Leggende e Tradizioni |
Una pietra enigmatica |
04 Febbraio 2024 | ||||||||||
Dal culto matriarcale della Grande Madre a quello patriarcale di Giove Padre
Qualche anno fa, leggendo il libro “Matelica segreta e scomparsa” dell’amico e storico matelicese Matteo Parrini, mi incuriosirono i segni incisi su una pietra, che veniva descritta come “Disegno di lapide calcarea da via Cuoio”. Siccome conoscevo il proprietario che aveva ritrovato la pietra e poi murata nella sua casa, gli chiesi se potevo visionarla e fotografarla, ed ho iniziato quindi a studiarla. Appresi quindi che la pietra era venuta alla luce nel lontano 1951, nel corso di lavori nei sotterranei della sua casa paterna situata in via Cuoio, a pochi metri dal luogo dove un tempo era ubicata l’omonima Porta Cuoio. Al momento del rinvenimento, la pietra era infissa verticalmente, ed era ricoperta da una spessa pellicola organica di colore rosso, forse residuo di umore sanguigno, che poi il proprietario ripulì accuratamente usando dell’acido. La pietra è di natura calcarea e risulta fratturata in più parti, quindi in origine doveva essere più grande e quello che ne resta oggi è solo una parte. Sulla sua superficie sono stati incisi dei segni o simboli, delle scritte misteriose, che ho provato a decifrare, dapprima singolarmente, poi collegandole insieme, in modo da arrivare a comprenderne il significato complessivo, ed il possibile utilizzo della pietra stessa. Analizzando la pietra come è stata oggi ricollocata, ovvero in posizione orizzontale, iniziando da sinistra si nota una incisione a forma di "stella" ad otto punte, mentre il secondo simbolo rappresenta una “croce”, inscritta in un cerchio. A destra di questo simbolo, di dimensioni più piccole, sembra esserci una "svastica" con i bracci piegati in senso orario, anche se i contorni sono meno netti dei precedenti. In un angolo è presente un’altra piccola croce semplice, che però, a mio parere, non avrebbe un significato legato alla cristianità, ma piuttosto ricorda i 4 punti cardinali e quindi un “Decussis”, il cosiddetto “Centro Sacro” o “Centro del Mondo”.
Queste incisioni richiamano, a mio modo di vedere, ad una simbologia “solare”, antichissima e onnipresente in tutte le culture arcaiche del mondo, ed utilizzata sin dal paleolitico per rappresentare il Sole e per questo chiamate anche “Ruote solari”. In Europa troviamo questi simboli incisi su pietre in Svezia, Danimarca, Irlanda, Galles, Francia ecc., mentre in Italia sono diffuse su tutto l’arco alpino, famose quelle della Valcamonica e quelle delle aree celto-liguri, utilizzate in un periodo di tempo lunghissimo, dall’epoca pre-protostorica all’età del Ferro. Le ritroviamo anche nell’antica iconografia artistica mesopotamica, dove il “Sole” era rappresentato da un disco suddiviso in otto raggi, e le divinità venivano spesso raffigurate accanto ad una stella ad otto punte. Anche nella scrittura cuneiforme il termine “cielo” o “stella” era identificato da un ideogramma simile al nostro asterisco e rappresentato da otto raggi uniti al centro. Questo simbolo venne anche rappresentato con una “Rosa ad otto petali”, il cosiddetto “Fiore della Vita”, che aveva un significato di rinascita e di sopravvivenza dopo la morte, non solo nelle culture mediorientali, ma in genere in quelle indoeuropee, poi ereditato dalle successive civiltà, come quella ellenistica e romana. Ma senza andare troppo lontano e restare vicino a Matelica, abbiamo i famosi dischi aurei rinvenuti nella valle di Santo Marzio a Gualdo Tadino, che riproducono appunto delle “Ruote solari” con decorazioni a globi. I dischi aurei, risalenti al XIV - XIII sec. a.C., hanno delle evidenti affinità con analoghi reperti celtici irlandesi, come il celebre “Carro di Trundholm“, che raffigura il carro solare trainato da un cavallo, riconoscendo così nei reperti gualdesi un chiaro esempio di culto solare affine a quelli nord-europei e dell’Italia settentrionale, in un periodo molto precedente all’arrivo dei romani in Umbria. A questo proposito, tornando alla pietra che stiamo analizzando, vorrei far notare come il raggio inferiore della “stella” sia leggermente più lungo degli altri, ed arrivi a toccare un altro segno posto al di sotto di essa e che ha, guarda caso, la forma di un “carro a due ruote”, ovvero di una biga. Se colleghiamo quindi il simbolo della “stella” con quello del “carro”, il significato simbolico potrebbe essere quello del “Carro del Sole”, che la mitologia antica immaginava trainato con una biga da Helios, il dio del Sole identificato anche con Apollo! Il “Carro che trasporta il Sole” richiamerebbe quindi ad una chiara simbologia celeste, ed a precise divinità legate al culto solare, che a loro volta personificano vari significati: dal movimento cosmico dell'universo, al movimento ciclico quotidiano e annuale del Sole, fino al rombo stesso del tuono che accompagna il fulmine e che in antichità era considerato come una emanazione del fuoco solare. Quindi, in base a questa interpretazione, chi ha inciso la pietra, potrebbe aver voluto rappresentare con i due segni del “Sole” e del “Carro” collegati tra loro, una divinità solare, associabile ai culti di Zeus/Giove, del Sole, di Attis, di Apollo e del mito di Fetonte. Nello specifico, una divinità associata alla “ruota solare” la ritroviamo anche in molte raffigurazioni e sculture di cultura celtica. Si tratta in questo caso di un personaggio barbuto, nudo, che regge in pugno una ruota con un numero variabile di raggi, come nel famoso “Calderone di Gundestrup” e con l’altra mano un fulmine, nell’intento di lanciarlo sulla Terra. Nel pantheon celtico questo dio viene chiamato Taranis “il Tonante”, evidente richiamo al rombo dei tuoni generato dai fulmini. Nonostante la maggior parte delle raffigurazioni del “dio con la ruota” sia anonima, le poche dediche associate alle “ruote” sono sempre e comunque rivolte a “Iuppiter”, contrazione di "Iou Pater" ovvero "Giove Padre".
È chiaro quindi come la “ruota solare”, il simbolo che i Celti attribuivano al loro dio “Taranis”, dopo la conquista romana dei territori celtico/gallici, come lo erano diventati l’antica Umbria e l’Ager Gallicus a seguito della conquista dei Galli Senoni, che difatti poi vennero unite da Augusto nella VI Regio Umbria, venne poi dai romani stessi assimilato ed identificato con la loro divinità principale Iuppiter/Giove, come la statua del Giove gallico proveniente da Seguret, che lo mostra in posa appoggiato a una ruota con dieci raggi. Un altare di Giove rinvenuto presso Laudan presenta su entrambi i lati un'aquila e una ruota a cinque raggi, mentre in un altro compare l'iscrizione "Iovi O. M." e anche in questo caso è presente una ruota a sei raggi posta tra due fulmini. Troviamo conferma di questa associazione anche da Giulio Cesare, conquistatore della Gallia, che nel suo “De bello Gallico” (VI:17), sostiene che lo Iuppiter gallico “Taranis” era considerato il “Re degli dei”, come appunto lo era Giove per i romani. L’equiparazione di Iuppiter con Taranis, viene confermata anche dal poeta Lucanus in un celebre verso del “Pharsalia”, quando cita il nome del dio senza ridurlo a epiteto e questo autorizza a pensare che Taranis fosse proprio il nome di una divinità identificata con lo Iuppiter romano. A verifica di questo “ragionamento”, ho provato quindi a decifrare quelle che sulla pietra, sotto i simboli delle ruote solari, sembrano essere delle lettere in alfabeto latino arcaico e che forse indicano il nome della divinità evocata. Partendo da sinistra, paiono leggersi le seguenti lettere: I-I-V-P-P-I. La mia interpretazione è quindi la seguente: I (ovis) IVPPI (ter) e si tratterebbe quindi di una dedica o di una invocazione a “IOVIS IVPPITER” ovvero a Giove “Iou Pater”. Al di sotto di queste lettere, se ne intravedono altre due, che sembrano una “S” e una “O”, ma che si interrompono a causa della parte fratturata e quindi mancante della pietra. Unendo le due lettere, la parola potrebbe essere SO(L), ovvero “Sole”, che potrebbe indicare l’attributo “solare” dell’antica divinità latina del “Sol Indiges”, poi sostituita in epoca mitraica con il “Sol Invictus” e che confermerebbe in ogni caso che la pietra sia stata consacrata alla divinità solare di “Iovis Iuppiter”. A questo punto, il “mistero” di questa pietra sembrerebbe risolto con la sua identificazione come parte di un’ara pagana o, più propriamente, di un menhir o di una stele dedicata ad un’antichissima divinità umbro/celtica, poi sostituita con Iuppiter (Giove) a seguito dell’entrata dell’Umbria e quindi dell’antica città umbra di “Matilica” nell’orbita romana. Ma se ruotiamo ed analizziamo la pietra in posizione eretta, ovvero come essa venne rinvenuta e come probabilmente doveva stare nella sua collocazione originaria, vediamo che il simbolo rappresentato dalla “Croce inscritta in un cerchio” potrebbe avere anche un altro significato e cioè quello della cosiddetta “Ruota cosmica o dell’anno”, legato alla simbologia luni-solare. Il simbolo universale della “Ruota dell’Anno”, rappresenta infatti sia il corso del Sole durante il giorno che quello della Luna durante la notte e quindi la ciclicità delle stagioni, con le date fondamentali dei Solstizi e degli Equinozi, che si alternano in eterno, come in un calendario perpetuo. La parola "anno" trae infatti origine dalla radice indoeuropea “an” che significa “circolo” e difatti l'anno si ripete esattamente come una ruota! Quindi, in base a questa seconda interpretazione, il cerchio con la croce rappresenterebbe la Terra, con la suddivisione dei 4 punti cardinali e delle 4 stagioni, con la ripartizione dei Solstizi e degli Equinozi e degli altri periodi fondamentali dell’anno collegati a loro volta alle principali divinità.
In base a questa “configurazione”, quindi, anche gli altri “simboli” incisi sulla pietra sembrerebbero combaciare ed assumere un preciso “significato”: la “svastica”, che è un simbolo solare, si trova infatti esattamente sopra la posizione assegnata al binomio Apollo/Sole. Nella posizione assegnata al binomio Artemide (Diana/Luna), si intravede invece un piccolo cerchio, che potrebbe simboleggiare la stessa Luna, ma che poi é stato inglobato in una delle lettere “P” della parola “IVPPI”, che quindi, a mio parere, sarebbe stata incisa in un periodo successivo. Seguendo questo “ragionamento”, il simbolo che nella prima ipotesi avevamo attribuito ad un “carro a due ruote” che trasporta il Sole nell’arco diurno, in realtà sarebbe un “simbolo fallico”, che difatti è posizionato nella parte del quadrante assegnato al binomio Venere/Fertilità. Di conseguenza, anche la “Stella ad 8 punte” collegata al simbolo fallico, non rappresenterebbe più il Sole, ma il pianeta Venere, la “stella del mattino e della sera”. Faccio notare, inoltre, che nel quadrante assegnato al binomio Giove/Fulmini è presente un intaglio, che potrebbe anche sembrare accidentale, ma che a mio parere è stato invece inciso volutamente, come una specie di “contrassegno”, in una fase successiva probabilmente coeva alla incisione delle lettere “I.IVPPI”, proprio per dimostrare che la pietra era stata “riconsacrata” al dio Iuppiter (Giove). Quindi, per riassumere, questa pietra rappresenta una rarissima testimonianza del “passaggio” dal culto arcaico matriarcale della Dea Madre a quello patriarcale di Giove Padre. Infatti, la duplice “lettura” della pietra, a seconda che la si collochi in posizione verticale o orizzontale, fa supporre che in origine essa fosse collocata in posizione eretta e probabilmente fosse una stele dedicata ad un’antichissima divinità femminile di radice indoeuropea, probabilmente la Grande Dea Madre e con uno scopo religioso legato alla fertilità, al ciclo lunare e stagionale della Natura, da parte di una casta sacerdotale, forse anch’essa femminile, che non utilizzava un alfabeto o una lingua, ma solo simboli ed ideogrammi. Il fatto che su di essa siano stati incisi simboli e attributi riconducibili a divinità celtiche, luni/solari o legate alla natura, dimostrerebbe come, con la discesa in Italia dei celti Senoni (i “Galli”) nel IV sec. a.C., la cui presenza stabile è storicamente ed archeologicamente documentata almeno fino al fiume Esino, la popolazione celtica si integrò rapidamente con quella umbra preesistente, processo favorito forse anche dalle comuni origini etniche, linguistiche e religiose. Questa “fusione” deve essere stata probabilmente maggiore a Matilica e nelle altre città umbre situate a nord dell’Esino, come Attidio, Tufico, Sentino ecc., minore o nulla invece in quelle poste a sud del fiume.
Questo “status” venne sfruttato a proprio favore dai Romani, che avevano nei Celti/Galli i loro più acerrimi nemici, a causa della umiliante sconfitta e del saccheggio di Roma da essi subìti nel 390 a.C. ad opera dei Galli Senoni guidati da Brenno. Essi infatti stipularono nel 310 a.C. un patto di “foedus aequum” con gli Umbri Camerti, proprio in funzione strategica anti-gallica, in modo così di avere una “testa di ponte” alleata nella Regione, ed aprirsi quindi la strada verso la conquista militare dell’antica “Umbria” e del territorio occupato dai Galli Senoni, soprattutto dopo la cruciale e fondamentale vittoria da essi ottenuta a Sentino (Sassoferrato) nel 295 a.C. contro la coalizione composta da Sanniti, Galli, Umbri ed Etruschi e conclusasi poi con la confisca romana dell’intero Ager Gallicus. Il fatto che gli Umbri fossero alleati con Galli, Sanniti ed Etruschi contro i Romani non deve quindi indurre a credere che lo fossero tutte le città umbre. Questo perché le città umbre, come riportano le Tavole Eugubine, erano confederate e divise in “Decuvie”, ma ciascuna di esse manteneva una forte autonomia politica e sociale sul proprio territorio. Quindi, la mia opinione è che, mentre gli Umbri Camerti, che insieme ai confinanti Piceni avevano risentito meno dell’influenza dell’invasione celtica, si allearono con i Romani, gli Umbri Matilicati, Attidiati, Tuficati, Sentinati ecc., proprio per il fatto di essere stati invece maggiormente “contaminati” dai Galli Senoni, si allearono con quest’ultimi e con i Sanniti e a seguito della sconfitta di Sentino, subirono quindi la distruzione delle loro città, la deportazione in massa della popolazione superstite e la confisca dei loro territori da parte dei Romani. Questa ipotesi è avvalorata anche dagli scavi archeologici eseguiti nei decenni passati nel nostro territorio, che hanno evidenziato la presenza ed i resti di abitati pre-romani dall’VIII fino agli inizi del III sec. a.C. Contestualmente si registra la presenza di tombe databili tra il IV e gli inizi del III sec. a.C., ma una quasi totale assenza di sepolture di epoche posteriori, fino almeno al I sec. a.C. Agli inizi del III sec. a.C., quindi, le popolazioni umbre dei matilicati, attidiati, tuficati e dei sentinati sembrano come “sparite” o drasticamente “decimate” e questo, a mio parere, deve essere collegato direttamente alla disfatta subìta nel 295 a.C. dalla coalizione Umbro-Etrusca-Gallo-Sannita a Sentino ad opera dei Romani. Per concludere, quindi, la mia ipotesi è che forse proprio in occasione della “rifondazione” di “Matilica” da parte dei Romani (inizio III sec. a.C.), sulle rovine del preesistente abitato umbro/celtico, questa pietra che, come detto, era già esistente e faceva parte di una stele dedicata ad un’antica divinità femminile, assimilabile alla dea Grande Madre, sia stata dedicata dai “rifondatori” a Giove/Iuppiter, incidendovi la dedica con il suo nome “I.IVPPI” e quindi collocata presso l’antica Porta ad occidente della città (ed ubicata all’incirca dove poi, in epoca altomedioevale, sarebbe stata costruita “Porta Cuoio”) e che probabilmente era allora consacrata proprio a questa divinità. |