cui è costellata, che ai nostri occhi rappresentano le orme, l’eco di quella civiltà avanzata e armonica andata perduta.

Oltre alle pietre del drago un altro sito megalitico, che si inoltra fino alla Abkazhia, appena oltre il confine tra Russia e il territorio georgiano, ci riporta indietro nel tempo, all’era della civiltà megalitica del Mar Nero.

Si chiama Karahunj, o Zorat Karers. Si tratta di 223 stele monolitiche, alte da 50 cm. a 3 m. circa, che formano un allineamento nella direzione nord-sud lungo circa 250 m., alla metà del quale è stato realizzato un circolo di menhir che cinge al suo interno una sepoltura a tumulo, ovvero un kurgan dell’età del Bronzo (II° mill. A.C.), sicuramente un’aggiunta posteriore al primo insediamento.

Molte stele presentano curiosi fori circolari passanti dal misterioso e indecifrato significato.

Forse uno spunto sulla loro interpretazione si può trovare nell’etimologia del nome Karahunj o Carahunge che deriva da due parole dell’armeno antico: car (o kar) che significa “pietra” e hunge o hoonch che significa “suono”. Pertanto Carahunge letteralmente si può tradurre come “pietre parlanti”.

Particolare della Porta alchemica di Roma in cui è riportata l’iscrizione riferita alle gesta di Giasone nella Colchide
Particolare della Porta alchemica di Roma in cui è riportata l’iscrizione riferita alle gesta di Giasone nella Colchide

Questo curioso attributo forse nasce da uno strano fenomeno che avviene quando soffia forte il vento: i menhir infatti emettono suoni particolari, probabilmente ricercati attraverso la pratica di questi fori, suoni che per gli antichi costruttori avevano senza ombra di dubbio una valenza sacrale, perché in grado di indurre uno stato percettivo di coscienza particolare.

Nella regione del Caucaso occidentale, appena oltre il confine con la Russia, ma appena a 148 Km dalle sponde del Mar Nero, si trova un altro imponente fenomeno megalitico.

Esiste un'area di 12 mila chilometri quadrati che si estende su entrambi i lati di una montagna, sulla quale si trova l’incredibile cifra di 3000 dolmen, una particolare tipologia di monumento megalitico composto da una camera trilitica con un enorme monolite di copertura, che qui, rispetto a quella similare presente nell’Europa occidentale (Sardegna, Francia, Bretagna, Scozia, Penisola Iberica) assume la forma di una vera e propria stanza megalitica di forma quadrangolare o a volte perfettamente circolare, con tetto monolitico e con la parete frontale di ingresso che ospita sempre un foro circolare a forma di oblò.

Si tratta di un’architettura preistorica costruita con grande precisione, unica nel suo genere, che desta l’impressione di essere molto antica e anche molto raffinata, come ci mostrano le numerose decorazioni scolpite sulle pareti frontali che raffigurano elementi geometrici, dalla sicura valenza simbolica.

Secondo gli archeologi i dolmen del Caucaso risalirebbero ad un periodo arcaico collocabile tra i 4 mila e i 6 mila anni fa, ma non sono pochi i ricercatori convinti che siano molto più antichi, retrodatando la loro edificazione tra i 10 mila e i 25 mila anni fa.

Il territorio russo in effetti conserva, oltre a queste, numerose altre testimonianze megalitiche davvero impressionanti che in alcuni casi hanno rivelato un’età davvero remota che collima con la datazione dei megaliti caucasici.

Nella zona antistante l’ingresso dei dolmen, si trova sempre una sorta di aia, di piccolo cortile, delimitato da mura in pietra di dimensioni ciclopiche di cui finora si ignora la funzione che forse potrebbe essere di natura rituale.

Una vishap, una delle numerose stele chiamate Pietre del Drago in cui è visibile l’incisione che riproduce il mitico Vello, situate nell’area comprendente la Georgia e l’Armenia
Una vishap, una delle numerose stele chiamate Pietre del Drago in cui è visibile l’incisione che riproduce il mitico Vello, situate nell’area comprendente la Georgia e l’Armenia

Sono stati anche rinvenuti oggetti strani nei pressi dei dolmen, come grandi sfere di pietra, sfere doppie e sculture di animali.

Sarebbe davvero interessante conoscere, se fossero effettivamente dei veri e propri templi, che genere di riti vi si celebravano.

Erano probabilmente edifici di culto legati a riti ispirati alla Grande Madre Terra che, nell’era neolitica, è noto fosse la religione naturale più diffusa.

Il culto della Grande Madre Terra probabilmente non era rivolto solo all’evocazione del potere fisico e energetico che esprimeva, ma assumeva dei connotati simbolici molto più ampi, includendone anche la fortissima valenza mistica.

Oltre alla caratteristica di genitrice, nutrice, dispensatrice di vita, la Grande Madre Terra era infatti associata soprattutto alla funzione di trasformazione della natura: la mutazione della materia e della vita, che sottostà ad essa.

Essa trasforma la natura in qualcosa che agisce su un piano più elevato, un piano spirituale, che può essere sublimato dal substrato primario della materia.

Madre Terra, quindi, vista come il vaso dell’incarnazione, della nascita ma anche della trasformazione, del rinnovamento e della rinascita, contenitore degli ingredienti vitali del processo evolutivo dell’universo; un simbolismo spirituale, in definitiva, che ritroviamo esplicitamente nel vaso più famoso di sempre, il Graal, il vaso alchimistico del rinnovamento.

Un simbolismo che millenni dopo quell’era arcaica ritroviamo ancora intatto nel culto di Demetra, la Grade Madre Terra della cultura greca, e specificatamente nei Misteri Eleusini, in cui l’aspetto più intimo, quello della Natura come elemento di trasformazione e generatrice di vita ma anche di materia, viene racchiuso nel simbolismo della spiga e del seme di grano che, nel percorso narrato dal mito, Demetra, durante il cammino alla ricerca disperata della figlia Persefone rapita negli Inferi, dona al re di Eleusi in riconoscenza del conforto e dell’ospitalità che le vengono offerte.

Il chicco di grano, che con la sua semina e la maturazione risorge dalla terra e viene alla luce dopo un periodo buio trascorso sotto il suolo, simboleggiando quindi proprio la trasformazione della vita, era sconosciuto ai mortali fino al dono di Demetra; quindi la narrazione mitologica della semina del grano sembra proprio simboleggiare, seguendo le orme di miti molto più antichi, l’elargizione di un dono ricevuto dall’umanità ad un certo punto della sua storia.

Un’altra vishap, una delle numerose stele chiamate Pietre del Drago in cui è visibile l’incisione che riproduce il mitico Vello, situate nell’area comprendente la Georgia e l’Armenia
Un’altra vishap, una delle numerose stele chiamate Pietre del Drago in cui è visibile l’incisione che riproduce il mitico Vello, situate nell’area comprendente la Georgia e l’Armenia

Secondo l’Antropologia questa metafora si riferisce sostanzialmente alla fase storica dell’umanità in cui avviene la rivoluzione dell’agricoltura, tuttavia questa interpretazione potrebbe celarne una di natura più esoterica, riferita all’improvviso apporto di una nuova conoscenza che giunge da lontano (Demetra che arriva da terre esotiche); senza considerare che anche la scoperta di questa pratica innovativa, insieme a molte altre conoscenze tecnologiche e scientifiche sconosciute all’umanità del tempo, potrebbe avere, come sostengono moltissimi ricercatori di diverse discipline scientifiche, effettivamente un’origine “esterna” al pianeta.

Non a caso, inoltre, la spiga di grano è un elemento distintivo di diverse antiche tradizioni iniziatiche, come ad esempio nell’antico druidismo europeo dove le sacerdotesse, custodi del sapere tradizionale, spesso vengono raffigurate con una spiga tenuta in una mano.

Viene da pensare a questo punto, riflettendo sul misterioso significato del foro circolare che in molte antiche culture tradizionali del pianeta rappresenta un simbolo di evoluzione, di cammino spirituale, di trasformazione e che ritroviamo sia nei dolmen caucasici che negli allineamenti dei menhir armeni, che i megaliti di questa terra siano pertanto la testimonianza, l’impronta e insieme lo strumento di trasmissione nel tempo di una lontana esperienza spirituale precisa e codificata, cioè delle conoscenze della primigenia scuola alchemica del Mar Nero.

Eccoci così al cospetto di quell’intrigante e suggestivo binomio megalitismo e alchimia, una chiave interpretativa del fenomeno megalitico non molto comune, che pochi forse sanno esistere anche nel nostro paese, in Sicilia, nel sito megalitico dell’Argimusco, un altopiano poco a nord dell'Etna al confine tra i monti Nebrodi e i Peloritani.

Uno dei più antichi dolmen del Caucaso in cui è riconoscibile oltre alla pietra forata sulla parete d’ingresso lo spazio circolare rituale antistante
Uno dei più antichi dolmen del Caucaso in cui è riconoscibile oltre alla pietra forata sulla parete d’ingresso lo spazio circolare rituale antistante

Questo affascinante sito rappresenta la perfetta integrazione tra la straordinaria modellazione della pietra ad opera della natura e quella dell’uomo che ha modificato i lineamenti di alcune rocce per dar loro la morfologia di elementi simbolici.

Oramai è stato ampiamente appurato da studi antropologici, storici, ed archeologici che nei megaliti naturali dell’Argimusco sono racchiusi precisi significati esoterici di natura alchemica, conosciuti e vivificati fra l’altro anche dai cavalieri Templari, che risulta siano stati degli assidui frequentatori del sito.

Può sembrare sorprendente riscontrare questo parallelismo, eppure non meravigliamoci più di tanto perché una delle traduzioni più accreditate del termine “Argimusco” è quella che le attribuisce il significato di “oro degli Argonauti” o meglio “oro dell’ariete”, quindi “vello d’oro”, proprio perché il muschio (muscus) per gli alchimisti altro non è che un termine per definire l’oro portatile.

Abbiamo così chiuso il cerchio, come si usa dire in questi casi, e possiamo meglio comprendere la natura simbolica di quell’avvincente mito di Giasone e gli Argonauti nelle terre caucasiche.

Come dire, ogni volta che scaviamo nelle radici tradizionali di una cultura antica, ovunque essa sia vissuta, troviamo sempre alla fine elementi che ci riportano alla mitica tradizione primigenia, a quella cultura unitaria e planetaria che nel corso della sua evoluzione ha lasciato ininterrottamente, da tempi immemorabili, il segno della sua mai ineguagliata grandezza.


Marco Pulieri, ricercatore della Ecospirituality Foundation, conduce la trasmissione “Archeomistery World” su Radio Dreamland www.radiodreamland.it



 

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