Leggende e Tradizioni |
Il Carnevale di Corleone |
28 Luglio 2022 | ||||||||||||||||||||
Le incredibili analogie delle usanze del Carnevale tra le regioni d’Italia
Il Riavulicchiu e i Nanni In tutte le culture è diffusissimo un particolare elemento tradizionale, quello della maschera, il quale, astraendo da una sua localizzazione geografica, compare in tutta la storia dell’umanità. Si configura come espressione magico-religiosa{jcomments off} collegata alle necessità della vita quotidiana di stabilire un cosmos nel reale caos dell’esistenza. Anche nelle pitture rupestri sono raffigurate scene riproducenti cacciatori i quali eseguono danze con l’intento, molto probabilmente, di influire sul buon esito della caccia, indossando maschere di animali. «La qualità magica di questo rito mette in rilievo l’importanza della maschera come elemento catalizzatore di forze misteriose che l’uomo può captare ed utilizzare a fini pratici» (Monti 1966). La sua massima espressione la raggiunge comunque all’interno del Carnevale che, pur non essendo inserito in una liturgia ufficiale né in una ritualizzazione canonica, nei suoi significati più profondi è certamente collocabile tra le feste sacre. Da rituale prettamente pagano, legato all'alternarsi delle stagioni e alla riproduzione dei frutti della terra, si trasformò in una festa ludica e trasgressiva dove antichi riti e simboli, attenuati e deformati, si caricarono di nuovi valori. Tra i Carnevali storici di Sicilia va annoverato quello di Corleone, benché abbia vissuto alterne interruzioni seguite da momentanee ed effimere reviviscenze, come se seguisse, con modalità e motivazioni differenti, la ciclicità della stessa festa e della storia del paese. Venne vietato, infatti, per diversi anni, l’uso di mascherarsi per poi essere autorizzato nuovamente ed in seguito di nuovo proibito, come riportato da Giuseppe Zimbardo nella sua tesi di laurea del 1949: «Il Carnevale si celebrava pomposamente nel mese di febbraio con mascherate e divertimenti vari, farse, ma poiché le maschere erano causa di disordine ed una buona occasione per i malviventi per compire i loro delitti, le mascherate furono vietate per molti anni dalla Pubblica sicurezza […] L’anno scorso [1948] dopo tanti anni si sono rinnovate le mascherate» (Zimbardo 1949). Dopo la sua ripresa, il 24 febbraio 1957 il questore della provincia di Palermo impose un'ordinanza, reiterata in seguito di anno in anno, che imponeva il divieto assoluto di mascherarsi e travestirsi durante il periodo di Carnevale a causa delle «malefatte che venivano consumate al riparo dell'anonimato», come motivato nell'atto da lui emesso e firmato. Il timore che attraverso i travestimenti si potessero compiere omicidi indisturbati, penalizzò anche i confrati che accompagnavano Il Cristo alla croce durante il Venerdì Santo i quali dovettero arrotolare sulla fronte i cappucci del loro abito, cammisu solitamente calati sul viso. Il Carnevale senza il mascheramento perdeva il sostrato ludico e licenzioso comportando conseguenzialmente il disuso della stessa festa. Solamente nel 1982 Franco Vintaloro, esponente del Partito Repubblicano Italiano e assessore al “Turismo, Sport e Spettacolo” del comune di Corleone, portò in consiglio comunale la proposta di riprendere la tradizione scomparsa del Carnevale. Accolta l'idea con entusiasmo, si pensò al primo passo da compiere: far abrogare l'ordinanza del prefetto. Nonostante le difficoltà iniziali Vintaloro riuscì ad ottenere il nullaosta con il vincolo di assumersi la responsabilità del mantenimento dell'ordine pubblico. Ricominciò così l’antica usanza.
Il Carnevale, inteso come festa che celebrava e propiziava le trasformazioni della natura e scandiva i ritmi della vita individuale e sociale nonché della produzione, non conserva oggi più i significati e le funzioni di un tempo. L'enigma del Carnevale, radicato in un orizzonte esistenziale ormai ai margini della sensibilità moderna, è stato progressivamente banalizzato entro confini che ne hanno reso oscuro l'originario valore sacrale (Mannia 2017). Tuttavia, persistono, pur a volte nella loro parvenza, alcuni topoi, ovvero delle strutture e dei simboli di rituali arcaici. Figure inscindibili e fondamentali, nonché caratterizzanti, dell’intera festa, rimangono la figura della maschera tipica, il riavulicchio, che rappresenta un unicum nell'intera Isola, e delle due figure emblematiche unite dal vincolo matrimoniale del Nannu e della Nanna destinate al ritualizzato rogo sacrificale. Il tempo circolare. Il Carnevale, il riso e i Dubbi Il Carnevale, correlato ai periodici riti di rifondazione del cosmo e della società in una visione del tempo circolare, si colloca all’interno delle feste di Capodanno. Rappresentazione quest'ultime della realtà con precise coordinate spaziali e temporali e poste tra la chiusura di un ciclo agrario e l'apertura di uno nuovo. Nelle società agricole il tempo si relazionava con i periodi di semina e di raccolto, il ripetersi delle stagioni e la connessa ritualità volta a garantire la fecondità. «I ritmi produttivi e riproduttivi che segnavano la fine e l'inizio dei cicli vitali, rappresentavano la fine e l'inizio dell'anno naturale, mettendo annualmente a rischio la sopravvivenza del tempo cosmico e sociale» (Buttitta 2003: 25). Per garantire e assicurare la sua ciclicità, era necessario simularne, ripetendole, la morte e la rinascita. La rifondazione cosmogonica è riscontrabile nelle azioni e nei simboli del Carnevale stesso, attraverso le maschere, aventi funzione momentanea di capovolgimento del reale, e la figura del Nannu, chiamato a Corleone in maniera estesa con il nome di Nannu ri carnalivari, con il suo sacrificio rituale e purificale. Il Carnevale, con l'avvento del cristianesimo, da rituale primaverile dedicato alla fertilità e al rinnovamento, si modificò in una festa di abbandono, allegria e trasgressione collettiva che precedeva la penitenza della Quaresima, ed in questa veste fu assorbito nella tradizione cattolica. A Corleone, così come in quasi tutta la Sicilia, si era soliti festeggiare i quattro giovedì, joviri, precedenti il giorno ultimo della festa, rispettivamente chiamati: di li cummari; di li parenti; zuppiddu; grassu. I festeggiamenti veri e propri comunque iniziano lo joviri grasso, ovvero l’ultimo giovedì che precede la Quaresima, celebrato una volta, oltre che con le mascherate, con lauti banchetti consumati in famiglia, per poi concludersi alla mezzanotte del martedì grasso. I due giorni che seguono l'ultima domenica di Carnevale vengono chiamati i ddu jorna ru picuraru. Il Carnevale è la festa del popolo incentrata sul riso e scherzi, rappresentazione della realtà invertita, parodia della vita e simbolo della trasgressività durante la quale tutto è consentito. Inoltre, è sempre stata e sempre sarà sinonimo della licenziosità, del divertimento estremo, dello sfarzo nel gioco, nel travestimento e nella tavola.
La libertà, la disinibizione e il riso, componenti essenziali del Carnevale, rappresentano un momento di rottura della regolarità scardinando le logiche comuni e sovvertendo, potenzialmente, gli ordini sociali. Ovviamente il riso non può essere, in questo contesto, individuale. Per essere efficace, infatti, deve essere collettivo, universale, sociale, liberatorio, dissacratore, rivitalizzante e nello stesso tempo avere la capacità di affrancare dalla paura del sacro e dal divieto autoritario; è indubbiamente ambivalente, gioioso, allegro, ma è contemporaneamente beffardo, sarcastico, nega e afferma nello stesso tempo, seppellisce e resuscita. E tra il riso e l’ambiguità della festa si ponevano i dubbi di carnivali. Nel corso dell’intera durata della festa, le famiglie e gli amici erano soliti riunirsi a turno nelle rispettive abitazioni e trascorrere le serate ballando, mangiando e sfidandosi a gara cuntannu i dubbi. Questo tipo di indovinelli si presentavano, all’apparenza, con espliciti riferimenti al contesto sessuale e a parti intime del corpo, vietati da pronunciare, secondo la morale dell’epoca, durante il resto dell’anno. Indovinelli la cui domanda posta in maniera apparentemente volgare, oscena e sboccata, in realtà celava, nel suo doppio senso, una risposta alquanto innocente e di un candore assoluto. Chi poneva i quesiti era obbligato, se non riceveva la risposta, a dare la relativa soluzione tra le risate corali, scaccani, dei presenti. Si riportano sotto alcuni dubbi registrati a Corleone. - A fimmina ca è di sutta joca e sciala/ U masculu ca è supra si consuma1. (La grattuggia e il formaggio) - Trasi dura e nesci modda2.(La pasta) - Aiu na cosa quantu un parmu/ trasi asciutta e nesci sculannu/ prima cci voli la nfilata/ trasi asciutta e nesci vagnata3. (La pasta) - A vutata ri mezzanotti/ pilu cu pilu si strincinu forti4. (le ciglia) Solamente durante il periodo di Carnevale, dal joviri di li cummari al martedì grasso, era possibile recitarli senza ricevere nessuna sanzione morale da parte della comunità. In questo particolare momento ed in questo contesto tutto ciò provocava risate e ilarità, severamente vietato ripeterli nei periodi non canonici, ovvero fuori dal Carnevale. I dubbi hanno una verità doppia: una scoperta e comprensibile (quella sconcia), l’altra nascosta e da scoprire (ingenua). La realtà si pone in questo caso con tutta la sua valenza ambigua. In un certo senso l’indovinello è una verità mascherata dove si invita l’interlocutore a vedere cosa c’è dietro all’apparenza. La risposta vera, infatti, non è quella che si mostra più scontata. Semel in anno licet insanire (una volta l’anno a tutti è consentito perdere la ragione), finito il Carnevale tutto rientra nella norma, anche quello che è considerato contro la morale come i dubbi. Con il Mercoledì delle Ceneri si accede al periodo Quaresimale, periodo di penitenza e di digiuno che prepara al Triduo Pasquale, con il quale si ottiene l'espiazione dei propri peccati. Giungono al termine gli scherzi di Carnevale. La successiva morte del Cristo preannuncia la resurrezione, è il ritorno alla vita di tutta la natura con la germinazione delle messi e del ridestarsi della stagione in cui tutto nasce e rinasce.
Le maschere e il riavulicchiu Paradigmatiche ed essenziali figure della rappresentazione carnevalesca sono le maschere. Vengono indossate con lo scopo di accrescere le forze creative della vita e allo stesso tempo per scacciare quelle negative. Figure polivalenti, esse sono il simbolo di ogni metamorfosi, alterità e inversione parodica. Indossare una maschera, con la sua connotazione eversiva, è uno dei modi per disfarsi momentaneamente del proprio ruolo sociale per assumerne uno diverso. Attribuirsi un'identità altra da sé «è la condizione necessaria per un ritorno impetuoso al caos primigeno, ad un radicale ribaltamento dei ruoli, ad uno scardinamento delle regole di vita quotidiana, senza separatezze di spazi e di tempi» (Sarica 2003). Mascherare il volto e il corpo significava inoltre assumere valenze e poteri di entità sovrannaturali, figure con le quali compiere riti al fine di operare il bene della comunità. Le maschere in questo caso si identificano con le divinità sotterranee e i demoni vegetali e agrari, personificazioni primitive del tempo che oscilla fra la fine e il nuovo inizio, la sterilità e l'abbondanza. «La maschera nasconde, la maschera spaventa, soprattutto però essa crea una relazione tra l'uomo che la porta e l'essere che essa rappresenta» (Kerenyi 1979). Raffigurano infine, simbolicamente, le anime dei defunti che, evocati attraverso riti propiziatori, salgono sulla terra per auspicare a volte un abbondante raccolto (cfr. Toschi1955); entità di natura ctonia che irrompono con grande frastuono nel mondo dei vivi per ricevere doni e offrire in cambio benessere e prosperità. Tra le maschere carnevalesche presenti a Corleone, ed oggi dimenticate, vi erano quelle dei pastori, picurara, che giravano per le strade del paese a cavallo con il volto imbrattato di fuliggine o coperto da facciali, maschere di cartapesta o di cartone. Indossavano cappelli variamente addobbati con pennacchi ed altro, giubbotti e pantaloni, vrachi, di pelle caprina o di pecora ed ai piedi scarponi a volte ricoperti di pelo; i campanacci, legati alla cintola, e le brogne, venivano suonate per rimarcare ed indicare la loro presenza. Altre rumorose e tripudianti maschere erano quelle composte da: il giardiniere, u jardinaru, che per distinguersi dagli altri portava grossi ramolacci; i negri, vestiti con lenzuola bianche e con la faccia tinta di nero con il carbone; i fidanzati, in abiti goffi. I contadini, quasi tutti a cavallo, indossavano maschere ed abiti bizzarri, cappelli variopinti e di strana foggia con ornamenti di carta. La maschera simbolo del Carnevale di Corleone era, ed è, comunque, quella della figura infera del riavulicchio. Il costume, il quale secondo testimonianze orali doveva essere anticamente esclusivamente di colore rosso o scarlatto, è costituito da pantaloni, dove sul retro vi è la coda, una casacca, un collare e un cappuccio con le corna. Alle estremità, pizzi, sono cuciti, per un totale complessivo, 47 campanellini di rame, i ciancianeddi. La maschera portava a tracolla una bisaccia rossa, viertula, ed in mano una frusta, zotta, chiamata in corleonese in questo contesto u cacciaturi5, composta da un bastone di legno alla cui estremità era annodata un metro di corda terminante con una ciancianedda; alcuni utilizzavano u niervu, scudiscio realizzato con il membro del vitello intrecciato ed essiccato.
La presenza di maschere con effigi demoniache è attestata non solo nel Carnevale ma anche in altre festività analoghe. È significativo come alcuni degli aspetti carnevaleschi, come quello del diavolo che a noi qui interessa, si riscontrino anche in alcuni riti della Settimana Santa. È il caso dei diavoli di Prizzi (paese vicino al nostro) i quali, durante la Domenica di Pasqua, inscenano l'abballu di li diavuli impedendo l'incontro tra le statue raffiguranti il Cristo risorto e la Madonna. Anche a San Fratello (Me), con la quale Corleone condivide la comune ripopolazione da parte di colonie gallo italiche, provenienti dall'Italia settentrionale e appartenenti alla gens normanna, sono presenti durante il Venerdì Santo delle maschere similari, quelle dei Giudei, i quali disturbano con il rumore delle catene e il suono delle trombe il procedere delle processioni del Cristo morto e dell'Addolorata. In una foto della fine del XIX secolo, scattata durante il Venerdì Santo a San Fratello, e conservata presso il museo etnoantropologico Pitrè di Palermo, accanto ai Giudei è presente una maschera identica al nostro riavulicchio, della quale si è persa memoria. La spiegazione di questa analogia tra il Carnevale e la Pasqua, pur con le nette differenze, è motivata dal fatto che «Cristo e Carnevale si richiamano a un comune archetipo ideologico. Non diversamente da Cristo, Carnevale è il capro espiatorio che si fa carico dei peccati del mondo, ma è anche l'eroe rigeneratore che trae questo ruolo simbolico dal suo porsi come coincidentia oppositorum tra l'angoscia dell'esaurirsi del tempo e la speranza del suo immancabile rigenerarsi, tra il vecchio e il nuovo, tra la morte e la vita» (Buttitta 2003). Altra maschera esplicitamente demoniaca era quella dei Nzunzieddi i quali, fino agli anni Cinquanta, durante la vigilia della festa di Sant'Antonio Abate, inscenavano una pantomima itinerante a Monterosso Almo (RG); si consideri che tradizionalmente il periodo del Carnevale iniziava subito dopo l'Epifania o il 17 gennaio, festa del Santo. È un caso, o forse non lo è, che il paese nel 1168 fu conquistato dal normanno Goffredo figlio del conte Ruggero. Sempre riconducibili alla dominazione normanna sono i paesi peninsulari di San Demetrio Corone, in provincia di Cosenza, di Aliano, in provincia di Matera e di Tufara, in provincia di Campobasso, dove sono presenti durante il Carnevale delle maschere equivalenti. In altre tre città la somiglianza tra il nostro riavulicchio e le loro maschere tradizionali risulta più evidente: Mezzenile, comunità alpina delle Valli di Lanzo, in provincia di Torino; Valtorta nella Valle Brembana, Bergamo; Vilaseca, a Barcellona di Spagna. A Mezzenile durante il Carnevale, branlou, equivalente di schiamazzo e confusione, girano per le strade del paese, insieme alle altre maschere, due diavoli rossi che con i loro scherzi e frastuoni rappresentano i disturbatori della festa. I diavoli «erano impersonati da individui forti e di costituzione robusta che si spostavano con movimenti rapidi e sfrenati con un forcone simile a quelli usati per la fienagione» (Robetto 2015)6 . A Valtorta, tra le maschere carnevalesche sono presenti i diàol furchetì, dal ghigno beffardo, vestiti di rosso con lunghe corna e con un grosso bastone biforcuto7. A Vilaseca, i diavoli, diables, i quali brandiscono dei tridenti, sono i protagonisti di una festa tradizionale catalana che si svolge il 17 gennaio in onore di Sant’Antonio Abate, quella del Ball de diables, che inscenando una danza, correfocs, inseguono i presenti stordendoli attraverso un’orgia selvaggia di rumore8.
Tutti e tre i paesi hanno subito la dominazione francese i quali esportarono i propri usi, costumi e tradizioni. Se è ugualmente vero che i diavoli sono i protagonisti di molte feste tradizionali, tra le quali il Carnevale, in quanto signori dell’altro mondo, mundus riversus, resta un dato di fatto che tutte queste forme di riti e di spettacoli, organizzati in modo comico, erano molto diffuse in tutti i paesi dell’Europa medievale, distinguendosi per la loro ricchezza e la loro complessità, soprattutto in quelli di cultura romanza, e particolarmente in Francia. Sono infatti presenti registri di performance diavolesche già intorno alla metà del secolo XII, sotto forma di intramezzi, di farse burlesche e balls parlats,. Un esempio è dato dal quadro a masquerade in XVII century, del 1887, del pittore Adriene Moreau (1843-1906) nel quale è rappresentato un corteo in costume con in testa un personaggio travestito da diavolo che utilizza un vestito rosso con cianciane simile al nostro riavulicchiu. In un libro del 1777, edito in Francia, inoltre, vengono descritte alcune feste che si svolgevano in Provenza, tra queste Le grand juec deis Diablés e Lou pichour juéc deis Diables (ou l’Armetto); nelle illustrazioni delle due tavole allegate, sono presenti gruppi di uomini vestiti da diavoli, somiglianti alla nostra maschera di Carnevale, che indossano dei campanacci9 . Lo stesso nome della maschera carnevalesca bergamasca di Arlecchino, demone ctonio per eccellenza, deriva dal francese Hellequin che a sua volta trae origine dal danese Erikonig10 . E i Normanni non erano altro che un popolo di vichinghi di discendenza danese e norvegese i quali si trasferirono nel Nord della Francia nel X secolo. È ovvia la difficoltà di un'analisi comparata che faccia emergere isomorfismi rivelatori tra una costellazione di fenomeni similari, le quali si presentano però eterogenei sia dal punto di vista cronologico che di provenienza spaziale e culturale (Castelli 1997). A prescindere dalle probabili ed ipotetiche origini normanne resta evidente il fatto che il riavulicchiu è latore delle pulsioni trasgressive della festa e gode di tutte le licenze concesse alla libertas carnevalesca. La dimensione in cui si muove è quella rituale di gruppo, dove il movimento dato da salti e balli improvvisati consentono ai sonagli di tintinnare. Le cianciane costituiscono la componente essenziale del costume del riavulicchio e della ritualità carnevalesca tradizionale. Queste sono dei veri e propri dispositivi sonori il cui impiego, oltre alla connotazione apotropaica poiché il rumore tiene lontano le presenze ostili, ha valore di segnalatore acustico dell'alterità della figura a cui sono associati, annunciando la loro presenza e accompagnando il ritmare dei loro movimenti. Le cianciane producono un suono irregolare, confuso, sgradevole, u scrusciu, segnalando «un'anomalia nello svolgimento di una catena sintagmatica, cioè una rottura dell'ordine cosmico o umano. L'uso irregolare del suono con gli eccessi sonori, del gesto e degli oggetti, rappresenta, nella sua eccedenza, la rottura delle norme di misura e di confine. Ecco che il dramma rituale del frastuono risulterà allora funzionale ad auspicare o a marcare il ritorno a una situazione di normalità» (Bonanzinga 2002). Le maschere adoperavano inoltre i campanacci, crepitacoli, troccole e tabelle, impiegate anche nelle processioni religiose, e le brogne, conchiglie univalve utilizzate come strumento a fiato con le quali, soffiandovi dentro, si produceva un suono roco e rimbombante.
Anche il numero stabilito, ed oggi non più osservato, di cianciane da utilizzare aveva un determinato significato. Il numero 47 infatti rappresenta l'equilibrio instabile, sta ad indicare inoltre i ritorni, l'esilio e i cambiamenti repentini11 . Nella smorfia, inoltre il numero è associato al “morto”, indicando la loro presenza tra noi e mettendo in evidenza di come i defunti siano capaci di mantenere contatti con la vita terrena. Non bisogna inoltre dimenticare che l’ultimo martedì di Carnevale cade invariabilmente 47 giorni prima della Pasqua. È chiaro il riferimento alla festa. Nel 1948 tale usanza doveva non essere più comunque osservata. I riavulicchi creavano scompiglio, divertimento e riso, ma provocavano anche timore. Ciò avveniva non solamente attraverso il travestimento ma anche tramite il ritmo delle cianciane e gli schiocchi del cacciaturi, il quale, abilmente usato, imitava una minaccia di fustigazione. Vi erano inoltre due maschere, delle quali si è persa la memoria, le quali guidavano, aprivano e chiudevano, il corteo dei riavulicchi, figure similari a questi ma di diverso colore; uno bianco con delle toppe rotonde di colore nero e l’altro nero con le toppe rotonde di colore bianco, entrambe con mantello. Probabilmente equipollenti dell’inverno e della primavera, maschere guida che si facevano garanti dell’ordine e del perfetto svolgimento della festa. Le due maschere indossavano un collare fatto di corda intrecciata e una cinta di cuoio ai quali erano attaccati piccoli campanelli e grosse cianciane che tintinnavano durante il loro percorrere per le strade mentre suonavano la brogna che tenevano legata alla vita. Una delle maschere si posizionava all’inizio del corteo l’altra alla chiusura. È evidente che tutte queste maschere carnevalesche rappresentano le forze ctonie che periodicamente tornano sulla terra per instaurare il caos originario in modo da rinnovare la fertilità naturale e umana (Bonanzinga 2002). Sarà compito del Nanno infine, con il suo sacrificio rituale, di ristabilire la normalità del cosmos. Il Nannu e il rogo La festa del Carnevale termina il Martedì Grasso. «L’ultimo giorno di Carnevale si veste con indumenti vecchi il Nannu, fantoccio di paglia che si pone al balcone o su una sedia o si porta in giro e gli si fanno i tradizionali allegri piagnistei» (Zimbardo 1949). L'aspetto del fantoccio che rivela un'età avanzata, quella di un Nannu appunto, pone l'accento sugli aspetti deteriorati e consunti del ciclo vitale. La tradizione associa, solitamente, al Nanno una moglie, a Nanna, controfigura femminile, antagonista o alter ego, metafora evidente dell'unione con il mondo e la terra e della fecondità da essa derivante. Il fantoccio del Nannu è vestito solitamente con un cappello di paglia, camicia, giacca con cravatta e pantaloni di velluto. A Corleone esisteva una relazione tra il Carnevale e lo spazio abitato. Ogni quartiere, infatti, festeggiava il proprio Carnevale con la lettura del testamento e con la figura di un proprio Nanno il quale solitamente veniva portato per le vie del rione ed infine bruciato o ridotto a brandelli dalla gente. La rivalità tra i vari quartieri si manifestava con reali aggressioni carnevalesche attraverso petruliate e lancio di oggetti tra gli antagonisti; espressioni di contese antiche o manifestazioni della volontà di tenere simbolicamente lontano dal proprio territorio l'alterità, il male o ciò che fosse ritenuto sconveniente (Caro Baroja 1989). Il Nanno veniva trasportato a dorso di mulo o steso su un cataletto o sopra un carretto, solamente dai riavulicchi i quali lo accompagnavano verso il suo ultimo viaggio. Viene infine messo a morte dopo essere stato condotto in giro per la città con una processione che ha tutti i caratteri delle ambulazioni propiziatorie. Anche lo spazio scelto per il sacrificio era il luogo ritenuto più significativo per l’intero rione, una piazza o al centro di un incrocio, ai quattru punta ri cantunera12 .
Giunti nel luogo stabilito il Nanno e la Nanna venivano fatti sedere su una sedia sotto la quale vi era una catasta di legna o sospesi nel vuoto grazie ad una fune tesa tra finestre o balconi posti dirimpetto. Solitamente nei pressi dei due vetusti coniugi veniva imbandita una tavola nella quale la gente portava gli avanzi delle pietanze da loro consumate. Il cibo offerto al Nanno ed alla Nanna, e per questo motivo sacralizzato, non poteva essere assolutamente mangiato dai presenti. In attesa dell'azione purificatoria le maschere un tempo «chiancianu u Nannu», ovvero inscenavano u repitu, u lamentu, o almeno una sua parodia13 . Così come tutta la celebrazione del Carnevale, «rigorosamente cerimoniale è anche la lamentazione funebre, con una sua precisa collocazione temporale all’interno dell’insieme rituale, con sue precise modalità» (Guggino 2004). Naturalmente con le dovute differenze rispetto al vero pianto rituale, a rimarcare l’alterità e l’inversione dei ruoli presenti nel Carnevale. A compiangere il Nanno infatti non erano le donne ma gli uomini, con il volto celato da maschere, e i riavulicchi. Anche i tempi erano diversi. U repitu del Carnevale veniva effettuato durante il corteo e prima che il Nanno venisse bruciato, pertanto durante la sua permanenza in vita, a differenza di quello reale che veniva eseguito appena constatato il decesso della persona cara, durante la veglia funebre e/o durante u visitu. «Il pianto funebre per Carnevale può essere una semplice parodia del pianto funebre per la morte di un qualunque individuo, ma può essere anche il ricordo del cordoglio per la morte di una divinità o di un personaggio mitico a cui si ispiravano i riti di espulsione periodica» (Toschi 1955). Gli eccessi dei gesti, delle grida e dei lamenti, nei quali il riso predomina sul pianto, rimandano alla dimensione orgiastica propria delle feste d'inizio anno. Viene infine letto il testamento al cui interno sono contenute le ultime volontà del Nanno il quale dispensa consigli morali e raccomandazioni ai figli rimproverando ed evidenziando inoltre i loro vizi e difetti, tutto questo perché non si ripetano in futuro gli stessi errori dell'anno trascorso. Il testamento è un dispositivo generatore di abbondanza che coinvolge sia il donatore che il ricevente. Il fatto che il lascito consista in cose effimere, al limite dell'assurdo tanto da procurare ilarità, è da associare anche alla valenza catartica del riso. Si svolge un'autoconfessione circoscritta al proprio cerchio familiare, specchio invero, allegoricamente, dell'intera comunità. Tutto ciò avviene secondo una modalità scherzosa. «La satira ha una precisa funzione di denuncia pubblica, di liberazione della collettività dal male compiuto da singoli suoi membri, liberazione che si ottiene mediante enunciazione coram populo» (idem: 2). Se il Nanno deve essere sacrificato fisicamente per il bene della comunità, essendosi fatto carico del male accumulato da questa durante l'anno, lo deve fare anche simbolicamente liberandosi dei propri beni terreni, in questo caso effimeri. Infine, i fantocci vengono dati alle fiamme o smembrati. Nel primo caso tutti i presenti iniziano a danzare intorno al fuoco in modo propiziatorio mentre le fiamme avvolgono il Nanno, intenti a celebrare la liberazione dell'intera collettività dai vari mali che l'affliggevano. Sino agli anni Cinquanta dello scorso secolo venivano avvolte attorno al collo del Nanno collane di salsiccia e trizze di aglio e peperoncino che finivano carbonizzati insieme a lui. Gli alimenti nel contesto festivo - sia quelli consumati dal popolo che quelli questuati alle maschere o fatte indossare come dono al fantoccio sacrificale e lasciate consumare dal fuoco - sono elementi distintivi della rinascita della natura e della società la cui ostentazione ritualizzata è in grado di rassicurare, in momenti di grave e rischiosa perdita vitale, sull’eterno ritorno della fecondità e dell’abbondanza. «Per la rigenerazione del tempo e della vita, ma di una nuova vita in cui le storture e le colpe siano dimesse, i torti e le ingiurie riparati, occorre che una vittima sia immolata, un animale, un uomo, un dio, un animale-dio, un uomo-dio che al momento della sua morte, con la sua stessa morte riproduca vita» (Buttitta 2003). Nel nostro caso il capro espiatorio è un essere umano, ossia una sua rappresentazione.
Le finalità di tutte queste cerimonie invernali sono l’annullamento del tempo consumato, di cui il Nanno è simbolo, e dove le fiamme promuovono la rinascita di un nuovo ciclo dell’anno. Il funerale ed il rogo finale non sono altro che una «epurazione, concernente gli influssi malefici incarnati in forma visibile o, quantomeno, scaricabili su un tramite materiale che agisce da veicolo per allontanarli dalla gente, dal villaggio o dalla città» (Frazer 1992). La transizione è resa attraverso l'uccisione del Nanno che libera e apre al nuovo, alla ricchezza vitale, al bene, all'armonia delle forme. «È una morte liberatrice dei mali della comunità, è una morte condizione necessaria per cui possa sorgere una nuova vita, è una morte che assicura la fertilità, la prosperità» (Toschi 1955). La morte del Nanno, e dunque del Carnevale, è la sopravvivenza di un rito il quale si riconnette alle antiche cerimonie sacre di espulsione periodica del male. Rappresenta inoltre il vecchio Dio dei raccolti che va scacciato perché non è più funzionale per la crescita dei nuovi. Lo schema rituale che porta verso la nascita delle nuove forze vegetative e produttive, a differenza della Pasqua, non prevede la resurrezione dello stesso personaggio del Nanno ma l'avvento di uno nuovo. Questo perchè «il Carnevale celebra il disordine e il personaggio di Carnevale, personificando il senso della festa, rappresenta esso stesso il disordine. Ora, perchè l'ordine appaia, il disordine deve sparire. La rinascita di Carnevale significherebbe solo la rinascita del disordine, l'esatto contrario di quello che è l'auspicio dell'intera festa» (Martorana 1996). Si nega la permanenza dell'ordine costituito auspicando la genesi di un ordine diverso e migliore. Si ritualizza la fine del tempo già vissuto, consumato e carico di esperienze negative, dove il Nanno morendo non preannuncia una sua rinascita salvifica ma cede il posto al suo successore, tutto questo per dare spazio ad un nuovo ordine, cosmos e tempo dalle potenzialità ancora intatte.
Nel rogo del Nanno «il lugubre e il gioioso si fondono in un unico spettacolo, come in un unico significato: muore il male, per mano del coro, che canta e danza e si esalta. Il mito finisce qui; ci sarà una ripetizione, quando il ciclo dell'anno giungerà al termine» (Toschi 1955). Il sacrificio di colui il quale si fa carico di tutti i mali apre alla purificazione e al rinnovamento dell'organismo sociale. Si ristabilisce il tempo sacro della creazione e si riattualizza la cosmogonia affinché si ripristini il tempo primordiale. Si è concluso il rituale, del vecchio Nanno resterà solo la cenere. Quello nuovo, virtualmente, prenderà il suo posto ed aspetterà l'anno successivo al fine di essere sacrificato, come si è sempre fatto, per il bene della comunità.
NOTE 1 - La femmina che è di sotto/ gioca e si diverte/ il maschio che è sopra si consuma. 2 - Entra dura ed esce molle. 3 - Ho una cosa quanto un palmo (vecchia unità di misura) / entra asciutta ed esce scolando/ prima bisogna infilarla/ entra asciutta ed esce bagnata. 4 - Al termine della mezzanotte/ pelo con pelo si stringono forte. 5 - Frusta utilizzata durante l’antica trebbiatura, pisatura, del grano per incitare l’animale a percorrere circolarmente l’aia. 6 - Per approfondimenti si vedano: Pocchiola Viter-Sesia 2003; Robetto 2015. 7 - Per approfondimenti si veda: Bagnoli 1983. 8 - Per approfondimenti si veda: Palomar 1987. 9 - Si veda: Gaspard, 1777: 83-87 e le due tavole allegate. 10 - La radice stessa del nome di origine germanica non ne nasconde le origini infernali, Holle Konig (re dell'inferno), traslato in Helleking e quindi in Harlequin. 11 - Anche la dislocazione nel costume delle cianciane assume una determinata valenza simbolica: nei pantaloni 5 per gamba per un totale di 10; nel vestito 5 per manica per un totale di 10; nella coda 1 all'estremità; nel cappuccio 2 (nelle corna); al collare 12; nella cinta 12. Per un totale appunto di 47 cianciane. Sulla simbologia dei numeri si vedano: T. Crumps, 1996; J. P. Brach, 1999; C. Lapucci, 2010. 12 - I crocicchi sono sempre stati considerati luoghi sacri e magici. Originariamente esistevano i Lares Compilates, divinità etrusche che vegliavano e proteggevano i crocevia. Il re romano Servio Tullio istituì i Compitalia, ovvero la festa dei Compita (dei crocicchi), durante la quale si rendeva omaggio ai Lares Compitales, le cui edicole votive sorgevano proprio in corrispondenza dei Compita. Inizialmente si celebrava tra la fine dei Saturnali e gli ultimi giorni di gennaio, in seguito la data venne spostata tra il 3 ed il 5 gennaio. 13 - In tutta la Sicilia, sino ad un cinquantennio fa, era diffusa tale tipologia di pianto rituale dedicato ai defunti, praticato dalle madri, dalle sorelle, dalle mogli o dalle prefiche, figure femminili che per conto dei familiari o degli amici del morto venivano pagate per intonare la lamentosa cantilena. La presenza di quest'ultima figura contrassegnava il prestigio del defunto e il rispetto che i familiari avevano nei suoi riguardi. Si metteva in forma il dolore radicale della morte attraverso la cantilena e il gesto. Tale compito era assegnato rigorosamente alle sole donne. Per approfondimenti si veda: De Martino 1958, Guggino 2004. Riferimenti Bibliografici
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