Meditazione |
La Kemò-vad e la Danza Sacra |
17 Aprile 2014 | ||||||||
La danza sacra è sempre stata presente nell’uomo, da ben prima che ci siano fonti a testimoniarlo. È facile immaginare uomini del passato che nella danza e nella musica abbiano trovato conforto e risposte di fronte a domande e problemi che inevitabilmente avranno incontrato durante la loro vita. In Antico Egitto la danza era usata durante funerali e festività e accompagnava tutti i culti e le ricorrenze pubbliche. Spesso le danze erano accompagnate dal battito di mani che insieme alla voce hanno accompagnato le prime forme di danza. Le danzatrici erano il tramite tra terra e divino, i due mondi erano uniti con il corpo e i movimenti ritmici di lunghe trecce. Nella tradizione egizia a danzare erano i sovrani, i sacerdoti, il popolo e gli dei. Il dio Thot, elargitore della conoscenza della tavola smeraldina, introdusse la danza e la musica e le insegnava nella sua palestra, in cui riuniva i suoi auditori per fortificarli verso le avversità del mondo primordiale. La danza in Grecia interpretava sentimenti e passioni, la danza espressiva era fondamentale per la religione e per esercitare il corpo, faceva parte di esercizi militari e ginnastica. La danza era sempre presente in tutte le cerimonie di culto ed era tenuta in grande considerazione in ogni situazione: era consigliata dai medici e gli spartani andavano incontro al nemico ballando, senza contare l’accompagnamento di banchetti e feste. I danzatori erano considerati dei saggi, perché con i loro gesti interpretavano i misteri della natura con una danza priva di movimenti meccanici o imitativi, ricca di movimenti fluidi e armonici, proprio per richiamare la natura che voleva rappresentare. Si danzava nei templi, nelle campagne, nei boschi, per matrimoni, nascite e morti. Spesso si ballava in tondo imitando il movimento circolare di una ruota. Le danze sacre possono essere suddivise in diverse categorie, a seconda del dio a cui si rivolgevano (danza dionisiaca, imbica o hormos dedicate rispettivamente al dio Bacco, al dio Marte e a Diana) o alle loro caratteristiche. Ad esempio le emmelie erano improntate sulla necessità di esprimere il sentimento che il mortale prova nell’invocare la divinità. Danzando gli umani non facevano altro che imitare gli dei: Teseo festeggiava la vittoria di Salamina e sul Minotauro danzando e anche la nascita di ogni cosa è dovuta alla danza. Il mito di Eurinome, narra che la dea di tutte di cose era emersa dal caos danzando creando un vortice che si trasformò poi in un serpente, Ofione, che si unì a lei nella danza e con cui si stabilirà sul Monte Olimpo. Da un litigio fra Eurinome e Ofione nascono gli uomini: quando Ofione si vanta della creazione e la attribuisce solo al suo operato Eurinome lo colpisce con un calcio in bocca facendogli cadere tutti i denti. Dalla loro caduta sulla Terra hanno avuto origine gli uomini. Fra gli antichi romani la danza sacra era necessariamente legata alla guerra, gli dei infatti erano celebrati solo con danze guerriere, con processioni guidate da sacerdoti danzanti. Spesso i banchetti erano allietati da danze, ma queste erano di origine greche, così come i loro simbolismi. Dopo il saccheggio di Totila le danze scomparvero dalla capitale ma rimasero in uso fra i goti, i franchi e i cristiani. Questi ultimi infatti danzavano, come gli ebrei, nei cimiteri per onorare i morti. Le loro danze avevano caratteristiche tipicamente primitive. Nell’antico sciamanesimo primordiale si praticava la Kemò-vad, accompagnata dalla Nah-sinnar, l’antica musica dello sciamanesimo druidico. Questa forma di danza sacra veniva praticata in privato o pubblicamente in occasioni celebrative come solstizi ed equinozi. Nel mito Fetonte aveva proposto una danza che portava all’estasi interiore e annullava le pulsioni della mente, quindi secondo la tradizione druidica Fetonte ha insegnato la Nah-sinnar. La paità portava il kaui a realizzare la sua esperienza interiore, con movimento fluido e prolungato. Spesso con le paità venivano interpretate una serie di rappresentazioni di natura cosmologica o la narrazione di un episodio storico o anche la sequenza delle rune. Si praticavano paità basate su movimento rotatorio e guida ritmata, volte ad accompagnare la ricerca estatica del kaui. La danza sacra dello sciamanesimo druidico è infatti una forma simbolica ispirata al potere del drago che il kaui fa proprio unendosi in rapporto mistico con l’esistere.
La danza è diversa a seconda della zona di appartenenza, eppure c’è sempre una linea guida comune e un ritrovare movimenti o significati che si ripetono più e più volte. Fra gli Indiani d’America sono frequenti balli e danze legate al mondo animale, alla natura e ai suoi ritmi: le tribù degli Yakima eseguono la danza del cigno, in cui le donne imitano i movimenti aggraziati di mamma cigno con scialli bianchi, partendo da una posizione rannicchiata per poi risvegliarsi e scorgere il mondo intorno a sé, quando si muoveranno saranno seguite da danzatori che impersonificheranno i piccoli cigni nell’atto di seguirle alla scoperta del mondo. Le tribù degli Jemez Pueblo danzando tributano onore all’aquila, considerata molto vicina al grande spirito vista la sua abilità nel volo e la sua astuzia. I danzatori spiccano il volo e si librano nell’aria per imitare il suo avvicinarsi al grande spirito Le tribù dei Winnebago eseguono la danza del cervo in autunno, periodo di corteggiamento e riproduzione per questi meravigliosi animali. Nella danza un giovane cervo cerca, lottando, di strappare il comando del branco al cervo più anziano, in un ciclo che si ripete ogni anno, sempre uguale e allo stesso tempo sempre diverso. Le tribù dei Sioux danzano “il cerchio della gente”. La vita è vista come un ciclo infinito, ci sono cerchi, disegnati con il colore rosso, che simboleggiano nascita, gioventù, maturità e morte. I danzatori saltano dentro e fuori dai cerchi creando precise figure come un tornado o una farfalla che schiude il proprio bozzolo fino ad arrivare all’ultima figura: il mondo. Ogni cerchio è necessario, se non ci fosse l’intero sistema crollerebbe ed ogni cerchio è necessariamente diverso dagli altri, perché è la diversità che porta alle figure rappresentate. Fra i popoli africani sono molto conosciute le danze di possessione, in cui gli spiriti della foresta, degli antenati o le divinità stesse partecipano alla danza impossessandosi dei danzatori. Ogni spirito ha tempi, cibi, bevande, musiche e danze che hanno funzione celebrativa ed esortativa: gli spiriti vengono chiamati e si manifestano con la danza. Ma non è l’unica forma di danza, anzi. La danza tradizionale africana è un fenomeno collettivo che esprime la vita della comunità e che spesso è legata a elementi di tipo sociale. Le danze, infatti, sono legate alla vita di gruppo e quindi sono utilizzate nei momenti chiave della vita sociale: riti di passaggio, iniziazioni, morte, nascita e spesso le danze rituali sono eseguite solo dal gruppo sociale direttamente interessato mentre il resto della comunità assiste e partecipa attivamente con la voce e con strumenti a percussione. Purtroppo il colonialismo ha apportato numerosi cambiamenti alle danze tradizionali, spesso semplicemente cancellandole e impedendone l’esecuzione o cambiandole cercando di utilizzarle per altre religioni, eppure, come sempre accade, la memoria è rimasta e sono sempre più numerosi i casi di gruppi che riscoprono le proprie danze tradizionali e le tramandano alle nuove generazioni. In Tibet durante i Cham il danzatore, ispirato dalla musica, da preghiere e da numerosi simbolismi entra in rapporto con la divinità e raggiunge quella che viene considerata la consapevolezza spirituale superiore. Il danzatore lavora su tre livelli: il corpo, la parola e la mente. Nulla riesce a distrarlo durante il rito. Ogni Cham è suddiviso in 3 livelli: quello esterno, quello interno e quello segreto. Ogni Cham utilizza gestualità e oggetti simbolici che riguardano particolari divinità (spesso quelle di riferimento per il monastero in cui viene insegnato) e figure che rappresentano valori comuni a tutta la comunità come l’evoluzione della mente o animali che incarnano un preciso potere spirituale come il cervo, il toro e il corvo.
In India tutte le forme d’arte hanno origine sacra. E non potrebbe essere altrimenti: Shiva Nataraja, il signore dei danzatori, con la sua danza crea tutto l’universo! Inevitabile che la danza abbia avuto un ruolo centrale nella tradizione avendo accompagnato la vita fin dagli arbori della civiltà. La danza con il passare del tempo acquisì significati divini sempre più forti, tanto da essere inserita nelle pratiche religiose ed essere considerata una della forme più alte di adorazione per le divinità. In Cina la danza nacque per onorare gli dei. Interessante la scelta della musica. Diversi imperatori cinesi ordinarono la creazione di musiche che riproducessero i suoni della natura: una composizione musicale che imiti il suono del vento, una composizione musicale così ben fatta da spingere fenici e fagiani a danzare e da essere utilizzata per celebrare le virtù del cielo ed ultima una musica che imitando i suoni delle montagne, delle foreste, dei fiumi e delle valli facesse ballare gli animali della foresta sulle sue note. In Giappone uno dei miti, il mito della grotta, è legato alla danza e alla musica. Gli dei riuscirono a far uscire dalla grotta la dea del sole che oltraggiata dal comportamento del fratello (dio del fuoco) lì si era rifugiata gettando il mondo nelle tenebre. Di fronte a questa emergenza tutti gli dei si riunirono di fronte alla grotta e una delle dee presenti cominciò a danzare fino essere così coinvolta dalla musica da comportarsi senza ritegno, mettendo in mostra addirittura i suoi genitali. Tutti gli dei risero e fecero confusione fino a quando la dea del sole non uscì per vedere cosa stesse succedendo e di nuovo la luce tornò nel mondo. Ancora adesso tutte le danze Kagura ripercorrono questo mito e sono fra i rituali più antichi della religiosità giapponese. Secondo alcune interpretazioni queste rappresentazioni ricordano un rito sciamanico. In Turchia viene praticata la danza circolare dei dervisci che è ispirata al simbolismo cosmico: il giro dei pianeti intorno al sole, il vortice di tutto ciò che si muove e la ricerca di Dio, rappresentato dal sole. Il movimento circolare è perfetto, immutabile, non ha inizio o fine né variazioni. Le rotazioni effettuate dai dervisci simboleggiano proprio i movimenti dei pianeti intorno al sole, impersonato dal leader, che è il punto di contatto fra divino e terra. I mistici sono vestiti da un’ampia tunica bianca, lunga fino ai piedi che scoprono solo poco prima del rito: solitamente indossano infatti una sopravveste nera, simbolo del mondo oscuro in cui l’anima è prigioniera e che viene liberata solo con la meditazione e la danza. Flauto e tamburi iniziano a suonare, e i dervisci piroettano vorticosamente su loro stessi, aiutati dalla musica ipnotica sempre uguale a se stessa. I dervisci appartengono alla confraternita mussulmana dei Sufi, che propongono l’unione mistica con dio con l’ascesi e la danza, tramite la meditazione. Numerosi sono i simbolismi di questo rito, tutto volto a simboleggiare l’unione fra terra e divino. Tutte le danze sacre usano una lingua universale: i miti e i simboli. Nella danze il corpo è come un tempio, è la primissima espressione di sé. Non servono strumenti e oggetti, i movimenti, i suoni delle mani e dei piedi sul terreno, la voce.. tutto questo basta per dare vita alla danza sacra. Non a caso numerosi miti vedono la nascita del mondo e dell’universo come una danza. Esistono anche danze meditative, che nascono proprio dalle antiche danze, spesso danze di culto e danze in cerchio, in cui la danza diventa un aiuto alla meditazione, come percorso da usare per comunicare con il proprio io. Ogni parte del mondo ha le sue danze, è innegabile, e quanti punti in comune fra loro e la Kemò-vad! Una delle definizioni della Kemò-vad è la seguente: la Kemò-vad ha l’incarico di preparare, con tecniche di meditazione dinamica, l’iniziato al suo combattimento interiore ed esteriore. Non dimentichiamo infatti che la Kemò-vad fa parte della scuola iniziatica dello Za-basta, ordine monastico-guerriero nato da Fetonte per sostenere gli uomini nel difficile inizio del loro cammino sulla Terra. La Kemò-vad è una disciplina monastico-guerriera che deriva dall’antico druidismo europeo, oggi divulgata da Giancarlo Barbadoro, fondatore della Scuola di Kemò-vad Sole Nero.
Nella Kemò-vad l’individuo imita il vento, per entrare in sintonia con la natura dello Shan, la natura immateriale dell’esistenza, interpretandone l’armonia. Inutile sottolineare che il vento da sempre è stato richiamo verso la Madre Terra e lo è tutt’ora. Il vento è invisibile eppure esercita una forza che può agire su cose e uomini. Il vento porta a trovare il silenzio, che mostra la vera natura dell’esistenza… permette di far emergere la forza vitale ed evolutiva interiore. Se ci si oppone al fluire del vento si cerca di imporre le proprie aspettative, i propri desideri e inevitabilmente si andrà incontro a sofferenza. Quando ci si abbandona al vento ci si abbandona al significato dell’esistenza per assorbirla e si diventa coscienti di sé. A differenza di altre forme di meditazione, la Kemò-vad può essere approcciata in più modi. Si può fare Kemò-vad anche solo per ottenere benessere fisico immediato, il bien etrè che tanto si ricerca nel mondo frenetico che ci circonda. Ma che peccato fermarsi solo lì! Dalla Kemò-vad si può ottenere tanto di più. Si può avvicinare l’aspetto mistico e invisibile della natura, che non è da intendere solo come boschi, cielo e acque ma nel suo significato più ampio. Il kaui infatti apprende e si esercita con la pratica, che è soggetta a gradi. Inizialmente frequenterà la palestra, con il suo approccio propedeutico e ordinario che diventerà un piacevole appuntamento per continuare ad esercitarsi e perfezionarsi ma successivamente potrà frequentare la palestra superiore che è un vero e proprio cammino esperienziale condotto con consapevolezza ma è con la palestra reale che il kaui potrà effettivamente sperimentare ciò che ha imparato: la vita di tutti i giorni è il campo in cui sperimentare e allenarsi. È fondamentale realizzare il risveglio interiore altrimenti si otterrà solo il bien etrè e il praticante non riuscirà a dominare ogni situazione a suo vantaggio perché sarà esposto alle influenze della mente. Data l’antica tradizione druidica da cui la Kemò-vad nasce numerosi sono gli elementi simbolici che andiamo a trovare nella sua pratica. Il kaui (il praticante di kemò-vad) prima di iniziare la meditazione indossa la Girra, abito che serve a simboleggiare l’impegno a realizzare l’armonia del silenzio interiore. La vestizione è il primo passo compiuto dal meditante per porsi nello giusto stato d’animo per affrontare la meditazione e la crescita interiore che questa comporta. Il No-tah è il gesto rituale che accompagna numerose fasi della meditazione: l’unione fra vuoto e pieno in un’unica unità con cui il kaui si sintonizza e si identifica. Con il No-tah ci si saluta, si inizia e si conclude la Paità e soprattutto anche solo il farlo costituisce un momento energetico in cui il kaui raccoglie la sua energia interiore, mantiene l’equilibrio e il silenzio interiore. Il Tai-Shan, il totem che ci accoglie all’entrata della palestra, è il riferimento filosofico del praticante, non è un’idealizzazione ma un’effettiva osservazione della manifestazione dell’esistenza e di come l’individuo interagisce in modo funzionale per realizzare benessere e coscienza. Il tutto è racchiuso nella Via del Sentiero d’Oro, il percorso riferito all’Albero Cosmico della Vita, antico simbolo dei druidi, che riunisce i tre piani di esperienza: il corpo, la mente e l’io consapevole. Non a caso la prima paità che viene insegnata ai kaui è la “via”, che ripercorre proprio il Tai-shan con una serie di batzu. La Kemò-vad si può esprimere su quattro livelli: la paità (l’armonia del gesto), il said (la pacificazione della mente), lo hahqt (il baricentro interiore di consapevolezza globale) e la batza (la creatività luminosa dello hahqt, che porta il praticante a interpretare la figura del drago danzante). Attiva l’energia evolutiva e creativa, ciò che viene inteso come richiamo allo Shan. Sono tre le fasi che permettono tutto questo: il ristoro e l’energizzazione del corpo, la pacificazione della mente e lo stato di coscienza. Solo superando la dimensione soggettiva della mente l’individuo entra in sintonia con la natura dello Shan e il potere creativo che essa consente. Inizialmente il praticante imparerà delle batzu, le figure che compongono le paità, ma la Kemò-vad è libera creatività espressiva, senza schemi di esecuzione, anche se segue sempre delle linee guida. Tutto questo fa parte della nostra identità di Nativi europei, della nostra cultura, di ciò che siamo. La Kemò-vad può essere vissuta in tanti modi, è vero, ma c’è un solo modo per viverla totalmente: abbandonarsi al vento e scoprire la vera natura dell’esistenza, abbandonarsi al vento per entrare in sintonia con la natura dello Shan. |