Megalitismo

La Liguria Megalitica

Stampa E-mail
31 Maggio 2011

Uno dei numerosi menhir del Monte Beigua. E’ stato interpretato come un calendario solare per via delle incisioni che segnano i Solstizi e gli Equinozi

Viaggio tra i misteri del Monte Beigua


In Liguria l'area del Monte Beigua riveste da tempo un notevole interesse archeologico, che negli ultimi decenni si è rapidamente moltiplicato per un susseguirsi serrato di ritrovamenti.

Già nel secolo scorso Arturo Issel, Pietro Deogratias Perrando, Giovanni Battista Rossi e Niccolò Morelli effettuarono ritrovamenti e segnalazioni nell'area nord-ovest della montagna: il cosiddetto "Sassellese". Frequentato fin dal paleolitico inferiore, come dimostrano i bifacciali acheuleani ritrovati da Perrando e Dabove, fu soprattutto nel neolitico che si raggiunse forse il vertice dello sviluppo delle culture umane preistoriche con una produzione quasi "industriale" di manufatti, esportati anche molto lontano, nella caratteristica pietra verde "levigata" del Monte Beigua.

In tempi più recenti un gran numero di segnalazioni e ritrovamenti su tutti i versanti della montagna ha confermato l'intensa frequentazione del sito ed ha permesso di formulare l'ipotesi che essa fosse una montagna sacra degli antichi Liguri.

L’area è caratterizzata dalla presenza di rocce ofiolitiche del ciclo orogenico alpino, ossia serpentine (verdi) con rocce metamorfiche eclogitiche, dovute ad un vulcanismo marino. Esse iniziano dall'asse geografico Sestri Ponente-Voltaggio, in sostanza nel versante occidentale della Val Polcevera di Genova, per terminare circa a Savona, dove iniziano formazioni sedimentarie: ed è in questa zona che s’individua attualmente l'inizio della catena alpina.

La presenza dell'uomo è attestata in zona fin dal paleolitico inferiore.

Nel neolitico si ebbe forse il massimo sviluppo culturale preistorico: gruppi umani molto specializzati si misero in grado di estrarre e lavorare i serpentini verdi per produrre una vasta quantità di strumenti di ottima qualità che venivano esportati anche a distanze molto grandi. Questi artigiani neolitici avevano sviluppato la capacità di usare per ciascun tipo di strumento il serpentino più adatto: quello resistente all'abrasione per i macinelli, quello resistente alla percussione per le asce levigate e via di questo passo. Ciò testimonia l'alto livello culturale e tecnologico raggiunto.

Mentre le Età dei Metalli sembrerebbero avere visto anche qui quella trasformazione culturale generale un tempo reputata un arresto, un ritardo o un impoverimento delle genti liguri e solo successivamente valutata nella sua reale dimensione di cambiamento dello stile di vita in cui spicca il passaggio dall'abitazione in grotta a quella nel villaggio, riservando alla grotta la sola funzione sepolcrale, la conquista romana comportò la fondazione, in zona, di almeno due importanti insediamenti: la mansio di Alba Docilia (attuale Albisola) ed i cantieri nautici di Ad Navalia (identificata con l'attuale Varazze). In particolare quest'ultima località, ai piedi del Monte Beigua, si riforniva per la sua attività dagli estesissimi boschi ad alto fusto che ricoprivano, ancora fino a qualche secolo fa, tutti i versanti della montagna e del cui sfruttamento fin dalla preistoria è testimone la grande abbondanza di asce in pietra verde levigata trovate nel comprensorio di Sassello. In proposito sembra che alla fine del XVI secolo d.C. il versante marittimo del Monte Beigua risultasse ormai spogliato del suo manto boscoso dalle esigenze cantieristiche della Repubblica di Genova e che lo sfruttamento delle selve a livello industriale sia proseguito, soprattutto sul versante padano, fino al secolo scorso, quando, nella sola zona di Tiglieto, si trasformavano in carbone ben 1.750 tonnellate di legname all'anno.


Un incavo del menhir con funzione di calendario solare

La zona, entrata a far parte nell'Alto Medioevo della Marca Aleramica, vide i monaci cistercensi insediarsi a Nord dal 1120 al XV secolo in Tiglieto, fondandovi la loro prima abbazia italiana, e nel 1192 a Invrea, sul mare, fondandovi un monastero femminile (con due annessi ospitali per pellegrini: maschi e femmine), attualmente noto come S. Maria del Latronorio, abbandonato dalle monache nel 1535 ed attualmente di proprietà del marchese d'Invrea.

Nel XVII secolo si ebbe un terzo insediamento monastico a metà costa delle pendici meridionali del monte ad opera dei religiosi riformati da S. Teresa d'Avila e S. Giovanni della Croce (cosiddetti carmelitani scalzi), i quali vi eressero il "Convento del Deserto di Varazze", tuttora da loro gestito.

E' probabile che la gran parte dei simboli cristiani incisi sulle rocce, soprattutto del versante settentrionale, sia da attribuire a queste comunità monastiche, in particolare a quella di Tiglieto, o comunque alla "religiosità" che sempre si sviluppò sulla montagna, tradizionalmente considerata santuario, tanto che ancora oggi, nella chiesetta dedicata a N.S. del M. Carmelo, patrona dell'Ordine Carmelitano Scalzo, sulla vetta ormai sommersa da decine di deturpanti antenne, si svolge un pellegrinaggio con festa e S. Messa il 16 luglio di ogni anno.

Pian piano la Repubblica di Genova estese il suo dominio sulla zona, mantenendolo fino alle vicende napoleoniche ed alla successiva annessione al regno sabaudo.

Non può sfuggire a nessuno la somiglianza tra il nome del locale Monte Beigua ed il francese Monte Bégo. Quest'ultimo, come è noto, è con la Valcamonica uno dei due più importanti ed estesi centri di arte rupestre italica che passò alla Francia nel 1947, con circa 100.000 incisioni dal tardo neolitico alla dominazione romana ed oltre, ed è ormai considerato una vera e propria montagna sacra, santuario degli antichi Liguri pre-indoeuropei poi indoeuropeizzati ed infine romanizzati.

Quando si cominciò a scoprire anche nell'area del Monte Beigua tracce di insediamenti preistorici e di graffiti, venne spontaneo associare linguisticamente i due nomi.

Già Mario Garea, studioso varazzese, riteneva che il nome Beigua derivasse dal dio-ariete Begu e che il suo simulacro fosse da riconoscersi in una testa d'ariete in arenaria da lui trovata sulla vetta del monte all'apice di una sorta di piramide tronca di pietre a secco. Altri associano i nomi dei due monti alla divinità alpina Baigus, che in zona pirenaica prenderebbe il nome di Baigorix.

Non è poi così popolare o folklorico evidenziare la somiglianza di questi fonemi con il termine dialettale triorese "bagiue", ossia le bàsure, vale a dire le streghe.


Uno dei cromlech del Monte Beigua

Sembrerebbe, infine, che l'origine comune dei due toponimi sia da ricercarsi nella radice pre-indoeuropea bek, che significa il maschio della capra, da cui deriverebbe il latino "ibicem" e l'italiano "becco" che ha lo stesso significato.

Da un’indagine effettuata nel 1997 da Italo Pucci sui Culti naturalistici della Liguria antica si è approfondita la ricerca sulle similitudini tra le due montagne, identificando in primis l'apparentemente comune origine del nome, la comune presenza di abbondanti pascoli, boschi ed acque, sì da farne zone ideali per l'alpeggio e l'allevamento; la comune predominanza sulle cime circostanti, tutte più basse; la grande abbondanza di petroglifi che denunciano comunque un culto scritto nella roccia; la comune presenza di toponimi in qualche modo legati alla magia ed al male e, quindi, probabilmente denuncianti più arcaiche divinità pagane poi demonizzate dal Cristianesimo:

sul Monte Bégo troviamo la Val d'Enfer, la Cime ed il Lac du Diable, la Valmasque; mentre sul Monte Beigua riscontriamo altri toponimi come il Monte Priafaia, la località Le Faie, Faiabella, la cima di Masca, il colle della Masca, il rio della Masca.

Si è identificata inoltre la comune presenza di alcuni toponimi che sembrerebbero legati a divinità pagane come i monti Armetta ed Ermetta, derivabili dal greco Hermes ed il Monte Tarin, che deriverebbe dal dio celtico Taranis.

Nell'area ligure, che probabilmente ha subìto poco l'acculturazione dei dominatori romani, specie nelle aree montuose più impervie, talora sembrano essere sopravvissute in età cristiana vere e proprie reminiscenze magico-religiose pre o proto-storiche.

Le "faie" (francese fée; latino fatum) sono le fate (non necessariamente benigne, come insegna in particolare la mitologia gaelica), mentre le "masche" sono una sorta di spiriti o fantasmi, che secondo la superstizione vagano alla ricerca di vittime umane. Spesso identificate con le "strie" (ossia le streghe, che però sono persone in carne ed ossa), le masche sono più propriamente assimilabili alle lamiae e alle empouses (sorta di vampiri femminili) o alle larvae (spiriti maligni dei malvagi defunti) ed ai lemures (spiriti degli antenati defunti che bisognava periodicamente placare) della religione greco-romana.

Talora le caratteristiche ambientali e meteorologiche avverse giustificano pienamente certi toponimi (è il caso di molte Val d'Inferno, veramente inospitali nella stagione invernale), ma talaltra sembra proprio che essi siano legati a reminiscenze superstiziose e paganeggianti mai completamente dimenticate. Infatti, nella zona delle Alpi Liguri e Marittime paiono annidarsi persistentemente nuclei di paganesimo che, probabilmente, hanno la loro maggiore espressione nel mito del "servan" (uomo selvatico) e delle streghe di Triora.

E' interessante notare come questi personaggi mostrino alcuni tratti che hanno qualcosa a che vedere con il tempo atmosferico e con gli astri.

Il "servan" (l'uomo dei boschi, sorta di benigno Yeti alpino dall'aspetto fisico di sileno, profondo conoscitore e maestro della pastorizia e della lavorazione dei relativi prodotti, malgaro per conto terzi) ha un particolarissimo rapporto con le condizioni meteorologiche: esegue sempre il suo lavoro con il sole, la pioggia e la neve, ma fugge terrorizzato quando tira vento.


La “strada megalitica” del Monte Beigua

Le empuse e le lamie erano spesso spettri meridiani, ossia comparivano alle due estreme ore della giornata oltre ché nel corso della notte: mezzogiorno e mezzanotte.

L'ariete è animale-totem della preistoria. Esso fa parte di quella gamma di animali cornuti domesticati di media e grossa taglia che costituivano evidentemente la ricchezza dei pastori neolitici. Il bue o toro è sicuramente rappresentato migliaia di volte, sia in forma schematica di U che aggiogato all'aratro, nei petroglifi del Monte Bégo e della Valcamonica, ma è anche ipotizzabile che i segni a Y o a gamma siano interpretabili piuttosto come simboli dell'ariete che, al contrario del toro, ha corna spiraliformi. Recentemente sia l'uno che l'altro segno sono stati rinvenuti anche nel Finalese (SV), non lontano dall'area del Monte Beigua.

Nella mitologia greca l'ariete più celebre è quello dal vello d'oro, che trasportò in salvo Frisso ed Elle dalla Grecia alla Colchide. E' animale astrale perché volava e perché fu posto, dopo il sacrificio, tra le costellazioni dello zodiaco.

Comunemente sembra esserci una certa differenza tra l'ariete ed il capro: il primo è assurto a simbolo di bontà, purezza e perfezione, mentre il secondo di lascivia e malignità, fino a simboleggiare il satana nel sabba delle streghe.

Interessanti sono i siti archeologici del versante meridionale del Monte Beigua che si possono incontrare e che sono stati censiti e analizzati a livello archeologico da Mario Codebò, dell’Istituto di Studi Liguri di Bordighera, e da Manuela Michelini che ha redatto lo studio.

Il riparo sotto roccia di località Fenestrelle è a quota m. 350 sul livello del mare, presso l'abitato di Alpicella, l'unico antico insediamento umano della zona, originariamente posto più in alto, nel Medioevo, in località "smoggie", ossia le "marcite", gli "acquitrini". Essendo tutti gli altri molto più recenti, questo costituisce il sito più importante. Scoperto nel 1977 da Mario Fenoglio, ispettore onorario della Soprintendenza Archeologica della Liguria, e scavato da quest'ultima sotto la direzione di Gian Piero Martino, ha restituito parecchie tracce di frequentazione, presumibilmente stagionale, in due distinti periodi nei due settori identificabili.

Nel primo settore, quello di ponente definiamo il Neolitico Medio, con abbondanti reperti della tipica cultura ligure del "vaso a bocca quadrata" ed una sepoltura secondaria di bambina (cranio in cista litica) ed il Neolitico Finale con lo Chassey ligure. Nel settore di levante si identifica la prima-media Età del Bronzo fino alle prime due fasi del Bronzo Finale.

Per l'abbondanza del materiale, questo riparo sembra essere stato la base stagionale dei frequentatori della zona, forse a scopo di alpeggio.

Dal riparo che abbiamo sopra descritto, percorrendo prima un sentiero, poi la strada asfaltata, si perviene all'abitato di Alpicella, dove Fenoglio ha allestito un museo dei reperti preistorici della zona. Nelle sue vicinanze esisterebbe un altro masso a polissoir. Dalla piazza centrale del paese si sale, percorrendo una mulattiera, fino al cosiddetto: “Nicciu du briccu du Broxin”, singolare nicchia votiva inglobante una pietra-fitta in serpentino alta circa m.2, con spessore circa cm. 10-15, di forma quadrangolare a spigoli molto arrotondati.


Il « Nicciu du Briccu du Broxin », una cappella votiva costruita sui menhir

Nella zona tra Alpicella e Le Faie sono abbastanza numerose le nicchie votive, ma nessuna ha la conformazione di questa, alta circa m. 3,5-4. Sul fronte si legge la data 1912. L'impressione che se ne ricava è che sia stata costruita più alta del solito e con un abside inferiore, sia pure stretto, appositamente per inglobare la pietra-fitta preesistente. Per altro, le pietre che formano il tetto della nicchia hanno le medesime caratteristiche del menhir: sono in serpentino verde e di forma allungata e quadrangolare, benché assai più corte; essendo parte integrante della nicchia, sembrano ascrivere la pietra-fitta al medesimo modulo costruttivo di quella. Si era pensato in un primo tempo che il monolito fosse allineato, per il tramite delle cime di Bric Cast e di Monte Castellaro, toponimi significativi di insediamenti protostorici, rispettivamente con il punto di levata e di tramonto del sole al solstizio d'inverno, ma successive indagini sembrerebbero escluderlo, benché la complessità geomorfologica del paesaggio imponga, prima di una conclusione definitiva, una valutazione più approfondita.

Lasciato il Nicciu du Briccu du Broxin, si prosegue in salita lungo la mulattiera, costeggiando poi verso levante tra case abitate e ruderi. Si incontra sulla destra un grande masso con le sembianze dell'altare, privo tuttavia di qualsiasi graffito visibile: considerato che è in zona di cave di pietra, è molto più probabile che si tratti di un masso di cava abbandonato. Si piega poi verso ponente fino a giungere alla stazione a valle della teleferica della cava; da qui ci si arrampica per un breve ma ripido sentiero alla Rocca di S. Anna, fino a giungere alla spianata che ospita la cappella dedicata alla madre della Vergine. Un sentiero quasi in piano verso Ovest conduce, dopo poche decine di metri alla cava. Dalla cappella si scende per pochi metri verso Est e si perviene al riparo sotto roccia.

Stiamo parlando di uno dei luoghi più interessanti e suggestivi della zona. Il riparo sotto roccia, esplorato ma non scavato durante le campagne del Riparo di Fenestrelle, è stato certamente frequentato nello stesso periodo di quest'ultimo, ossia il Neolitico Medio e Superiore probabilmente dalle stesse persone. Particolarmente significativo il fatto che sul suo "tetto" sia stata scavata nella viva roccia una grondaia, fatto rarissimo, presente in Liguria, a quanto risulta finora, nel solo Riparo dei Buoi a Finale Ligure, il quale mostra chiari indizi di essere stato non un insediamento abitativo ma un luogo di culto. Per analogia si può proporre il medesimo utilizzo anche per il Riparo di S. Anna, benché qui manchi del tutto la ricca iconografia incisa nel primo. La stessa sistemazione del riparo con alcune pietre incassate nel suolo, che può essere interpretato come indizio di una certa cura architettonica e di una organizzazione dello spazio, nonostante le esigue dimensioni della camera, che è inadatta a raccogliere un gruppo numeroso, può deporre verso la tesi del luogo di culto. Vi è anche un ulteriore indizio a favore di un utilizzo prevalentemente rituale del sito.

Lorenzo Caviglia, abitante di Alpicella e diacono della chiesa locale, ha affermato che agli inizi del secolo scorso presso la cappella, allora non esistente, c'era una piccola nicchia votiva scavata in un masso e dedicata a S. Anna. Era cura delle famiglie che abitavano nella vicina frazione Ceresa far sì che la cappella fosse provvista di olio e lume. Accadde un giorno che una donna con il suo bambino, mentre assolveva questa incombenza, precipitò accidentalmente nel dirupo sottostante, a circa m. 70 più in basso, rimanendo miracolosamente incolume insieme al pargolo perché probabilmente la caduta fu arrestata da rami o sporgenze. Per grazia ricevuta alcuni decenni dopo, verso la fine del secolo, le famiglie di località Ceresa eressero la cappella in luogo della nicchia, che fu, purtroppo, distrutta. Ancora oggi si leggono i nomi dei costruttori e le notizie dei rifacimenti successivi e si vede nei pressi un piccolo altare da S. Messa al campo.


Il menhir “Cian de Munega”

La presenza di questo culto agli inizi del secolo scorso, limitato ad un solo gruppo di famiglie di una piccola frazione anziché a tutta la popolazione locale, potrebbe configurarsi come la continuazione cristiana di una tradizione religiosa molto più antica: il Cristianesimo potrebbe essersi sovrapposto in un luogo tradizionalmente ritenuto pagano. Il fenomeno è ben noto e documentato in tutta Europa anche attraverso documenti ecclesiastici dell'epoca.

Un'ulteriore caratteristica della Rocca di S. Anna è la sua dirupata soprelevazione sulla sottostante conca di Alpicella, tanto da indurre qualche autore a paragonarla ad analoghi siti francesi, dove cacciatori del Paleolitico Superiore spingevano e facevano precipitare in dirupi, spaventandoli, branchi di animali raccogliendone poi le carcasse. A parte un simile, eventuale utilizzo del quale, non esistono al momento tracce nella zona di Alpicella, questo sperone roccioso mostra tutte le caratteristiche dei luoghi d'altura con funzioni sacrali: la frequentazione umana, i segni del culto, gli elementi del culto, la soprelevazione, la panoramicità, la dominanza sui terreni sottostanti.

Questa montagna ha alcune caratteristiche che la rendono peculiare: è assolutamente brulla, a differenza delle aree circostanti, coperte di abbondante vegetazione; attira i fulmini durante i temporali ed è poco o nulla frequentata dalla gente del posto (non è chiaro se per una sorta di timore o per mancanza di motivazioni). E' stato possibile accertare che sulla sua vetta vi sono vistosi fenomeni di anomalia magnetica che giungono a deviare l'ago della bussola anche di quasi 180 gradi.

Il fatto che il cromlech della Strada Megalitica guardi verso di esso ha fatto ipotizzare che fosse in antichità considerato una specie di luogo sacro o tabù. E’ già stato verificato in vari studi, che dietro la sua cima sorge il sole all'alba del solstizio d'inverno.

È fattibile l'ipotesi che il riparo fosse utilizzato all'epoca come luogo di culto degli astri.

Dalla rocca di S. Anna si prende la larga mulattiera che digrada molto dolcemente verso levante. Già dopo poche decine di metri si incontra un ampio prato acquitrinoso con molte risorgive. Al suo centro vi è un piccolo tumulo erboso, a forma di chiglia di nave, lungo circa m. 2, largo m.1 ed alto altrettanto, che nasconde sotto il manto di erba una struttura in pietre a secco a falsa volta. E' inesplorato e non si sa quale fosse la sua funzione, benché si ipotizzi fosse stato utilizzato come ghiacciaia.

Procedendo oltre, si incontrano sulla sinistra alcuni grandi massi ammucchiati, parrebbe, per frana; tuttavia uno di essi mostra, con la sua forma allungata e arrotondata, le caratteristiche del menhir abbattuto, come in altri due massi presso la casa Colletta, alla fine di questo percorso. Ancor oltre, presso un rio, un masso tabulare presenta alcune evidenti coppelle.


Una delle incisioni del Monte Bego, nella Valle delle Meraviglie. Tra le figure: « Le chef de Tribù » che rappresenta uno sciamano celtico con le insegne rituali. Il Monte Bego e il Monte Beigua erano monti sacri per le popolazioni celtiche che abitavano in quei territori: i nomi deriverebbero entrambi dall’appellativo Baigus, una delle definizioni del dio Taranis

Quando la mulattiera comincia decisamente a scendere fiancheggiata da una staccionata di legno, scavalcando quest'ultima ed inoltrandosi nel bosco verso Sud, si giunge ad un masso detto a polissoir. E' un affioramento roccioso di circa mq.20 in un pianoro tra una sorgente ed un corso d'acqua.Vi si notano numerose incisioni e coppelle. Le prime sono tutte dello stesso tipo: intagli anche profondi con sezione a V, margini di solito ben netti, con parte centrale più larga ed assottigliamento alle due estremità. Sono stati interpretati come polissoir: segni prodotti dall'affilamento di utensili litici come asce in pietra, o anche metallici, come se ne trovano altrove in Europa. Potrebbe quindi essere uno dei tanti affilatoi delle famose asce neolitiche in pietra verde levigata così tipiche del Monte Beigua esposte al Civico Museo Archeologico di Genova ed al Museo Perrando di Sassello.

Deviando di poco dal percorso sin qui descritto si può raggiungere il masso cosiddetto del calendario solare. Questo masso è di forma triangolare, alto m. 1,40, largo m. 1,85, spesso circa cm. 30-40, ed è stato collocato intenzionalmente nella sua attuale posizione, mantenendolo verticale per mezzo di un supporto in terra e pietre costruito posteriormente. E' stato chiaramente sagomato. Le tre tacche rettangolari su di un lato assomigliano a quelle scavate per inserire dei cunei di legno nella roccia, i quali, una volta bagnati d'acqua, gonfiano spaccandola con grande precisione.

Visto così come si presenta nella sua attuale posizione, sembrerebbe un termine o pietra di confine, benché del tutto atipico rispetto agli altri della zona.

E' stata proposta la sua funzione di calendario solare perché le sue tre tacche corrisponderebbero a limiti raggiunti stagionalmente dall'ombra del sole al tramonto.

Tornando indietro si prosegue in discesa fino al bivio presso un rustico in ristrutturazione, presso il quale si svolta a sinistra, dirigendosi decisamente a levante.

Superata una sorgente e poi un bivio per il Bric Greppino con un pilone votivo nei pressi, mantenendosi in quota, si perviene prima ad un prato in cui giace abbattuta una pietra oblunga con le caratteristiche del menhir e poi all’inizio della strada a tecnica megalitica. E' questa un imponente "viale di pietra" in leggera salita, lungo complessivamente circa m. 200, che si biforca a due terzi della sua lunghezza.

Il tratto sinistro o a monte è bruscamente interrotto dalla strada poderale per Prariondo, ma nella boscaglia al di là di essa sembra potersi scorgere una sorta di continuazione. Significativo in tal senso quanto dichiaratoci un giorno da alcuni escursionisti incontrati sul posto: un geologo genovese non identificato avrebbe riferito durante una lezione universitaria che dall'aereo a bassa quota si percepisce chiaramente la continuazione di questo tratto fino ad un prato panoramico distante un centinaio di metri, nel quale alcuni massi formano un semicerchio. Per quest'ultima loro caratteristica erano già stati sospettati di essere i resti di un cromlech. Ora si aggiunge il fatto che sarebbero uniti alla strada megalitica da massi nascosti nella boscaglia. Riportiamo queste notizie tali quali ci sono state riferite, non avendo avuto la possibilità di effettuare alcuna verifica e, d'altra parte, non sentendoci di tralasciare un dato che potrebbe rivelarsi importante.

Il tratto destro o a valle della strada prosegue quasi rettilineo fino ad un pianoro, dove la sequenza delle pietre-fitte cessa o, piuttosto, piega a destra formando un ampio cromlech a botte delimitato da piccole lastre di pietra infisse ad intervalli nel terreno; esso scende abbastanza ripidamente verso una mulattiera sottostante, la cosiddetta "strada scalinata", al ciglio della quale si interrompe bruscamente. La sua posizione sembra voler indirizzare lo sguardo verso la cima del Bric Greppino, al quale è rivolto.

Il pianoro è il punto più alto della strada, con un dislivello dalla soglia di circa m. 20, panoramicamente aperto verso il mare ed il Golfo di Genova, sullo sfondo del profilo delle Alpi Apuane nei giorni più limpidi; a settentrione, invece, la visuale è totalmente occupata dalla lunga vetta del Monte Beigua; a ponente si stagliano, il Bric Greppino, oltre il quale si vede il displuvio orientale della Val Bormida, e le prime pendici del Monte Priafaia.


Coppelle incise su un menhir del Monte Beigua

Sul pianoro, oltre il termine della strada, si individua, in senso Ovest-Est, un allineamento tra un enorme masso piatto adagiato, un grande affioramento roccioso naturale ed un menhir, abbattuto nel punto in cui il pianoro comincia a digradare verso Sud ed inizia la strada scalinata verso Ovest. Questo menhir ha forma di piramide tronca molto schiacciata ed è singolare la sua somiglianza, per forma e dimensioni, con il menhir di Cian da Munega sul mare e con quelli coricati del masso a polissoir (supra) e di località Ceresa (infra).

Al momento non ne sono stati individuati altri significativi nella complessa struttura della strada.

Viene spontaneo chiedersi perché la strada è stata eretta proprio in quel tratto. Una risposta attendibile è che essa inizia, nel suo punto più basso, da un torrentello già anticamente, come oggi, incanalato; infatti, se a valle della strada vi è una moderna vasca di raccolta in cemento, alcune decine di metri a monte di essa, invisibile fra l'erba, ve n'è un'antica in pietre a secco. Eppure la sola associazione con l'acqua non basta: infatti in tutte le altre zone "idriche" del monte non vi sono strade simili. Quindi sembra esservi qualche cosa di più: un percorso che da un torrentello conduce, quasi esattamente da Ovest verso Est, ad un pianoro panoramico.

Presso l'acqua la strada inizia bruscamente con due grandi massi che formano una specie di soglia e che distano l'uno dall'altro m. 1,65: dopo un breve tratto, compie un angolo ottuso a sinistra per poi continuare sostanzialmente rettilinea fino all'inizio del pianoro.

La particolare tecnica costruttiva di una parte dei muri perimetrali, particolarmente nel lato a valle, consiste di un sistema di menhir distanziati ed intercalati da file orizzontali sovrapposte di pietre a secco, benché tale disposizione non sia presente in tutta quanta la strada. E' stato fatto giustamente notare come questa tecnica costruttiva sia caratteristica del tumulo hallstattiano di Hirschlanden (V secolo a.C.), presso Stuttgart, cosa che potrebbe ricondurre anche la strada megalitica alle citate popolazioni celtiche del IV secolo a.C. presumibilmente insediatesi in Alpicella. Più in generale, è l'uso stesso dei muri a secco accanto alle grandi pietre ad essere ormai ben documentato nel megalitismo, inteso come fenomeno religioso-culturale complesso, ubiquitario e plurimillenario.

Se poi immaginiamo l'intera strada completamente ricoperta di terra (cosa che, tra l'altro, spiegherebbe l'utilizzo di muri così massicci), essa potrebbe avere qualche similitudine morfologica con i lunghi tumuli a cuneo della Kujavia polacca.

Sulla base di queste considerazioni non sembra del tutto impossibile che questo monumento varazzese fosse originariamente una sorta di lungo tumulo ricoperto di terra, benché l'ipotesi del percorso rituale resti certamente la più accreditata. Ci pare invece molto improbabile una sua funzione di trasporto tronchi d'albero in tempi recenti, perché non si capisce in tal caso la sua limitazione a quel solo tratto ed a quella sola zona.

Dal menhir abbattuto si scende verso Ovest ai prati di casa Colletta lungo la strada scalinata. Anche quest'ultima presenta delle peculiarità morfologiche che la fanno ritenere in qualche modo unita all'ambito culturale che ha prodotto la strada megalitica.

E' una larga mulattiera a gradoni, fiancheggiata nella prima metà a monte da una fila di pietre-fitte che terminano con una grossa lastra lapidea infitta nel suolo ortogonalmente, definendo così una sorta di controstrada affiancata e di pari larghezza, della quale non si vede l'utilità pratica. Questa contro-strada termina in corrispondenza di un grande masso roccioso, accanto al quale se ne trova uno più piccolo con una cavità che potrebbe avere ospitato un piccolo riparo sotto roccia od una sepoltura. A monte di quest'ultimo complesso si apre il citato cromlech a botte. Attualmente tra esso e la contro-strada vi è soluzione di continuità, ma è da chiedersi se in passato essi non fossero un tutt'uno, giacché il cromlech sembra proprio diretto a terminare sulla strada scalinata. E' evidente, come abbiamo visto per il caso della poderale per Prariondo, che rimaneggiamenti successivi hanno modificato l'aspetto originale del sito.

Terminata la contro-strada, la strada-scalinata scende senza particolari caratteristiche fino alla casa Colletta. Qui si apre un grande prato con due sorgenti e l'antica mulattiera, oggi sommersa dai rovi, che conduceva al Bric Greppino e ad Alpicella. Se invece si gira a sinistra passando davanti alla casa Colletta, si incontrano, presso il ciglio a monte della sterrata, due pietre coricate dalla tipica morfologia dei menhir abbattuti; una terza, di maggiori dimensioni, è nel bosco più in alto e forse una quarta è a monte della prima curva, pochi metri più in basso.

Secondo qualcuno, poi, lungo il sentiero segnato che conduce a Le Faie vi sarebbero alcune sepolture a tumulo.


Un altro cromlech del Monte Beigua

Infine, molto recentemente l’archeologo Italo Pucci ha potuto identificare poco sotto l'abitato di Le Faie un campo nel quale ancor oggi si erge una pietra-fitta purtroppo pericolosamente inclinata ed in procinto di cadere. A detta degli abitanti del luogo, però, fino ad alcuni decenni orsono vi era un vero allineamento multiplo di pietre-fitte, disgraziatamente abbattute (ed in parte precipitate nel vicino torrente, dove sono ancora visibili) per ricavare terreno coltivabile. Sono ancora viventi coloro che hanno visto questo campo nella sua condizione originaria.

Potrebbero quindi essere allineamenti, benché in scala molto minore, comparabili a quelli della Bretagna e della Scozia. Può darsi che tracce delle cavità di alloggio siano ancora individuabili con uno scavo stratigrafico, se il dissodamento del suolo non è giunto molto in profondità, considerato che se le pietre erano alte sui m. 2-3 come l'unica superstite, la buca d'impianto dovrebbe essere profonda almeno mt.1 e che il dissodamento del terreno agricolo non dovrebbe superare i cm. 60 di profondità. Se così fosse potrebbe forse essere ancora possibile determinare gli azimut degli allineamenti.

Con l'arrivo all'abitato di Le Faie, non più antico del secolo scorso, termina il nostro percorso archeologico.

Il corso dell'indagine identifica l’attribuzione di questi reperti megalitici intorno alla seconda metà del IV millennio a.C., quando la località fu sicuramente frequentata tutt'altro che sporadicamente.

Concludiamo con una curiosità legata all’etimologia del Monte Beigua.

Abbiamo accennato come queste aree megalitiche liguri abbiano una continuità di iscrizioni preistoriche dal 3000 a.C. in poi, e che possano far parte di un unico comprensorio antichissimo che verso ponente giunge sino al Monte Bego dove sorge una delle aree santuario più interessanti dal punto di vista dei petroglifi.

Beigua e Bego, approssimativamente hanno un eponimo similare. Ma un’altra singolare tesi collega addirittura questa cultura a quella del cosiddetto BAGUA cinese: gli otto trigrammi che descrivono il mondo. Questo perché sembra che da nuovi studi storici la cultura cinese antica fosse in contatto con quella egiziana, e che quella egiziana non fosse sconosciuta alle aree occidentali, tanto che per quanto riguarda l’area degli antichi Liguri, qualcuno azzarda l’ipotesi che la fonetica originale dei termini derivi dal Semitico, lingua di influenza orientale e quindi anche collegata alla cultura egizia.



Foto di Marco Valle


Danilo Tacchino è scrittore e poeta ed è stato docente di sociologia all'Università Popolare di Torino. Ha pubblicato numerosi volumi sul fenomeno UFO e su storia e folclore piemontese e ligure. E' stato responsabile regionale del Centro Ufologico Nazionale (CUN) dal 1989 al 2000



 

Seguici su:

Seguici su Facebook Seguici su YouTube