Leggende e Tradizioni |
Avvistamenti UFO e culti arcaici |
20 Agosto 2020 | ||||||||||||||||
Esiste una relazione tra i riti antichi e le apparizioni di luci notturne sulle vette delle montagne?
Essendo nato in una valle interna delle Marche, parallela alla catena montuosa dell’Appennino umbro-marchigiano, l’unica con un orientamento Nord-Sud, quindi trasversale a tutte le altre valli marchigiane, che invece seguono l’andamento Ovest-Est dei fiumi fino al mare Adriatico, sin da bambino sono sempre stato attratto dalle montagne che cingono la mia vallata e, in particolare, alla più elevata e dominante: il monte San Vicino. Dato che questa montagna è anche la più alta della dorsale appenninica marchigiana (parallela a quella umbro-marchigiana), essa deve avere avuto, sin dalla più remota antichità, una particolare importanza per le popolazioni italiche che abitavano nel territorio delle odierne Marche. Il monte San Vicino è infatti visibilissimo sia che si arrivi da Ovest, cioè dalla confinante Umbria o sia che si venga da Est, quindi dalla costa del mare Adriatico, ma la sua sagoma è inconfondibile anche se lo si guardi da Sud, cioè dai monti Sibillini, o da Nord. La montagna, quindi, ha sempre rappresentato un importante punto di riferimento “visivo” per coloro che si spostavano a piedi o a cavallo lungo le vie di comunicazione tra gli empori greci della costa adriatica (Ancona, Numana ecc.) e l’Etruria. Ma il monte San Vicino ha anche un’altra particolarità: esso infatti, a seconda da dove lo si guardi, cambia aspetto! Visto da Ovest, quindi da Matelica e dalla sua vallata, ha infatti una forma piramidale, come le piramidi dell’antico Egitto, se lo si guarda da Nord ha la forma di un vulcano, mentre visto dal Piceno assume un aspetto “gibboso”, a gobba di cammello, infine dall’anconetano o dal mare esso ha una forma trapezoidale, simile a quella degli “ziggurat” dell’antica Mesopotamia o alle piramidi Azteche e Maya.
Questa sua evidente “trasfigurazione” ha quindi contribuito ad assegnare alla montagna una componente “magica” e dunque “sacrale” per le antiche popolazioni umbre, celtiche e picene che vivevano alle sue pendici, conservatasi poi in epoca romana e fino ai giorni nostri. Questa tesi è avvalorata dal ritrovamento, quando venne eretta la prima croce di legno sulla vetta del San Vicino, di idoletti e bronzetti votivi, ma più recentemente, anche dal rinvenimento di altro materiale votivo, frutto di scavi clandestini, come le monete del dio Giano bifronte. Questa era la più antica delle divinità maggiori italiche e romane, il cui culto era precedente a quello dello stesso Giove. Nella religione più antica, Giano era una divinità solare, associata all’alba, quindi al “principio” del giorno e, per estensione, all’inizio di tutto e per questo il primo mese dell’anno romano, Gennaio (Januarius), prese il suo nome. Essendo una divinità solare, legata al ciclo del giorno, Giano era associato anche alla “fine”, cioè al tramonto e per questo lo ritroviamo raffigurato con due teste, una che guarda ad est e l’altra rivolta ad ovest (Giano bifronte). Le porte del suo tempio a Roma si aprivano infatti ad Est e ad Ovest. Essendo quindi una divinità collegata ai punti cardinali, essa era la protettrice degli incroci, delle strade e quindi dei viandanti, sui quali “vigilava”, la sua statua era infatti sempre presente in prossimità dei crocevia. Per estensione, Giano era anche la divinità che vigilava sui confini e, guarda caso, la catena del monte San Vicino rappresentava in antichità il confine tra le città di stirpe umbra, come Matilica, Tuficum, Attidium, da quelle di origini picene, come Cingulum, Trea e Septempeda, situate ad Est della dorsale montuosa. D’altra parte, che nella nostra zona il culto al dio Giano fosse molto diffuso ne abbiamo riprova in parecchi toponimi ad esso legati, come il fiume Giano che attraversa Fabriano e si immette nell’Esino in prossimità di Borgo Tufico (Tuficum), proprio ai piedi del San Vicino. Ma soprattutto nel toponimo della Gola di Jana (da “Janua”, “porta”), situata alle falde del monte e dove, guarda caso, sin da epoche remotissime, esisteva una strada che metteva in comunicazione l’Adriatico con l’Umbria e l’Etruria, esattamente con direzione Est-Ovest e che veniva utilizzata dai pastori con le greggi nelle loro transumanze transappenniniche verso il mare Adriatico. La radice indoeuropea del suo nome “ia” allude al concetto di “passaggio”, come il gaelico “ya-tu” (guado) ed il sanscrito “yana” (porta). In effetti, il dio Giano era il “custode delle porte” (“Ianitor”, da “ianua”, in latino “porta”) e di ogni passaggio, quindi anche di ogni inizio (anno, mese, giorno ecc).
Giano era dunque una divinità solare che aveva il controllo delle “Porte del Cielo” (Januae caelestis aulae), aperte all’alba (Oriente) e chiuse al tramonto (Occidente) dal Sole che vi transitava col suo carro splendente e “iani” in latino si chiamavano infatti gli archi di passaggio a forma di volta, simbolo della volta celeste. Difatti, le varie “Valli di Jana” del nostro Appennino sono quasi sempre costituite da anguste forre e da pareti a precipizio che sembrano chiudersi come una volta o un arco, cioè come delle vere e proprie “Porte della Montagna”. Inoltre, come detto, fin dall’antichità, questa valle era attraversata da un’importante strada che metteva in comunicazione l’Adriatico ed il Tirreno, utilizzata anche dai mercanti greci che, dagli empori di Numana ed Ancona, commerciavano con le città-stato etrusche. Ma il dio Giano era anche colui che apriva e chiudeva ogni anno le Porte Solstiziali, che rivestivano un’importanza fondamentale in quanto erano i punti estremi di levata e tramonto del Sole, cioè quelli che segnavano il giorno più lungo e quello più corto dell’anno. A dimostrazione di ciò, osservando la levata del Sole nel giorno del Solstizio d’Estate (21 giugno) dal centro storico di Matelica, ho potuto notare come esso sorga esattamente nella sella posta tra i monti Colle del Vescovo e Pagliano, che rappresenta appunto la “Porta d’Oriente” della Valle di Jana. Viceversa, osservando da Jana o da Roti il tramonto del Sole nel giorno del Solstizio d’inverno (22 dicembre), si noterà come esso declini in direzione di Matelica e delle montagne situate a Sud-Ovest. In origine, quando il dio Giano veniva raffigurato bifronte su sculture e monete, le due facce erano una barbuta e l’altra no, forse a simboleggiare il “maschile” ed il “femminile”, quindi il “Sole” e la “Luna”. Anche Plinio il Vecchio lo rappresenta come un dio solare a due facce, mentre Macrobio nei Saturnalia dice che Gennaio (Januarius) era dedicato a Giano, dio con due facce, in quanto fuso con Jana, cioè Diana, chiamata da Varrone anche “Jana Luna”, la dea della luce lunare, protettrice dei boschi e delle fiere selvagge. Varrone sostiene anche che Janus fosse il vero “dio del cielo” e lo identificava addirittura con Jupiter, cioè con Giove stesso! Janus, quindi, rappresenterebbe il “doppio” o il “gemello” di Jana, (come Dianus di Diana), derivando i loro nomi dalla medesima radice ariana “Di”, che significa “risplendente di luce”. È chiaro, quindi, come fra le antiche popolazioni fosse molto radicato il culto di questa divinità duplice della “luce” e, di conseguenza, anche nei confronti del Sole e della Luna. A questo proposito anche il toponimo del monte Argentaro potrebbe derivare dal culto della Luna, in quanto ho potuto più di una volta osservare come questa montagna, posta al lato sud della Gola di Jana, risplenda di color “argenteo” quando l’astro della notte sorge alle sue spalle.
Ma che l’area fosse stata in antichità importante per i culti legati agli astri celesti è testimoniato anche dal toponimo “Roti”, località posta al di sopra della Gola di Jana, il cui nome deriva da “rota”, cioè “ruota”, che in questo caso rappresenta un simbolo solare (i raggi del Sole), ma soprattutto il “ruotare” del Sole e della Luna nell’arco celeste. In effetti, sempre all’alba del Solstizio estivo, il disco solare nella sua ascesa al cielo sembra “rotolare” lungo il fianco del monte Pagliano, che delimita a sud la Porta d’Oriente della Valle di Jana e lo stesso effetto visivo, in maniera anche più suggestiva, è compiuto dal disco lunare, ma al Solstizio invernale. È certo, quindi, che in antichità fosse stato edificato in quell’area un tempio dedicato a questa duplice divinità “Giano-Jana”, “solare-lunare”, e personalmente ritengo che esso fosse ubicato nel luogo dove poi fu costruita l’Abbazia di Roti. Infatti, i grandi lastroni di pietra squadrata presenti nell’aia di fronte l’Abbazia, non appartengono al contesto architettonico del complesso abbaziale e potrebbero quindi essere stati il basamento del tempio pagano solare/lunare, dedicato a Giano-Jana, poi distrutto dai primi monaci benedettini che edificarono l’Abbazia di Santa Maria de Rotis. Siccome la dimora delle maggiori divinità era l’Olimpo e questo solitamente era identificato nella montagna più alta della zona, non si può escludere quindi che le antiche popolazioni che abitavano alle falde del San Vicino identificassero la montagna proprio come la dimora di Giano, oppure dello stesso Giove “penninus”, il padre degli dei. In epoca pre-romana e romana, infatti, le vette dei monti erano considerate dei luoghi sacri dalle antiche popolazioni che vivevano alle sue pendici, tanto che in determinati periodi dell’anno venivano effettuate anche delle processioni, con offerte votive alle divinità che si credeva ivi dimorassero. Tradizione che si è poi tramandata nel corso dei secoli, fino ai giorni nostri, come quella di partire di notte, nel giorno del Solstizio d’Estate e salire in vetta al monte San Vicino per assistere all’alba al sorgere del Sole dal Mare Adriatico, forse come reminiscenza dell’origine e provenienza indoeuropea e transadriatica del popolo Umbro? L’epiteto “penninus” peraltro deriva proprio dal dio celtico Pen che, guarda caso, nella cultura e religione celtica, era la divinità protettrice delle vette! Il culto arcaico delle vette era infatti molto diffuso tra le popolazioni italiche dell’Appennino, che edificarono per questo vari santuari, come quello, probabilmente più famoso, dedicato a Giove Appennino (o Penninus) ed ubicato sul monte Cucco o sul monte Catria, nel territorio di Gubbio, l’antica città umbra di Ikuvium, sicuramente frequentato dai pastori italici e dai sacerdoti umbri appartenenti alla gens Atiedia di Ikuvium.
Il santuario è riportato anche sulla famosa Tabula Peutingeriana del III secolo (una delle più antiche carte geografiche della storia) e in questo sito nel 1530 vennero probabilmente rinvenute anche le famose “Tavole Ikuvine”, il più importante testo rituale di tutta l’antichità classica. Si tratta di sette tavole di bronzo incise, tra il III e il I secolo a.C., che riprendono però testi sicuramente molto più antichi e che descrivono le prassi e i rituali di cerimoniali e sacrifici praticati dagli antichi Umbri. Proprio grazie al ritrovamento delle Tavole Ikuvine, oggi sappiamo che gli antichi Umbri celebravano sacrifici alla triade Grabovia, formata da Giove Grabovio, Marte Grabovio e Vofione Grabovio. Gli Umbri avevano un grande rispetto della natura, tanto da ritenere che un‘apposita divinità, Vofiono Grabovio, il dio incarnato nella montagna, fosse deputata a mantenere l'ordine naturale, allo stesso modo di come l’avevano le popolazioni celtiche dei Galli Senoni, che a partire dal IV° sec. a.C. occuparono gran parte del territorio umbro, fondendosi con la popolazione preesistente. Il termine “grabovio” è d’origine indoeuropea e deriverebbe da “grabo”, “quercia”, ma anche da “graba”, che significa “roccia”. Quella stessa roccia che lungo i versanti delle montagne appenniniche alterna gole, strapiombi e crinali: roccia bianca e calcarea che caratterizza un paesaggio ancora incontaminato e selvaggio.
Come detto, Giove “Penninus”, il padre degli dei, era il dedicatario delle vette, mentre Il Marte italico veniva invocato non solo come dio della guerra, ma anche e soprattutto come protettore delle greggi e dei raccolti. A queste divinità erano collegati, inoltre, anche i fenomeni atmosferici, i temporali e quindi il cielo. A Marte era dedicato il mese di marzo e quanto fosse importante questo mese per gli Italici, lo testimoniano altre cerimonie e riti: il primo marzo, infatti, oltre al capodanno, si festeggiavano solennemente le donne e le partorienti con i Matronalia e con i culti legati a Giunone Lucina, madre di Marte stesso. Nel mese di marzo le antiche touta-tribù stanziate nel cuore d’Appennino, in territorio sabino e umbro, iniziavano la propria migrazione-semina dei popoli d’Italia. Appena le nevi cominciavano a sciogliersi, le comunità decidevano di allargare i propri confini, di spedire i giovani migliori a fondare altre comunità in territori inesplorati. In una di queste “Ver Sacrum”, “Primavere Sacre” degli Italici, dalla città umbra di Atiersio (oggi Attiggio, frazione di Fabriano, Marche), migrarono i giovani che avevano conseguito la maggiore età, ed attraversando verso Ovest una delle “Porte della Montagna” appenninica, andarono a fondare la nuova città di Ikuvio, l’odierna Gubbio. Questo profondo legame “di sangue” tra le due comunità è dimostrato, sempre grazie alle Tavole Ikuvine, dalla presenza ad Ikuvio della “gens Atiedia”, da cui discendevano i “fratres Atiedii”, la più importante casta sacerdotale, a cui erano appunto affidati i riti sacri descritti nelle tavole. I giovani consacrati a Marte erano inoltre preceduti da un animale totemico: il primo fu il Picus, il Picchio Verde, che guidò i Sabini verso il territorio transappenninico che oggi è il Piceno. Quel picchio era denominato non a caso “Picus Martius” e che ritroviamo infatti come una delle principali divinità citate nelle Tavole Ikuvine. In tutto l’Appennino Marte era venerato come il dio custode delle greggi, della semina dei popoli, protettore dei campi e degli eserciti e difatti è la divinità più presente e raffigurata nei bronzetti votivi, che si ritrovano nei Santuari delle vette delle montagne. La controparte femminile era la dea Cupra, che nella lingua paleo-umbra significava “buona”, che faceva parte del trittico delle divinità femminili Bona-Cupra-Sibilla venerate anche dai Piceni e nella zona attorno ai monti Sibillini. È probabile che non solo gli Umbri provenienti dalla città-stato di Gubbio, ma anche gli altri popoli appartenenti alla Lega sacra della comunità Atiedia, s’incontrassero su queste montagne, da loro considerate sacre, in quelli che dovevano allora rappresentare i loro principali santuari. Il culto arcaico delle vette delle montagne era quindi diffuso lungo tutto l’Appennino centrale, ed altri importanti santuari vennero edificati, come la Montagna sacra di Torre Maggiore sui monti Martani, intorno al quale gravitavano una serie d’insediamenti d’altura abitati dagli Umru, il più antico nome rinvenuto nelle fonti scritte con cui gli Umbri venivano identificati, un popolo di origine transalpina e indoeuropea, analogo a quello proto-celtico che diede luogo in Austria alla cultura di Hallstatt e da cui discesero al centro della penisola gli Italici (tra cui gli Umbri e i Sabini).
Ma l’aspetto più interessante presente nelle Tavole Ikuvine, è certamente la descrizione che viene fatta del cosiddetto “Tempio Celeste”, rappresentato dallo spazio visivo che si presentava agli osservatori delle pietre augurali (Flamine e Augure) nell'avvistare gli uccelli (espiazione) da punti ben definiti, ovvero dall'Ara Divina situata a valle della città e dal Tabernacolo posto all’origine, vicino le pietre Augurali. Una riproduzione realistica e materiale di come dovesse essere questo “Tempio Celeste” la ritroviamo nel Santuario (okri) umbro di monte Primo, posto pochi chilometri a sud del monte San Vicino, ma sul versante Ovest della valle. La montagna non è stata scelta a caso, perché anche la sua stessa forma a tronco di piramide ricorda molto gli ziggurat babilonesi o le piramidi azteche, con il santuario posto sulla sua sommità a 1.300 metri s.l.m. Il santuario è ancora ben visibile dalle tracce di terrapieni e di fossati, a vallo ed aggere, che delimitano 4 aree di diversa estensione e sviluppo planimetrico (rettangolare, pentagonale, ovale ed ellittica), concentriche tra di loro, con vari livelli di “protezione” dell’area sacrale. Anche l’orientamento del santuario non è casuale, infatti l’asse principale è orientato a Nord/Ovest – Sud/Est, in direzione rispettivamente del tramonto del Sole nel giorno del Solstizio d’Estate e del sorgere del Sole nel giorno del Solstizio d’Inverno, mentre l’altro asse è orientato a Nord/Est - Sud/Ovest, in direzione rispettivamente del sorgere del Sole al Solstizio d’Estate e del tramonto del Sole al Solstizio d’Inverno. Il ritrovamento nei fossati concentrici di bronzetti votivi, identificabili principalmente con il dio Marte Grabovio, di materiale ceramico databile al XI°-X° sec. a.C., insieme ai resti carbonizzati di ossa di animali, dimostra che nel sito si svolgevano riti religiosi ed offerte votive alle divinità delle triadi. Ma perché andare a costruire un santuario in cima ad una montagna, a 1.300 metri di altezza, quando si sarebbe potuto realizzare più comodamente alle porte della città? Per osservare meglio il volo degli uccelli in migrazione in prossimità dei valichi montani? Ma gli uccelli possono essere osservati anche da una vallata o lungo un fiume, visto che generalmente ne seguono il corso d’acqua proprio per orientarsi durante la migrazione. La mia ipotesi è che le antiche popolazioni umbre edificassero i loro santuari in cima alle montagne proprio per sentirsi più vicini al cielo e quindi alle loro divinità celesti, al Sole, alla Luna, ai pianeti, alle stelle. Ma potrebbe esserci anche un altro motivo, finora completamente trascurato: le apparizioni e le evoluzioni di luci notturne sulle vette delle montagne, che oggi noi chiamiamo comunemente “UFO”. Ritengo infatti molto probabile che anche all’epoca degli antichi Umbri le montagne “particolari” come il monte San Vicino e il monte Primo fossero teatro di apparizioni di “luci” e di altri fenomeni luminosi strani. Solo che a quel tempo le popolazioni attribuivano la causa di tali fenomeni alle bizzarrie delle divinità da loro adorate, come Giove, Marte, Giano ecc. Poi, con il passaggio dal paganesimo al cristianesimo, essi furono attribuiti al Diavolo o alle streghe, che ritroviamo in particolare nella toponimi dei monti Sibillini, come il monte della Sibilla (una maga che viveva in una grotta sulla montagna, che profetizzava oracoli e che ha dato il nome alla catena montuosa), la Gola dell’Infernaccio, il Pizzo del Diavolo, il Lago di Pilato ecc. Invece oggi, con la nostra civiltà tecnologica proiettata all’esterno della Terra, questi avvistamenti luminosi vengono ricondotti alle visite interstellari di velivoli extraterrestri (UFO).
Il fenomeno quindi, a mio parere, è sempre esistito nel tempo, anche se è stato ad ogni epoca definito con nomi differenti e si è cercato di spiegarlo in modi diversi, a seconda del livello culturale, religioso e tecnologico della civiltà umana. Ciò che resta da capire è come mai queste apparizioni avvengano statisticamente prevalentemente in prossimità delle montagne e come facciano questi “oggetti” a compiere delle evoluzioni in cielo che sfidando le normali leggi della gravità, o ad apparire e scomparire all’improvviso alla vista degli osservatori. Forse utilizzano i rilievi montuosi, in quanto ben visibili dall’alto, come punti di riferimento di misteriose rotte di navigazione, allo stesso modo di come fanno anche i nostri aerei di linea? Oppure riescono a sfruttare degli “stargate”, ovvero dei “corridoi temporali”, dove essi possono passare da un punto ad un altro dell’Universo in pochi secondi o addirittura da un tempo ad un altro, dal passato al futuro e viceversa, come teorizzato da Albert Einstein? Chissà, magari tra qualche decennio, anche questa teoria di Einstein troverà una dimostrazione pratica e così forse scopriremo che a farci visita non saranno stati degli esseri alieni venuti da altri Mondi, ma magari noi stessi, che dal futuro riusciremo a tornare ad osservare il nostro passato, come i riti religiosi degli antichi Umbri. |