Leggende e Tradizioni |
Un pugno di case, un lungo inverno |
07 Febbraio 2013 | ||||||||||||
La vita d’un tempo a Campo della Pietra, in Val Grande di Lanzo
Quasi in fondo alla Val Grande, nell’inverso oltre il torrente, vedi un pugno di case ai piedi della boscaglia e di ripide pietraie, scavate dai canaloni delle valanghe; di fronte, nell’ “andret”, ancora alberi e pochi prati sovrastati da rupi imponenti. Qui la Val Grande si restringe, i monti incombono più aspri e le case di Campo della Pietra sono raccolte come un piccolo gregge nel temporale. La montagna appare matrigna, avara di risorse: spesso mi sono chiesto perché la gente d’un tempo abbia scelto di stabilirsi lì, in un posto che parla di fatica e di sacrifici. Eppure l’ambiente severo ha un suo fascino, come in autunno, quando il sole del pomeriggio indora il manto dei boschi e addolcisce i profili delle rocce. Le ombre si allungano dalle cime alla testata della valle e dal Bec Ciarèl e, per contrasto, il villaggio ancora illuminato risplende di più. I dirupi, poi, in inverno si rivestono di ricami e colate di ghiaccio che pendono sulle pareti nerastre. Prima del paese, presso la strada, c’è una solitaria villetta con un prato incolto; in inverno risalitelo; a monte tagliate verso destra, superate un breve tratto di bosco e vedrete lo spettacolo della cascata del Rian d’le Combe, tutta ghiacciata. Negli ultimi decenni il paesaggio è cambiato: con il degrado, la boscaglia è cresciuta anche nei solchi delle valanghe (di cui, mancando la neve, non resta che il ricordo) come la Comba di’ merlu, il Cinai Grand e il Cinai ‘d l’ours, proprio sulla piana di Ghiaires. Qui il prato si è conservato, benché via via eroso dalle alluvioni, simile ormai ad un’isola d’erba tra il greto sassoso della Stura ed i pendii. Vi si arriva in pochi minuti da Campo della Pietra con un sentierino in piano, ma dopo Ghiaires il percorso alla volta di Forno, tutto nell’inverso, s’interrompe ben presto per i danni delle piene. La vegetazione ha preso il sopravvento, nascondendo in gran parte le cengette delle coltivazioni abbandonate, anche nell’ “andret”, dove la toponomastica (la Gorgi, il Goulai, il Roc dou Caru) evidenzia l’aspra natura di questi luoghi suggestivi. Ricordo ancora come un discreto sentiero risalisse l’anfratto del Goulai e conducesse al pascolo incolto sopra la rupe. Poi in tutta quella zona, a cura del Corpo Forestale si piantarono abeti, realizzando nel contempo degli ottimi sentieri. Oggi sono pressoché tutti invasi dal bosco ed impraticabili: un altro patrimonio che se n’è andato. Origini e vicende d’una piccola borgata Cian d’la Pera (m 1150) è un villaggio antico, spopolatosi solo con l’esodo del secondo Novecento. È menzionato in documenti catastali del 1550, e la Cappella dell’Annunziata (la più antica del Comune di Groscavallo), al di qua del ponte presso il Rian d’la Gorgi, fu costruita nel 1522 dalla popolazione per voto dopo una pestilenza. Purtroppo essa è da tempo in abbandono. Vi si celebrò ancora la Messa festiva in tempo di villeggiatura fin verso gli ultimi anni del ‘900, ma poi più nulla, se non l’indifferenza ed il totale degrado. Quest’anno, proprio nel tratto antistante il paese, si è allargata la sede della strada provinciale, conservando solo la strettoia in cui sorge la cappella, ed è con tristezza che ho sentito non pochi, anche nativi della zona, dire che tanto valeva buttarla giù, dimentichi di ogni memoria. La Chiesa, dopo aver cancellato ogni segno della cultura di un tempo, facendo un unico fascio delle semplici superstizioni come dei segni di fede ritenuti “fuori moda”, si è poi rivoltata contro se stessa, come se non bastasse già l’incredulità diffusa, per cancellare i tratti più autentici del proprio passato nella mente dei credenti.
Il paese, secondo la leggenda, trae nome da un fatto tragico: una giovane sposa, pascolando il bestiame in un “ciamp” della zona, sarebbe stata schiacciata da un masso staccatosi dalla montagna. Tuttavia la signora Maria Serra, una tra i maggiori esperti di storia delle Valli di Lanzo, mi ha fatto notare che in patois un masso è detto “roc”; meglio pensare, quindi, al cognome di una famiglia trasmesso al luogo, visto che i Pera sono citati in valle già in un documento del 1356, o ad un centro di estrazione e lavorazione della pietra, tanto più che l’ultimo “picapera”, proprio qui, ha continuato la lunga tradizione familiare fin verso la metà del Novecento. In particolare la Val Grande vanta una tradizione significativa a questo riguardo, vista la presenza di cave di ottimo materiale litico e, di conseguenza, di lavoratori specializzati. Vi furono artigiani e muratori abilissimi nel lavorare i blocchi squadrati per la costruzione di edifici, le lose ed altri manufatti. Tra questi ultimi vanno posti i “councet” (pietre scavate a tondo per acqua e mangime delle galline) e soprattutto i “burnèl”, le vasche per le fontane, di cui si possono osservare esemplari bellissimi, ad esempio, a Migliere, Vrù e Lities. A questo proposito mi diceva il signor Pietro Tetti di Ala, uno dei maggiori esperti di antiche tradizioni, mi diceva che i “burnèl” sono più diffusi in Val Grande proprio per la qualità della pietra ivi esistente, mentre è difficile trovarne in Val d’Ala. Un altro manufatto importante erano le mole, la cui lavorazione ha persino dato il nome a certi villaggi, come Molera e Molette in val d’Ala. I mulini erano diffusi in gran numero, non solo nei centri maggiori, ma anche nelle borgate più minuscole. Ho trovato i resti anche presso una borgata unifamiliare, come le Benne dell’Albone. Quanto alle lose, ne esistono numerose cave ormai abbandonate, come quella di Tirsi, sopra Migliere nel Comune di Groscavallo, per servire la quale c’era una teleferica alla cui installazione contribuì un’ottantina di persone. Lavoro ed usanze di una volta Campo della Pietra, racchiuso in un ambiente così aspro da apparire in balia delle forze naturali, ha superato indenne le avversità più di tanti altri. Lambito dalla valanga, che precipitava nella contigua “Comba d’la Fontanetta”, non ne ha mai subito danni sensibili, mentre il vicino Borgo, nell’Ottocento, fu semidistrutto dalla neve. Ha visto le piene della Stura, ma non, ad esempio, i tanti disastri di Forno, dal ‘500 fino al secolo scorso.
Sorge ai piedi di vaste pietraie, ma è stato risparmiato da frane come quella che, verso il 1640, ha sepolto la borgata di Teppe, poco più a monte nell’ “andret”, apparentemente più amena e sicura. E il vecchio ponte di pietra ad arco, ammirato in una cartolina d’epoca, ha resistito secoli prima d’essere abbattuto per far posto a quelli moderni, più grandi, ma ahimè anche più precari. Pare che i “vei” non abbiano poi scelto così male il posto per le loro case, nate forse come sede estiva per sfruttare i terreni disponibili, al pari d’altri borghi dell’inverso, e quindi divenute nucleo permanente. Tra le due guerre mondiali Cian d’la Pera ospitava una cinquantina di persone (ma almeno ottanta verso il 1750). Tuttavia, già allora, in inverno i giovani migravano in città come salumieri, secondo l’usanza di vari centri della valle, da Chialamberto a Forno: una scelta obbligata, vista l’esiguità delle risorse. Il villaggio era dotato di un forno comune, ancora esistente, e di un mulino, presso il ponte dove oggi sorge una villetta. Si cuoceva il pane un paio di volte l’anno, prendendo accordi tra le famiglie, che nel periodo di utilizzo tenevano il fuoco sempre acceso e si passavano l’un l’altra un po’ di pasta con il lievito. L’acqua per campi, orti e bestiame era prelevata dalla Stura assai a monte del paese e convogliata in una “bealera”, che aveva richiesto un imponente lavoro, mentre l’acquedotto era alimentato da una sorgente piuttosto distante e costituito da tubi di legno ingegnosamente collegati fra loro. La piccola comunità era ben organizzata per far fronte ai bisogni primari. Per altri, come la chiesa e la scuola, gravitava sulle borgate vicine. Inoltre, può sembrare impossibile, qui ha avuto sede il più antico albergo della valle, di cui si vedono ancora, dipinte sul muro, le insegne sbiadite. Famoso per la sua cucina, rimase in attività fino ad un centinaio d’anni or sono. Naturalmente si trattava di una struttura spartana, poco più che un rifugio, con le cuccette per letti ed un piccolo refettorio, oltre al ricovero per muli e cavalli, ma costituiva un importante punto di ritrovo, dove confluiva gente anche dalla Francia e si concludevano affari e contratti. Non mancavano i momenti distensivi, allietati dai suonatori di violino. Questi ultimi erano sempre presenti nei festeggiamenti legati alle ricorrenze religiose. A Cian d’la Pera si trovano due cappelle: l’Annunziata, purtroppo in abbandono, e quella del patrono San Rocco, all’interno del villaggio. Questa, tra l’altro, sorge presso una caratteristica casa del 1719 che, nella cantina, ingloba un masso a guisa di balma (vi si rifugiarono perfino i partigiani). A San Rocco si nominavano i priori e si faceva la processione; in un passato non lontano si accendeva il falò in un punto elevato, il “Bric dou Farò”.
Com’è noto, si tratta di un’usanza precristiana: il fuoco e la luce sono simboli di vita e tanto più lo erano per questo paesino con un interminabile inverno senza sole, uno dei più lunghi qui in valle; l’astro, infatti, se ne va a novembre per ricomparire a marzo, il 12 ad illuminare il ponte e soltanto il 18 le case. Un’altra ricorrenza fu, per molto tempo, San Domenico, l’8 agosto, celebrata dai frati domenicani che per decenni soggiornarono in estate a Cian d’la Pera, dedicandosi all’istruzione sia dei novizi sia dei giovani villeggianti, oltre che allo studio delle vipere, da cui ricavavano il siero. Le risorse per la sopravvivenza Un tempo tutti gli spazi disponibili, anche i più esigui e soprattutto nelle cenge dell’ “andret”, erano coltivati a patate, segala, orzo, canapa, per non parlare degli orti. Secondo un caro amico come Pietro Garbolino, memoria storica del paese, questi ultimi erano più rigogliosi che altrove per la collocazione riparata. Mancava invece la risorsa delle castagne, piuttosto rare a tale altitudine. La proprietà era assai spezzettata: ad esempio la famiglia di Pietro possedeva, tra Campo della Pietra e Groscavallo, ventiquattro piccoli poderi. Uno dei prodotti più “impegnativi” era la canapa: richiedeva parecchi lavori, spesso svolti di sera dopo le altre mansioni quotidiane, come la pulitura della fibra e l’estrazione del seme (il “cinaval”) per l’anno dopo. Quest’ultimo era anche l’esca per la cattura di capinere e pettirossi da tenere nella stalla in inverno. Il signor Garbolino conserva ancora, con orgoglio, quelle lenzuola “eterne” tessute con la canapa d’una volta. Quanto alla segala, un lavoro delicato era la “ramatura”, per la quale si usavano rami di nocciolo, che non marciscono, appuntendoli ad un’estremità. Uno si muoveva con cautela nel campo, fra le spighe, e gli altri glieli lanciavano, affinché li conficcasse nel terreno per sostenere gli steli. Quasi ogni famiglia aveva poche mucche, di solito da una a tre, ed alcune capre, da condurre al pascolo nei boschi e negli incolti, spesso nei terreni comunali, per i quali si pagava d’affitto un tanto per capo (veniva il messo a contare gli animali posseduti). Soprattutto nei pendii dell’inverso, coperti di pietraie, si sfruttavano i “reu”, le strisce prative isolate: se ne tagliava l’erba oppure, per i più estesi, si costruiva faticosamente il passaggio per le bestie. Lo sfalcio per l’inverno (sempre con la “missoiri”, il falcetto, che rende di più) si effettuava nei luoghi più lontani ed impervi, salendo magari fin sotto il Bec ‘d Mesdì (circa 900 metri di dislivello), dove in certi pascoli, come la Cialma Riounda, si lasciavano le mucche “asciutte” per una quindicina di giorni. L’acqua scarseggiava, ma gli animali rimediavano da sé, brucando di notte con la rugiada. Si falciava anche su cenge esposte, da cui, essendo pericoloso scendere carichi, si buttavano giù le bracciate d’erba da raccogliere, per tornare ogni giorno a casa con una pesante “troussa”.
Quanto alle capre, due famiglie avevano il “troup”, parecchie decine di capi, ma le altre ne possedevano cinque o sei, che talvolta si aggregavano per il pascolo alle greggi più numerose. Si destinavano loro i terreni più poveri, spesso a notevole altitudine. In tal caso si accompagnavano al mattino sul posto per tornare a prenderle alla sera, sempre però tenendole d’occhio dal basso, visto che i pendii erano scoperti, non invasi dalla boscaglia come ora. La famiglia Garbolino aveva un cane così ben addestrato che era capace, guidato da fischi diversamente modulati, di ricondurre a casa il gregge. In inverno il “troup” si portava nel Monferrato, dove gli affidatari degli animali, contattati tramite un sensale, si tenevano in pagamento il capretto che nasceva (ma, se la capra non generava, si dava loro il corrispettivo in denaro). Riprendendo il “troup” a primavera, qualche animale mancava sempre, perché era stato mangiato. La fame non c’era solo in montagna. La gente del borgo A maggio saliva da Cantoira a Cian d’la Pera con la propria mandria la famiglia del signor Pietro Ala, alla cui gentilezza devo molte notizie. Suo nonno Bartolomeo, con i proventi dell’attività di minatore in Francia, tornato in valle aveva comprato, intorno al 1920, vari edifici (tra cui l’albergo) e terreni, alcuni dei quali nella piana di Ghiaires (una delle poche distese di prato abbastanza ampie). Possedeva cinque o sei mucche ed altre ne acquistava ogni anno a Bussoleno, rivendendole a fine stagione allo stesso prezzo, cosicché l’utilizzo non gli costava nulla. Da lui il signor Pietro e suo fratello Bartolomeo hanno imparato tante cose della montagna. Dopo la sosta a Cian d’la Pera raggiungevano gli alpeggi della Val di Sea o del Colombino, sopra Forno, tornando in paese a settembre ed a Cantoira per i Santi. Possedevano un bel “troup” di capre e numerose pecore, che spesso vendevano in Francia dove erano ricercate. La famiglia Ala ormai non sale più a Campo della Pietra, ma ha mantenuto intatto l’albergo e molti suoi arredi originari, come il “burnel” ed i lavelli di pietra, scolpiti dai “picapere” del luogo, che oggi ornano l’esterno del loro caratteristico ristorante di Cantoira. Invece la famiglia Garbolino, come un po’ tutte, di solito passava l’anno a Cian d’la Pera, ma durante l’ultima guerra, per tenersi lontani dai tedeschi, Pietro Garbolino e suo padre presero la via dell’alpeggio, recandosi in un luogo come Leitosa, tra i più aspri e disagevoli, anche se paesaggisticamente affascinante, a strapiombo sulla Val di Sea. Un’esperienza durissima per la natura dei luoghi, tanto che avevano lavorato una settimana (pagando anche due operai) per riaprire il sentiero, ma anche per le difficoltà legate al momento, come la mancanza di sale. Avevano sei mucche e centoventotto fra pecore e capre da pascolare e mungere, con l’impegno di scendere due volte alla settimana portando a spalle il carico dei prodotti. Dai ricordi del signor Garbolino e del signor Ala emergono alcune figure caratteristiche di Cian d’la Pera, tra cui quella del Vescovo. Non ho saputo il motivo di tale soprannome. Egli possedeva solo poche capre e viveva di lavori a giornata, integrando il magro reddito in vari modi, uno dei quali era la cattura e vendita di vipere.
Scegliendo soprattutto le giornate di vento, si spingeva ovunque pur di trovarle. Le bloccava con un bastone a forcella, le prendeva per la coda, le scuoteva in un certo modo e le riponeva in un sacchetto; poi, a casa, le metteva in una scatola di latta. Un insieme di operazioni complesso e pericoloso. Tounin era il falegname del villaggio, capace di fabbricare o riparare ogni sorta di attrezzi, da quelli agricoli agli arcolai e perfino alle ruote dei carri. Sapeva anche minare le pietre, ma smise dopo un incidente in cui rischiò la vita. Dopo la morte del fratello non tenne più nemmeno quelle poche capre; la mamma del signor Garbolino, a cui faceva pena, gli lasciava ogni sera un “barachin” di latte appeso alla porta, mentre quella del signor Ala gli portava la minestra. Tounin era un buon bevitore ed amava cantare dopo le sue libagioni, per le quali si assentava a lungo dal paese. Una volta in tre combinarono per ubriacarlo e per tre giorni all’osteria si alternarono a farlo bere, ma senza risultato: di tanto in tanto egli si ritirava nel retro, ingoiava un bicchiere d’olio fornitogli dall’oste e riprendeva le bevute senza conseguenze. I signori Garbolino ed Ala hanno conosciuto l’ultimo “picapere” del paese, Pietrolin, che con la moglie Lucia viveva del proprio mestiere, tramandato da generazioni, e di poche capre. Lavorava la pietra che trovava sopra la borgata; andava in giro a saggiare se le rocce si rompessero nel modo giusto per ricavarne le lose o altri manufatti, come i “moriond”, i sostegni per balconi squadrati con cura, tuttora visibili a Cian d’la Pera. Nella casa di Groscavallo Pietro Garbolino conserva ancora, con un imponente “burnel” ed i “councet”, una piccola, antica macina per mulino ben levigata, realizzata chissà quando dalla famiglia dei “picapere”. Ringrazio vivamente la signora Serra e i signori Garbolino ed Ala per la grande disponibilità dimostratami. (N.d.A) Il testo riprende e amplia un articolo apparso sulla rivista “Panorami”. Si ringraziano il Direttore e la Redazione per la gentile disponibilità. |