Leggende e Tradizioni |
Il mistero delle Vergini Nere |
24 Aprile 2020 | ||||||||||||||||||||||||||||||
La Madonna Nera di Forno Alpi Graie e il suo contesto storico-culturale
Le Madonne Nere Perché, nel narrare la storia del miracolo di Pietro Garino, ho osservato che il discorso si complica nominando il nero e Loreto? Si è detto, parlando del contesto storico in cui si svolge la vicenda, della presenza in valle dei Gesuiti, dei loro interventi in tema di edilizia religiosa e dell’influenza che esercitarono dal punto di vista spirituale. In tempi di Controriforma quello era il loro ruolo. Non per niente, intorno al 1555, era stata loro affidata la gestione della Casa di Loreto, nelle Marche. Non esistono documenti specifici al riguardo, ma è ragionevole pensare che siano intervenuti anche nel caso dell’apparizione avvenuta a Forno. Diciamo che sono loro a fornirci , verosimilmente, l’anello mancante, per spiegare come la Vergine dai piedi “bianchi come neve” sia diventata una Madonna Nera, a somiglianza di quella di Lanzo. Non sappiamo se nella cappella fatta edificare dal Garino si trovasse già una statua (benché sembri da escludere) nè se essa fosse, fin dall’inizio, di colore scuro. Sicuramente, in tempi successivi, rileviamo la presenza di una Vergine Lauretana, che era il modello evidentemente sostenuto dai Gesuiti. I santuari mariani, italiani e non, brulicano di Madonne Nere che erano state bianche e viceversa. Ricerche scientificihe recenti hanno dimostrato che su talune statue gli strati di vernice sovrapposti nel tempo sono numerosi e che certe Vergini, per lungo tempo famose per il colorito bruno, in origine avevano mostrato un incarnato roseo. E’ il caso di una delle più celebri di Francia, Notre-Dame du Bon Espoir, a Digione, annerita nel ‘500. Molti studiosi hanno affrontato il problema e proposto una chiave di soluzione, ma finora non si è giunti ad una risposta globale, che forse non esiste nemmeno (al riguardo, comunque il testo più equilibrato mi è parso quello della Cassagnes Brouquet, “Vierges Noires”). Infatti la situazione è assai diversa a seconda dei territori, dalla Francia all’Italia, e qui dal Nord al Centro-Sud. Ma la questione determinante è un’altra: mancano documenti storici d’epoca che forniscano testimonianze sicure o attendibili sul periodo d’inizio e sul motivo della venerazione delle antiche Vergini Nere, di cui abbiamo notizie soltanto dalla tradizione orale. Qualcuno ha azzardato delle date, ma si tratta di congetture, e comunque l’arco di tempo in cui fiorì il fenomeno è piuttosto vasto, con statue anteriori al Mille ed altre di parecchio successive. Inoltre, ad esempio in Francia, la quasi totalità degli esemplari originari andò distrutta o da parte degli Ugonotti durante le guerre di religione o nel corso della Rivoluzione francese (per non parlare delle incursioni saracene). Anche le Madonne più celebri, come quella di Puy en Velay, non sono che copie successive, cinquecentesche o ancora più tarde, per cui non si prestano a verifiche scientifiche. Non sappiamo, quindi, come e perchè sia nato questa moda o trend di “sacralizzazione del nero”. D’altronde un ulteriore punto importante rimane insoluto. Perché la Chiesa, come istituzione, non ha osteggiato (se non talvolta a livello locale) questa “stranezza” del colorito scuro, anzi talvolta ha finito per assecondarla ? L’intrerrogativo è tanto più urgente, dopo aver notato come, proprio nel periodo di espansione delle Vierges Noires, infuriasse la polemica sul significato diabolico di tale colore. Non sono mancati i tentativi di giustificazione teologica, ma del tutto insoddisfacenti. Il più noto è il riferimento ad un passo del Cantico dei Cantici (su cui si era tanto soffernato San Bernardo di Clairvaux e che fu poi ampiamente utilizzato dai Gesuiti), in cui la frase “Nigra sum sed formosa” (“Sono nera, ma bella”) è pronunciata da una figura femminile, nella quale si sarebbe voluta designare una prefigurazione della Madonna; e l’intero Cantico, nel suo complesso, simboleggerebbe l’amore di Cristo per la Chiesa, ma si tratta di interpretazioni a posteriori, secondo me, stiracchiate. La frase specifica sopra citata fu, quindi, utilizzata dall’istituzione per creare, nelle Sacre Scritture, un antefatto del fenomeno delle Madonne Nere. Qualcuno si è azzardato ad ipotizzare che la scelta del colore scuro fosse fatta per invogliare i Saraceni alla conversione!
Va rilevato che il primo Cristianesimo aveva, anzi, osteggiato il culto delle immagini (es. Concilio di Elvira, Granada, del 303-306); nientemeno, certi vescovi avevano vietato il mestiere di pittore o scultore. Soltanto dopo il Concilio di Efeso (del 431), essendosi riconosciuto a Maria il titolo di “generatrice di Dio” (“Teotokos”), si era affermato il diritto alla iperdulìa (venerazione speciale) ed alla rappresentazione in figura. Da allora in poi, grazie all’atteggiamento tollerante instaurato dal papa Gregorio Magno, il culto delle immagini della Vergine non era più idolatria (e parallelamente si era, a poco a poco, affievolito il culto di Iside). Non mancarono, in proposito, i contrasti con la Chiesa d’Oriente, dove si era scatenata nell’VIII sec. la Crisi Iconoclastica. In conclusione, in Occidente, il culto delle Vergini Nere fu accettato almeno di fatto, ma ignoriamo la reale motivazione, soprattutto teologica. Al più possiamo ipotizzare che la violenta intolleranza dell’Oriente in fatto di immagini abbia indotto la Chiesa di Roma a potenziare, per reazione, il culto di icone e statue mariane, come d’altronde avverrà al tempo della Riforma Luterana. Ricordiamo poi che l’epoca in cui si accentua visibilmente il culto della Vergine è un periodo di transizione: si indebolisce l’antico culto dei martiri e delle reliquie, di solito riservato alle città, mentre nascono, come vedremo, nuove esigenze religiose che si collegano alla Madonna e sembrano provenire, questa volta, dalla campagna. Un mutamento di scena le cui cause dovrebbero essere indagate più a fondo. Ma gli interrogativi non si fermano qui, e molti ci riconducono al mondo pagano e orientale. Anzitutto vanno rilevate la postura e l’espressione delle Madonne Nere, soprattutto francesi. Sono Regine in maestà, sedute in trono, in atteggiamento rigido, solenne, con gli occhi fissi, persi nell’infinito. Spesso sono abbigliate in modo inconsueto (magari addirittura con un turbante), riccamente ornate o rivestite di lamine d’oro o di argento. La somiglianza con certe statue isidiche è evidente. Più in generale la ieraticità è una caratteristica dell’iconografia orientale e sta ad indicare il distacco tra l’uomo e la divinità, la trascendenza. Tranne che in certi esemplari più antichi, in Italia tale aspetto è, in genere, meno evidente. Numerose statue contenevano, ben dissimulata nel dorso, una piccola nicchia, per tenervi celate delle reliquie (come una ciocca di capelli o la veste di Maria). Secondo la Van Cronenburg tale usanza, ma riferita ad amuleti, sarebbe stata frequente nei simulacri celtici, derivati appunto da Iside e passati poi al Cristianesimo. Le reliquie furono un’autentica “passione” dei medievali. La venerazione, talora fanatica, attribuita a quelle di martiri e santi, in un certo senso, spiega l’iniziale lentezza con cui crebbe il culto della Madonna. Quando, nel secolo XII, la Vergine divenne protagonista, si scatenò una vera e propria caccia, dapprima in Oriente, poi in Europa, dove furono trovati dei “suoi” capelli e perfino i ritagli delle unghie. Della sua fascia a vita esistevano molti esemplari. Quella di Prato vantava la storia più nobile, in quanto donata dalla Vergine stessa a San Tommaso e giunta in Toscana per varie traversie. La regina Anna di Francia, con problemi di fertilità, si fece consegnare la fascia (un’altra !) custodita a Puy en Velay. Possedere reliquie prestigiose, come a Chartres che ne aveva raccolte a iosa, era fondamentale per un santuario, poiché attirava pellegrini e “moltiplicava” le guarigioni miracolose, con evidenti conseguenze economiche. Un tema di rilievo riguarda il colore degli abiti di Maria. Il bianco e l’azzurro, con cui siamo abituati a identificare la Vergine, sono piuttosto tardi, forse gotici. Il blu si affermerà particolarmente nel ‘600, per il riferimento al cielo ed al mare. Tale colore era ritenuto tanto più appropriato in quanto di valore, poiché, di solito, era costosamente ricavato macinando lapislazzuli di provenienza soprattutto afghana (l’usanza nacque, ovviamente, in Oriente). A parere della van Cronenburg le Madonne in maestà romaniche, di area celtica, vestivano invece di rosso e di verde, il quale ultimo si richiama ad Iside e al culto della natura e della fertilità. Ma Iside non aveva il monopolio di tale colore: molti secoli prima, nel segno di un’antica continuità, la Grande Dea sumerica Inanna era definita “la Verde”, colei che fa spuntare le piante Un altro enigma viene dalle mani: soprattutto la sinistra, nelle statue, era sovradimensionata. Secondo alcuni interpreti tale elemento significa protezione o infusione di energia, ma certa parte del clero lo osteggiava come pratica magica. Non mancano nemmeno dipinti in cui la Madonna compare con tre mani (iconografia connessa con una guarigione miracolosa ricevuta da San Giovanni Damasceno, VII-VIII sec.). Invece in un’effigie a San Giovanni in Jerusalem di Poggibonsi una mano della Vergine mostra due dita incrociate. E, a partire dall’Oriente bizantino, si era diffusa l’immagine della Madonna “Odigitria”, cioè che indica la via. Questa molteplicità di particolari non deve stupire: tutta l’arte del Medioevo era carica di simbologie, che oggi sono di non immediata interpretazione, ma che, al tempo, rivestivano un’elevata importanza.
Il maggior numero di Madonne Nere censite (oltre quattrocento) si trova in Francia, dove, a parere di alcuni, sarebbe iniziato questo culto. Petra van Cronenburg nega che siano nate con le Crociate, poiché ve ne sono di più antiche, addirittura di prima del Mille (ma non si può escludere che i Crociati abbiano contribuito poi ad incrementarle). In Gallia esse sarebbero un derivato della cultura celtica, tra le cui divinità, una delle più importanti era stata la Madre Terra: con la cristianizzazione essa fu facilmente identificata con la Vergine Maria, e abbiamo già accennato alla permeabilità dei popoli antichi ai nuovi culti. Greci e Romani, ad esempio, avevano finito per “riunire” in un’unica deità, sia pur con diverse sfaccettature, Artemide, Ecate, Cibele, Selene, tutte aventi a che fare con la notte. Ma la questione è ancora più complessa ed antica. In realtà le deità sopra citate deriverebbero tutte dalla Dea Madre dei Sumeri, Inanna, il cui culto nacque intorno al 3500 a. C., dando origine ad una società matriarcale, e si diffuse, tramite i Babilonesi, in Mesopotamia. Tale società fu poi spazzata via, come anche in India, intorno al 1500 a.C., da popoli indoeuropei (i Kurgan) provenienti dalle steppe della Russia meridionale, di cultura patriarcale. Tuttavia il culto della Dea si conservò a lungo (sia pur associato a divinità maschili), influenzando appunto le deità del Medio Oriente tra cui Iside. Quest’ultima, nata in Egitto come divinità lunare della notte (e perciò nera), in epoca ellenistica, sotto i Tolomei, cambiò completamente ruolo rispetto al passato ed ebbe una diffusione imprevedibile. Si affermò dapprima come protettrice della fertilità e della maternità, per diventare una divinità universale, di portata cosmica, ed inglobando molte altre dee, anche importanti, tanto da essere soprannominata “myryonima”, cioè dai mille nomi. Non mi risulta che gli studiosi abbiano fornito una spiegazione storica o antropologica di tale metamorfosi. A Roma ed in Occidente, attraverso i rapporti mercantili, il culto si manifestò nel II-I secolo a. C. e, malgrado Augusto lo avesse osteggiato, raggiunse l’apice sotto i Flavi (I-II sec. d. C.), Adriano ed i Severi, in concorrenza con il Cristianesimo; pur attenuandosi esso era ancora presente nel VI secolo. Per il periodo di massima espansione la studiosa Serenella Ensoli arriva a parlare di “Egittomania”. Iside fu oggetto di venerazione sia privata sia ufficiale, attraverso templi maestosi. Solo se consideriamo la diffusione ed il prestigio raggiunti dalla dea in Europa, oltre che in Oriente, possiamo capire come si siano potute conservare così a lungo certe sue statue, poi nascoste o riutilizzate (dopo la messa al bando da parte di Teodosio) o divenute modello, come vedremo qui sotto, per simulacri mariani. La Chiesa, una volta al potere, inizialmente combattè i culti pagani. Rilevano Bashing e Cashford (“Il mito della Dea”) che, probabilmente, furono abbattute le grandi statue marmoree della divinità, mentre dovettero sopravvivere le immagini più piccole, celate sotto terra o fra le rocce. Dal VI secolo d. C. la Chiesa assunse, però, come si è detto, una posizione più moderata nei confronti delle religioni pagane, cercando di integrarle nella nuova dottrina, perché le classi subalterne non si sarebbero staccate facilmente dalle antiche devozioni. Ad esempio le sacre sorgenti furono ridedicate ad un Santo, i templi vennero adibiti alla pratica cristiana o comunque ne sorsero di nuovi presso antichi siti pagani. A Montevergine (Napoli) un santuario dedicato a Maria inglobò quello di Cibele. A Soissons, tanto per dire, era stato consacrato alla Madonna un tempio di Iside, un simulacro della quale, a Metz, sempre in Francia, fu venerato come immagine della Vergine (!) fino al sec. XVI. Quindi certe antiche statue mariane, come si è rilevato, potrebbero essere nate come copie di precedenti isiache, magari ammirate per la loro solennità, oppure non sarebbero state altro che effigi della Madre Terra/Iside recuperate e riadattate. La religione celtica (in origine aniconica, senza statue), almeno dal II secolo a.C., fu, potremmo dire, “ristrutturata” per l’influsso mediterraneo. Infatti, in origine, la triade suprema del culto druidico era costituita da deità maschili, per cui il ruolo primario della Dea Madre sarebbe comparso in epoca successiva. Quanto al colore nero (o bruno) che quest’ultima mostra, lungi dall’essere un dato negativo come molti pensavano, secondo l’ipotesi più accreditata richiamerebbe appunto la terra ed il suo grembo, cioè la fecondità. Addirittura parecchie delle Madonne più antiche furono collocate e venerate in cripte, cioè nel ventre stesso della Gran Madre (si veda il caso della Cattedrale di Chartres, con Notre Dame Dessous Terre).
Alla Cronenburg è stato obiettato, fra l’altro, che il centro-nord della Francia, e con esso Irlanda e Gran Bretagna, è parimenti celtico e non reca quasi traccia di Madonne Nere. Queste si concentrano, invece, nell’area sud-orientale del paese, oltre che nella zona dei Pirenei, e sono particolarmente numerose in Alvernia. L’asse principale delle presenze è costituito dal corridoio che va da Marsiglia e dalla Provenza alla valle del Rodano fino ad Alvernia e Borgogna, la parte di Gallia che per prima fu romanizzata. Tale corridoio fu la via di passaggio delle culture mediterranee in Francia. Marsiglia, antica colonia greca della Focide, porto commerciale importantissimo, costituì la via di accesso di quanto giungeva dall’Oriente. Di lì in epoca romana arrivò appunto, come anche in Italia e nei Balcani, il culto di Iside. Ho visto una fotografia della dea in trono, lo sguardo immobile, con in grembo il piccolo dio Horus: la somiglianza strutturale con le Madonne in Maestà romaniche è impressionante. La similarità delle immagini di Maria in trono con Gesù e di Iside con Horus è stata sottolineata, a suo tempo, dall’antropologo Franco Cardini. L’arrivo di Iside, in quella zona specifica, avrebbe influenzato la religione celtica (che, ricordiamolo bene, in origine non si avvaleva di statue e di templi, poiché il culto era praticato in mezzo alla natura), inducendola ad identificare la propria Madre Terra con la nuova divinità e a venerarla sotto forma di simulacri. Fu una tipica manifestazione di sincretismo, assai frequente presso i popoli antichi. Una breve parentesi per sottolineare la “vischiosità” di certi modelli culturali, che si protraggono incredibilmente nel tempo. Nel libro “Il linguaggio della Dea” di Marija Gimbutas (che descrive un’antichissima società matriarcale in Oriente e nel Mediterraneo) ho visto la fotografia di una statuetta della Dea Madre, risalente al 6000 a.C.: prescindendo dagli elementi decorativi particolari, la somiglianza della sua struttura con quella delle romaniche Madonne in trono è sorprendente. Stessa cosa si può dire di una Dea Madre in terracotta del 5800 a.C. (Anatolia), per finire con un simulacro di Cerere del IV sec. a.C. (in Baring e Cashford). Parimenti è notevole la vicinanza linguistica di certi inni ad Inanna con quelli dedicati a Maria. Assai nebulosi sono anche i dati cronologici relativi all’origine del culto delle Vergini Nere, che vari studiosi collocano tra il sec. XI (quello della prima Crociata) e il XII, ma altri anticipano addirittura al IX-X. Infatti si conserva notizia di statue più antiche, come quelle di Manosque, di Rocamadur o di Montserrat, in Spagna (e ancora più remote sarebbero le origini di certe icone itaiane). Ma perché proprio in quei due secoli ? Nessun esperto ha fornito una spiegazione storica di tale datazione, ad esempio la coincidenza con un evento particolare. Osserviamo però che quella fu l’epoca del Catarismo, eresia che negava il ruolo della Vergine come Madre di Dio. La Chiesa potrebbe essersi trovata nella necessità di rilanciare fortemente la venerazione di Maria. Uno dei protagonisti di tale rilancio fu San Bernardo di Clairvaux, la cui esperienza mistica iniziò proprio nel santuario di una Madonna Nera (e tuttavia abbiamo visto che era un fanatico del bianco). Un ulteriore impulso al culto mariano si verificò nel ‘600, soprattutto per opera dei Gesuiti. Ma, in tema di Madonne Nere e di santuari, occorre purtroppo accennare anche ad una questione più terra terra. Tali edifici sacri, forse per la misteriosità ed esoticità delle loro immagini, richiamavano numerosi pellegrini, oltre che per la fama degli eventi miracolosi ivi accaduti, e ciò significava denaro. Per questo molte statue della Vergine furono appositamente annerite, cosicché si diffusero copie dei simulacri più famosi, come quello di Puy en Velay in Francia. Di fronte al successo di certe Madonne la proliferazione emulativa di santurari e simulacri ebbe verosimilmente a che fare con un vero e proprio marketing. Tuttavia, prima ancora di indagare l’origine della venerazione delle Madonne Nere, occorrerebbe spiegare come si sia imposto il culto mariano in sè. Infatti dobbiamo rammentare che, a partire dal Basso Impero (IV-V secolo) a prevalere in modo assoluto era stato il già citato culto dei martiri (l’unico ammesso), ai quali erano dedicati sepolcri e cenotafi, celebrati in tutte le ricorrenze con gran concorso di devoti, e di cui erano narrate le vicende in ogni agiografia. Sulle Alpi, ad esempio, a spopolare erano stati quelli della Legione Tebea (San Besso e San Maurizio in prima linea). Per quali motivi, già prima del Mille, subentrò loro la venerazione di Maria ? I ritrovamenti (veri o presunti) di statue mi sembrano la conseguenza, e non la causa, del nuovo orientamento. Un’analisi storica completa del culto mariano ci porterebbe troppo lontani, per cui devo limitarmi ad alcuni punti essenziali. La venerazione per la Vergine si sviluppò prima in Oriente, fortemente influenzata dai vangeli apocrifi, che ne narravano la vita giovanile, per diffondersi poi progressivamente in Occidente, a partire dal Concilio di Efeso ( 341 d.C.). L’assorbimento graduale del paganesimo effettuata da Gregorio Magno nel VI secolo favorì ulteriormente la ripresa. Cominciarono le “riscoperte” di statue e crebbe la dedicazione di feste alla Vergine, con ampio afflusso di fedeli. In tale periodo i simulacri o icone della Madonna la ritraevano come solenne regina in trono. Il fenomeno si accentuò intorno al Mille, quando in Europa ebbe inizio una rinascita dello spirito religioso, che partiva soprattutto dai monasteri, come Cluny e Camaldoli, ed andava a esaudire esigenze ben presenti nella società. Il bersaglio dello scontento era il clero secolare corrotto (sia a livello di parrocchie sia di episcopati) per la simonia ed il concubinato, ma anche certe sedi monastiche, come quelle benedettine, erano in forte decadenza.
Fu soprattutto Cluny a segnare la svolta, perché di lì provennero papi animati da forte spirito riformatore, primo fra tutti Gregorio VII. Questi voleva ristabilire il primato della Chiesa di Roma sia contro l’Impero sia contro Bisanzio, dove era in atto lo Scisma d’Oriente. Come osserva lo storico Giorgio Cracco, per ristabilire la sacralità della fede cattolica e recuperare l’adesione dei popoli, occorreva reperire un modello credibile da imitare, e questo fu individuato nella Madonna, proposta non tanto in una veste regale, ma come esempio di purezza ed umiltà. L’operazione ebbe successo e Gregorio VII, proprio in un periodo politicamente difficile, attuò quella che Cracco chiama una “cattura” del culto della Vergine, sottratta all’Oriente a beneficio di Roma. Nel secolo successivo l’intensa predicazione di San Bernardo di Clairvaux fece il resto. Maria acquisì una funzione nuova: quella di mediatrice attraverso cui Dio si manifesta al mondo, e in tale veste riscosse largo seguito tra i cristiani di ogni ordine e grado, ed in particolare fra il popolo, dove cominciarono a diffondersi visioni e guarigioni miracolose. Questa nuova concezione di Maria mise gradualmente in crisi l’immagine precedente delle Madonne in maestà, con il loro aspetto freddo e ieratico, che a poco a poco sparirono (escludendo le sedi più prestigiose), a beneficio di un’iconografia più umana. Il culto della Madonna Nera in Italia Tornando alle Madonne Nere, è più articolato il discorso riguardante l’Italia, dove prevalgono le statue “in piedi” della Vergine, spesso coperte da una veste preziosa, detta “dalmatica”. Anche qui dai santuari più celebri proliferarono numerose “filiali”, come nel caso di Loreto o dell’Incoronata di Foggia. Nel Nord (l’antica Gallia Cisalpina), specie sulle Alpi, erano largamente diffusi i culti celtici, tra cui quello delle tre Matrone, dee locali della fertilità ( ne abbiamo rilevato gli echi nella visione di Pietro Garino). Ben documentata già dal II secolo a.C., anche archeologicamente, è poi la venerazione di Iside: Aquileia, Verona, Trieste, Bologna, ma soprattutto, presso Torino, Monteu da Po (l’antica Industria). Essa, poi, sotto i Flavi, si ampliò notevolmente, anche in forma di culto privato. Di conseguenza, si può dire, le Madonne Nere trovarono qui un profondo humus su cui radicarsi e furono assai presenti nel tempo. L’esempio più importante è quello di Oropa. La tradizione attribuisce l’origine del culto addirittura al IV secolo, ad opera del vescovo di Vercelli Sant’Eusebio, che avrebbe portato qui dall’Oriente una statua (o piuttosto un’icona), nascondendola sotto un masso erratico per sottrarla alle persecuzioni ariane dell’epoca. Su quella roccia sarebbe poi stata costruita la Cappella del Roc. Al Santo, in zona, sono attribuiti anche due sacelli (Santa Maria e San Bartolomeo), che in realtà risalirebbero all’VIII-IX secolo e costituirebbero altrettanti avamposti eremitici della diffusione del Cristianesimo. In tempi meno lontani fu poi edificata la chiesa più antica, inglobando la cappella dedicata alla Vergine e un altro masso lì vicino, utilizzato anche in epoca cristiana per riti di fertilità. Questo sacro edificio risalirebbe, circa, alla fine del ‘200, quando ricevette la sua statua lignea e fu consacrato dal vescovo Challant, ma il primo documento ufficiale che ne faccia menzione si colloca intorno al 1488. Oltre un secolo dopo fu realizzata una nuova chiesa. La costruzione sorse non per un evento miracoloso, ma, nel ‘600, per un voto dei Biellesi, per essere la loro città sfuggita alla peste del 1599. In seguito essa fu ampliata ed abbellita, acquisendo una fama non solo locale; divenne meta di devoti e di pellegrinaggi (il più famoso è quello proveniente dalla valdostana Fontainemore). Alla Madonnna di Oropa sono dedicati numerosi santuari in Piemonte. L’ambiente naturale di Oropa dispone di tutti gli elementi idonei a farne un antico sito pagano. Il primo è costituito dall’esistenza di una sorgente, che i credenti hanno sempre considerato miracolosa. Osservava Vittorio Dini: “Dove l’acqua sorge ed è più pura, la divinità si manifesta ed elegge il luogo a sua dimora occasionale, dimostrandosi propizia”. Inoltre a certe fonti era attribuito il potere galattoforo, cioè di favorire nelle puerpere la capacità di allattamento, con la conseguenza di un costante afflusso devozionale. Accanto alla sorgente ricordiamo l’esistenza di un bosco sacro, luogo cultuale per eccellenza del druidismo. Infine va sottolineata la presenza di numerosi massi erratici, che, per la loro “inspiegabilità”, agli occhi delle popolazioni costituivano dei prodigi e quindi erano ritenuti sede di forze telluriche taumaturgiche. Ad Oropa si trova il Roc d’la vita, che era utilizzato, ancora in tempi recenti, come “pierre glissoire”, “pietra di sfregamento” per i riti di fertilità. Sicuramente il riferimento tradizionale a Sant’Eusebio allude ad antichi riti di esaugurazione (cancellazione del paganesimo) e cristianizzazione. Il culto di acque, pietre, alberi fu sempre condannato dalla Chiesa, vedi Concili come quelli di Arles (442 d.C.) e Tours (567), e solo con Gragorio Magno (tra VI e VII sec.), come già detto, la linea di condotta fu ammorbidita ricorrendo all’inclusività. Durante il paganesimo Oropa dovette costituire un sito di grande importanza e, di riflesso, tale rimase in epoca cristiana.
E’ interessante notare come, nei pressi di Oropa, ancora agli inizi del ‘600, nella località di Graglia si sia dato inizio ad un imponente lavoro di edificazione religiosa, progettando un esteso Sacro Monte, che avrebbe dovuto ospitare decine di cappelle. Malgrado l’appoggio degli stessi Savoia, i lavori andarono a rilento, per la frequenza di guerre e carestie, ma alla fine, ai primi del ‘700, sorse un notevole santuario dedicato alla Madonna di Loreto, in stretta connessione con la casa madre. Nella zona, insomma, il culto della Madonna Nera doveva essere profondamente sentito e perciò capace di catalizzare ingenti risorse. In area alpina o prealpina non mancano altri esempi di culto delle Vergini Nere. Per le Alpi Graie abbiamo citato i casi di Forno e di Prascondù, in Valle Orco. In Val Varaita è antichissima la Madonna del Becetto, presso Sampeyre, risalente almeno al XIII secolo. Le sue origini sono piuttosto controverse; alcuni parlano di un’apparizione della Madonna sulla biforcazione di un ramo di betulla. In passato il Santuario fu molto frequentato dai pellegrini. Assai antica è anche la statua della Vergine di Crea, nel Cuneese, che la tradizione attribuisce allo stesso Sant’Eusebio di Oropa. Tuttavia un recente restauro ha rivelato un incarnato chiaro. Interessante è il caso di Prascondù, riferitomi dal Prof. Blessent di Ribordone. Giovannino Berrardi ebbe la visione di una Madonna Bianca, ma poi, dopo il pellegrinaggio a Loreto ed il miracolo della guarigione, il Santuario fu dedicato alla Vergine Nera. Quindi nell’edificio vi sono due statue: quella scura, che è la patrona, e quella bianca in ricordo dell’apparizione. Per quanto concerne il Centro ed il Sud dell’Italia, la tradizione riconduce inevitabilmente all’Oriente, cioè alla Palestina ed al mondo bizantino, soprattutto tenendo conto che quest’ultimo ebbe il controllo del Meridione fino al X-XI secolo. Dal Mediterraneo, però, giungevano soprattutto icone. Entrate nel culto popolare, esse erano poi spesso sostituite da statue, sia perché queste rientravano nella tradizione locale sia perché potevano essere protagoniste di un rito divenuto di grande importanza, la processione. Sovente erano soltanto “brune”, del colore del legno (come il cedro), ma poi furono annerite. E’ quella che gli antropologi chiamano “sacralizzazione della nerezza”. Si sono tentate molte interpretazioni di tale fenomeno, alcune anche inverosimili. Come si è detto, insigni religiosi giunsero ad ipotizzare che il colore nero potesse servire per attirare i musulmani alla conversione. Le invasioni saracene, la Crisi iconoclastica (sotto Leone Isaurico ed i suoi successori, nell’VIII sec.), le Crociate, la caduta di Costantinopoli (1453), furono altrettanti motivi di scoperta o di traslazione di statue (o piuttosto icone) di Madonne Nere dall’Oriente al Meridione, dove davano origine a frequentati centri di devozione. Una delle più celebri, quella di Tindari, in Sicilia, secondo la tradizione sarebbe giunta via mare dall’Oriente per sfuggire, appunto, alla Crisi Iconoclastica. Le Vergini Nere di Lucera (Puglia) e di Viggiano (Basilicata) furono nascoste per salvarle dalle invasioni musulmane e poi recuperate e venerate; ed a monaci siciliani, fuggiti dalla Sicilia invasa dai Saraceni, sarebbe dovuto il culto della Madonna dei Poveri di Seminara (Reggio Calabria), di cui la tradizione narra un miracoloso ritrovamento. L’elenco potrebbe continuare, poiché i santuari dedicati al culto della Vergine, in statua o in icona, nel Sud, sono numerosissimi, ed estremamente varia è la serie di racconti miracolosi che li accompagna. Osserva l’antropologa Calò Mariani che nel Meridione si diffuse una rete di santuari, senza la necessaria mediazione del clero, lungo zone rurali ed isolate, in cui l’immagine (statua o icona) veniva a sostituire le reliquie, tipiche degli edifici sacri cittadini. Il modello iconografico dominante, comunque, è quello bizantino, come confermano i racconti di fondazione, che si riferiscono ad una provenienza orientale. La madre di tutte le icone sarebbe, stando ad una remota leggenda, quella realizzata nientemeno che da San Luca, di cui circolarono tantissimi “originali” o successive copie. La più antica e la più “autentica”, secondo la tradizione, sarebbe stata l’immagine custodita in Santa Maria Maggiore a Roma, detta Regina Coeli, che risalirebbe comunque a prima del Mille. Per lungo tempo essa fu il punto di riferimento del panorama mariano nell’Italia centro-meridionale. Di San Luca sarebbe stata anche l’effigie su icona conservata nel Santuario mariano per eccellenza, della Madonna di Loreto, poi sostituita da una statua. Il sacro edificio custodisce la “Casa” della Vergine. Si tratta, in concreto, di una stanza di modeste dimensioni (nella quale avrebbe abitato la Madonna), le cui pareti risultano realizzate con materiali (pietre, malta) tipici della Palestina, elemento che garantirebbe l’autenticità del manufatto. La tradizione vuole che sia stata trasportata dagli angeli (e ci son stati fior di Professori che hanno ritenuto di dimostrarlo). In realtà la traslazione sarebbe avvenuta a cura della famiglia bizantina Angeli Comneno per sottrarla all’avanzata dei Musulmani su Nazareth intorno al 1291. Circa le eventuali perplessità su questo “miracoloso” trasporto, in tempi in cui non esistevano certe tecnologie, pensiamo comunque che anche lo spostamento degli enormi Moai di Pasqua ci aveva lasciati increduli. Vale la pena ricordare che, prima di Loreto, una replica della “Casa della Vergine” in legno, copiata fedelmente, non si sa come, dall’originale e “portata dagli angeli”, aveva sede a Walshingham, in Inghilterra, dove per tre secoli richiamò migliaia di pellegrini, finché Enrico VIII, nel 1538, la fece distruggere.
Il “viaggio” della Casa, dopo tribolate peripezie, si concluse nei pressi di Recanati, nelle Marche. Alla “Casa” si accompagnava una preziosa icona, in cui il viso della Vergine tendeva al bruno, poi sostituita nel ‘500 da una statua, sempre dal volto scuro. Essa andò distrutta in un incendio nel 1921 e fu sostituita l’anno dopo da un’effigie di cedro del Libano, ancora più “nera”. La Casa di Loreto acquistò in breve una fama enorme tra i fedeli, tanto da sostituire, come meta di pellegrinaggi, Gerusalemme, Roma e Santiago. E’ probabile che il motivo stia nell’eccezionalità della reliquia. Nel 1468 ebbero inizio i lavori di costruzione dell’imponente Santuario, sia per proteggere il reperto sia per ospitare l’enorme afflusso di fedeli. Nel 1555 l’amministrazione del sacro edificio passò ai Gesuiti, che ne fecero un mezzo di propaganda mariana e cristiana formidabile, proprio in tempo di Controriforma e di lotta contro i Luterani. Un considerazione conclusiva. L’origine e la datazione delle Madonne Nere rimangono a livello di ipotesi. Tuttavia sussistono alcuni motivi di riflessione. Molti canali di provenienza, da Iside alle icone bizantine, riconducono all’Oriente. L’iconografia delle immagini più antiche, dalla ieraticità ai colori, rimanda nella stessa direzione. Numerosi eventi storici hanno come scenario il Mediterraneo: il prestigio e l’influenza di Costantinopoli, la Crisi iconoclastica, le Crociate, le invasioni saracene. A titolo di semplice ipotesi, dunque, le radici del fenomeno sembrano collocabili, per via diretta o indiretta, in Oriente, nella duplice direzione di Costantinopoli e dell’Egitto isiaco. Apparizioni, ritrovamenti, santuari Dal Basso Medioevo in poi si assiste in Italia ed in altri paesi europei ad una vasta fioritura di santuari mariani, di cui la tradizione ci narra le origini, quasi sempre legate ad un episodio miracoloso. Se analizziamo questi “racconti di fondazione”, ispirandoci a Propp, scopriamo che, nella loro globalità, mostrano una sequenza impressionante di punti in comune, costituenti dei “topos”, come nelle fiabe. E spesso la struttura e gli elementi costitutivi del racconto sono proprio quelli della fiaba o, se vogliamo, dell’agiografia. Difficile, in assenza di ricerche specifiche, discernere la realtà dalla leggenda. Dobbiamo limitarci alla descrizione fenomenologica degli eventi, enucleando gli elementi portanti del racconto, senza volerne verificare la storicità o meno. Dunque i due dati principali sono la presenza, come protagonisti, di persone del popolo, meglio ancora bambini, i quali “vivono” un miracolo, e l’affabulazione, cioè la successiva narrazionedel fatto stesso. A monte di molti episodi c’è quello che l’antropologa Elisabetta Gulli Grigioni definisce “il bisogno”, cioè l’esigenza di sacro e di soprannaturale da parte degli umili. Vittorio Dini parlava di “cultura dell’indigenza e del rischio esistenziale”. E questo penso sia l’unico dato storicamente inoppugnabile. Gli uomini di un tempo, dalla preistoria alla metà del secolo scorso, vivevano in un mondo sempre irto di pericoli (la fame, le malattie, le inondazioni, i fenomeni naturali) scatenati da forze ignote e imprevedibili che occorreva, in qualche modo, ammansire. Spesso ciò poteva accadere attraverso il miracolo, che l’esperienza (o la fantasia) dimostrava essere un evento possibile. Per questo era frequente che si scorgesse nella realtà l’intervento del soprannaturale. La notizia dell’evento portentoso veniva poi trasmessa oralmente, si diffondeva e generava un afflusso di persone, tutte alla ricerca di una ripetizione, per sè, del prodigio. Era un culto che nasceva “dal basso”. A questo punto, però, insorgeva un pericolo, cioè che la voce potesse espandersi in modo distorto, creare “mostri” (le superstizioni), generare credenze e culti eterodossi. Allora interveniva il secondo protagonista: l’affabulatore, colui che riordinava la successione dei fatti accaduti e la trasmetteva secondo i criteri dell’ortodossia. Il compito di sistemare il racconto toccava al clero, che lo faceva rispettando gli elementi-base del medesimo, ma sicuramente mondandoli di quanto contenevano di pericoloso. Talora il “visionario” era sottoposto ad un attento “processo”, come accadde a Pietro Garino, anche se, nella maggior parte delle narrazioni, tale particolare non è menzionato (il che rende difficile qualsiasi verifica storica). In genere, avvenuto il miracolo e diffusa la fede in esso, il protagonista dell’evento prodigioso spariva dalla “storia”. Sussisteva poi sempre il rischio dell’idolatria e allora, a scanso di equivoci, si procedeva drasticamente, ad esempio con il taglio dell’albero “miracoloso”, come aveva fatto San Carlo Borromeo. La storia la fanno i vincitori, e il popolo non è mai stato fra quelli. Dunque hanno ragione, di solito, gli antropologi quando parlano di origine popolare o rurale dei “racconti di fondazione” (spesso vengono citati date e nomi dei protagonisti, a conferma della veridicità dei fatti riportati), ma per la narrazione si cambia di livello. E’ ciò che Attilio Agnoletto chiamava intervento “autoritativo” dell’istituzione per stabilire la “verità”.
I fatti miracolosi riferiti dalla tradizione popolare non avvengono mai in città, ma in campagna, di solito in luoghi solitari ed incolti, o soprattutto in montagna, dove essa è più aspra e boscosa, persino selvaggia, insomma dove è più probabile che si trovino relitti pagani da cristianizzare. Di questo occorrerebbe fornire una spiegazione storica. Per parte mia posso solo formulare un’ipotesi. La più semplice è che, nelle zone rurali, più povere di risorse, fosse maggiore il bisogno di sacro e di prodigioso, ma forse di per sè non è sufficiente, o almeno non sempre. D’altra parte la città, sede o dipendenza del vescovo, era sotto il suo diretto controllo, per cui non c’era più spazio sufficiente per il paganesimo. Nei luoghi più remoti, invece, i residui restavano, ancora molto forti e difficili da estirpare, per cui si sarebbe concentrata qui l’offensiva della sacralizzazione attraverso i miracoli ed i santuari. E’ forse il caso di Forno o della Cornabusa di Cepino, nel Bergamasco, che mostrano singolari somiglianze geografiche. Ma il bosco è presente anche in pianura, fin presso le chiesette più modeste e meno note, se non a livello locale: penso, vicino a Lanzo, alla Madonna dei Martiri di Balangero o a San Vito di Nole. Si tratterebbe di un’eredità della religione celtica, che celebrava i propri riti in mezzo alla natura ed in particolare nei boschi sacri. Questi ultimi, comunque, erano tutelati anche nel mondo classico: in Grecia era vietato perfino condurvi al pascolo un gregge. La nascita di un santuario cristiano costituirebbe quindi, assai spesso, un atto di esaugurazione (neutralizzazione di un culto precedente) e cristianizzazione di un sito. All’origine di un santuario, solitamente, stanno due diversi tipi di eventi: un ritrovamento o un’apparizione. Nel primo caso, d’abitudine, un contadino o un pastore (sovente un ragazzo sordo-muto), nel corso del proprio lavoro, scoprono una statua o un’effigie della Madonna. Esse possono trovarsi in un fitto bosco, in un roveto (la celebre Vergine di Manosque è detta appunto “du Romigier” dal luogo in cui fu rinvenuta), in una grotta, insomma in luoghi poco praticabili; in altri casi l’effigie si trova appesa ad un albero o su di un masso. Talora la scoperta si accompagna ad un prodigio, ad esempio una ginestra fiorita in pieno inverno (come a Valfleury, e guarda caso, la ginestra rientrava nei culti celtici, simboleggiando il sole) o una nevicata estiva (sull’Esquilino, scelto così per la fondazione di Santa Maria Maggiore). Spesso l’evento è (in apparenza) casuale. In campagna era frequente il caso in cui i buoi, arando, si bloccassero e si piegassero sulle ginocchia davanti ad un punto dove, sotto terra, era sepolto un simulacro mariano. E’ il caso del santuario di Celle di Trofarello (Torino): abbattuta la chiesa locale dal Barbarossa (ne rimase solo il campanile), la statua della Vergine, andata perduta o nascosta, nel ‘600 fu ritrovata nel terreno da un contadino, i cui animali si erano fermati davanti ad essa durante l’aratura. Tori e buoi furono animali sacri fin dalla preistoria (le testimonianze in proposito sono innumerevoli, sotto forma di statue ed oggetti votivi) e costituirono un elemento pagano che il Cristianesimo non riuscì ad eradicare del tutto, ma solo a “riqualificare”, per cui fanno la loro comparsa nei racconti di ritrovamento. Spesso, dopo la scoperta, si porta la statua o effigie nella chiesa del paese o si inizia a costruire appositamente un nuovo edificio sacro, per darle una degna sede. Di notte, inspiegabilmente, il simulacro torna nel luogo in cui è stato rinvenuto, dove vanno a loro volta a finire i materiali accumulati altrove per l’edificazione del santuario. E’ il segnale del desiderio della Vergine di scegliersi la propria sede, e lì si edifica la cappella, che verrà poi ampliata. Alcuni studiosi interpretano questo fatto come affermazione della volontà della cultura subalterna. Tuttavia ritengo che spesso, dietro al “prodigio”, si celasse l’intenzione di cristianizzare un sito pagano da parte dell’istituzione. Di tale ulteriore eventualità non ho visto cenno nella trattatistica che ho studiato. In genere si tende a sottolineare, con un compiacimento che talora mi sembra persino ingenuo, l’origine popolare dei prodigi e dei conseguenti culti, senza domandarsi se, in qualche caso, non fosse esistita una “regìa” esterna all’origine di tutto. E’ significativo che sovente la Madonna dell’apparizione chieda che i fedeli siano incitati ad una maggior devozione: le sue parole diventano un mezzo, da parte della la Chiesa, per indirizzare il popolo nella direzione voluta. Comunque, alla fin fine, non si può fare a meno di interrogarsi su questa interminabile serie di ritrovamenti di simulacri nascosti: necessità, in tempi più antichi, di celarli per la loro non-ortodossia e successivo “riciclaggio” ? Riscoperta preparata a bella posta da qualcuno per ravvivare la fede Trattandosi di eventi di cui esiste solo in racconto della tradizione, non è possibile formulare ipotesi quanto meno attendibili. Il secondo tipo di evento miracoloso è l’apparizione della Vergine, in persona oppure in effigie. Era frequente l’uso (di nuovo di derivazione celtica) di appendere nastri, oggetti o altro ai rami degli alberi, che venivano così sacralizzati. In epoca cristiana tale abitudine fu diffusa anche in Germania ed in Polonia, dove le immagini devote, attaccate ad un tronco, avevano il compito di tener lontani gli spiriti malefici, che si credeva abitassero le foreste. Poteva accadere che, presso uno di questi alberi, avvenisse una guarigione prodigiosa, che attirava l’afflusso di devoti, i quali promuovevano l’edificazione di una cappella. Altre volte, invece, era l’effigie ad apparire misteriosamente su un ramo ed a dare luogo ad un miracolo. E’ il caso di Becetto (Sampeyre, Val Varaita), che prende il nome dal dialettale “bessè” che significa “diramazione”, nella fattispecie della betulla su cui era comparsa la Vergine.
Il caso più frequente, tuttavia, è quello in cui è Maria stessa ad apparire su di un albero, di solito ad un pastore, a cui chiede l’erezione di un edificio in Suo onore oppure una maggiore frequenza nella preghiera o il rispetto del riposo domenicale ed altre devozioni. Spesso il santuario che nasce sul posto della visione prende il nome dall’albero stesso, per cui avremo, ad esempio, la Madonna della Quercia (Viterbo), del Faggio (Appennino Bolognese), degli Olmetti (Valle di Viù, Piemonte) e tante altre. Siamo in presenza, come già accennato, del fenomeno che gli antropologi chiamano “Madonne arboree”, il quale costituisce un evidente richiamo ai culti pagani, rimasti nelle popolazioni almeno a livello di inconscio collettivo (in epoca antica era la dea Artemide a comparire sugli alberi). Abbiamo rilevato in precedenza come la visione di Pietro Garino a Forno rientri in questa fenomenologia. In certi casi l’albero stesso diventava oggetto di culto, come espandesse la forza guaritrice infusagli dalla Vergine, per cui se ne prelevavano e conservavano religiosamente foglie o frammenti di corteccia. In conclusione, citando Elisabetta Gulli Grigioni, l’albero, in ogni epoca, fu un “captatore di ierofanie” (sacre apparizioni): nei primordi della storia attirando i fulmini, poi durante la civiltà mediterranea ospitando le dee della fertilità, infine in epoca cristiana generando le leggende mariane. Altre apparizioni potevano verificarsi presso un masso, specie se erratico o di forma particolare (è ancora il caso di Forno). La Vergine della Misericordia del santuario di Valmala (nel Saluzzese) apparve a quattro pastorelli stando su una grande pietra piatta. Dello stesso tipo è il masso su cui, a Puy en Velay, secondo la tradizione, si appoggiava chi sperava in una guarigione miracolosa. Godevano di notevole popolarità le“pierres glissoires”, dove lo sfregamento del corpo sulla roccia era cercato per assicurarsi la fertilità o combattere i dolori. Il territorio è pieno di questi “roc” , spesso isolati nella campagna, che ebbero popolarità come “pierres glissoires”, dove ci si strisciava sulla pietra, specie per garantirsi la capacità di generare. Erano numerosi (ed utilizzati), anche nelle campagne, benché talora non avessero dato origine ad alcuna forma di culto. Un esempio, proprio alle porte di Torino, fra Villarbasse e Reano, è la “Pera Sgaroira” (o “Roc ‘d Manchauda”), solitaria in mezzo ad un campo. Sempre in tema di roccia, una sede prediletta di apparizioni e di culto erano le grotte, meglio ancora se gocciolanti d’acqua o dotate di una sorgente. Ricordiamo che inizialmente le Madonne Nere furono venerate in cripta, prima fra tutte Notre Dame Desous-terre, a Chartres. La Vergine del Santuario di Nuria, sui monti della Catalogna, fu trovata in una grotta, la cui roccia, di colore brillante, è considerata terapeutica, tanto che ogni pellegrino se ne porta via un frammento. Notre Dame de Confession, a Marsiglia, è venerata in una cripta, dove, per la festa della Candelora, La si veste di verde (colore non casuale, sappiamo) e si accendono ceri della stessa tinta. Per passare in Italia, a Cepino (Valle Imagna, nel Bergamasco) il Santuario sorge presso la grotta, in cui fu appunto ritrovata una statua della Vergine, dove scorre una sorgente ritenuta miracolosa. Ma in tema di grotte mariane la sede per eccellenza è ovviamente quella di Lourdes. Anche una roccia poteva essere sede di una divinità o almeno emanare le energie telluriche generate da essa e quindi “guarire”. Le civiltà antiche sono ricche di tali pietre sacre, sorta di totem e sede di riti propiziatori. C’erano quelli, come elenca Piercarlo Jorio, del “ passare sotto” (ad es. per un dolmen), “passare attraverso” (se il masso è spaccato), il girare attorno (come si giunse poi a fare, fino a tempi recenti, presso i santuari con le novene), lo sfregamento, l’asportazione di frammenti (come a San Besso o a Cepino). Era prassi comune bere l’acqua contenuta nelle coppelle. La Chiesa cercò di neutralizzare queste pratiche pagane, e allora ecco le rocce coppellate cristianizzate con l’incisione di croci, ma vi riuscì solo in parte.
Ogni nuovo santuario diventava punto di aggregazione ed attirava pellegrini, anche da lontano, talvolta in concorrenza con altri centri religiosi. E’ documentato come, in certi casi, visto il successo del modello prevalente (tipo Puy en Velay o Loreto), si siano annerite delle Madonne, e forse se ne creò la fama “inventando” un prodigio o una guarigione. L’edificio sacro, benché spiaccia rilevarlo, finiva per essere anche una fonte di denaro, su cui il clero vigilava. Quando un montanaro del posto, ai primi del ‘700, fece costruire un piccolo oratorio nell’attuale sede di Notre Dame de la Guerison (Courmayeur) e vi pose una cassetta delle offerte, subì la forte opposizione del parroco, tanto che si giunse a vietare i pellegrinaggi. Nel 1492, a San Giovanni Bianco (nel Bergamasco), in una casa privata, una donna vide un’effigie della Vergine versare lacrime. La notizia si diffuse, accorse gente e si verificarono eventi miracolosi. Ma il prevosto del luogo diffidò la protagonista della visione dal riscuotere offerte. Nel caso di Forno Alpi Graie, dopo che il prodigio dell’apparizione fu riconosciuto e costruita la prima cappella, si instaurò una specie di consiglio di amministrazione con il sindaco ed il curato. In conclusione la Chiesa fu sempre vigile sui risvolti economici di miracoli e santuari. Come già osservato, nei vari racconti di fondazione si rileva che i protagonisti di ritrovamenti e visioni, svolto il loro ruolo, scomparvero letteralmente dalla tradizione orale o scritta. Anche quando ne viene riportato il nome, in breve se ne perde ogni traccia. Casi come quelli, peraltro recenti, di Bernadette Soubirous e dei tre pastorelli di Fatima rappresentano sicuramente delle eccezioni, a cui contribuì il mutato momento storico (ma anche Giovanna d’Arco costituì un caso particolare). Questa cancellazione del protagonista dalla sua “storia” ha le proprie motivazioni. In certi casi i santuari , specie in montagna, sorsero in punti strategici delle vie di transito, spesso dove era prima esistito un sito pagano. Qui, di solito, si riunivano in assemblea gruppi o tribù, che celebravano riti comuni e stipulavano accordi, i quali riguardavano sovente i diritti di pascolo. Questi ultimi erano facilmente motivo di contesa, e anche in epoca cristiana non mancarono le rivalità, capaci di sfociare in episodi cruenti. In Piemonte un caso ben noto è quello del Colle del Colombardo, dove, nel 1705 fu eretto il santuario della Madonna degli Angeli. A disputarsi il controllo del luogo furono gli abitanti di Lemie (Val di Viù) e Mocchie (Val di Susa): il contrasto esplose nella cosiddetta battaglia del Colombardo (1837), quando, nel bel mezzo della festa dedicata alla Vergine, si verificò un violento scontro. Sempre nelle Valli di Lanzo anche il Santuario di Santa Cristina fu oggetto di contesa fra due Comuni, Ceres e Cantoira. Sorto nel XV secolo, dove già era posto un edificio più antico, ed ampliato nel XVII, in epoca precristiana fu probabilmente un sito di riunione intertribale, come sottolinea l’antropologa Ariela Robetto. In Val Seriana, nel Bergamasco, un sacro edificio, la Madonnina delle Fontane (un toponimo significativo), fu invece teatro di uno storico accordo (1682) tra le due comunità di Scalve e di Borno, che avevano lottato fra loro per secoli per una questione di confini. Abbiamo già rilevato che, in genere, il protagonista delle apparizioni della Vergine era un pastore o un bambino/a, cioè una persona “altra” rispetto alla società comune, quello che potremmo definire un “puro”. Non mi risultano molte eccezioni: una è quella dell’apparizione che originò la fondazione del Santuario di Trana (Torino), a cui assistettero il curato e due maggiorenti del luogo. L’antropologa Gulli Grigioni definisce “l’innocente mediatore” questo tipo di figura dall’animo intatto, che potrebbe essere un’invenzione dell’era cristiana. Infatti non ne troviamo traccia nei miti greco-romani, nei quali, ad incontrare la divinità, può essere un eroe, un giovane ricercato per la sua bellezza, come Adone, una fanciulla concupita, spesso attraverso episodi drammatici. I racconti cattolici di fondazione, invece, ci introducono in un’atmosfera del tutto diversa, poiché si propongono uno scopo etico-religioso e scelgono un protagonista dalle caratteristiche diverse. Ricordiamo che l’importanza del pastore nell’instaurarsi del rapporto della comunità con Dio è sottolineata già nel Vangelo, dove furono appunto i pastori i primi ad accorrere alla grotta di Gesù, e da allora rivestirono un significato simbolico. Tuttavia come e quando, da questo antecedente, si sia giunti a privilegiare il custode di pecore in qualità di “innocente mediatore” gli studiosi non ce lo dicono. Tanto meno c’è stato qualcuno che abbia spiegato la simbologia del pastorello/a sordomuto, così frequente nei racconti di fondazione. Anche in questo caso esiste una precisa indicazione nel Vangelo, in particolare in Matteo (XIII, 3: “Se non vi convertite e non diventate come piccoli fanciulli, non entrerete nel regno dei cieli”), che mostra con chiarezza l’orientamento di Gesù verso i bambini. Tuttavia, nella narrazione degli eventi miracolosi, non se ne fa alcun riferimento. E l’atteggiamento dei pensatori cristiani sui bambini, da San Paolo a Sant’Agostino fino a Pascal, non pare molto positivo. Solo assai più tardi, con Rousseau, inizierà una vera e propria rivalutazione della fanciullezza. Non resta che formulare delle congetture: questo personaggio forse fu scelto dagli affabulatori sulla base di reminescenze provenienti dai Vangeli (compresi quelli apocrifi) o come garanzia, per la sua età stessa, di sincerità o estraneità ad influenze esterne (tanto più se sordo-muto) oppure, all’opposto, potrebbe costituire un residuato di antichi riti, addirittura pre-indoeuropei, nei quali era richiesta la presenza di fanciulli, ma al momento non esistono, che io sappia, dati documentari. Bisogna precisare che gli antropologi hanno in genere condotto su questo tema indagini descrittive, ma non di carattere storico. Talvolta i “racconti” ci mostrano, invece, un protagonista del tutto diverso, che la Gulli Grigioni definisce “l’empio provocatore”. Di solito si tratta di un soldataccio, un ubriacone, un giocatore inferocito per una perdita a carte o ai dadi. Costui infierisce su un’effigie della Vergine, colpendola ad esempio con un sasso, o le manifesta un forte dispregio, ed essa comincia a sanguinare o a piangere. Il fatto provoca un afflusso di devoti e, solitamente, un miracolo/i, che dà inizio al nuovo culto. Se ad essere colpito è un pilone votivo, diventa quasi obbligata la scelta di inglobarlo nella cappella che verrà costruita sul posto. Una vicenda del genere, ad esempio, sta all’origine del Santuario di Re, nel Biellese. I casi di simulacri che piangono o versano sangue sono abbastanza frequenti, anche in tempi moderni. In questo caso, però, la simbologia del racconto è di più facile interpretazione, indicando la vittoria del bene sulla malvagità, onde un evidente scopo religioso, anzi di conversione, da parte del narratore.
Alla luce delle considerazioni espresse fin qui, conviene, secondo me, tornare su alcuni aspetti della vicenda di Garino e ragionarci un po’. Pietro è, a sua volta, un “innocente mediatore”, ma piuttosto atipico. Ad esempio non è un pastore, non è un “semplice”, poiché dispone di una certa cultura e non manca di beni materiali. Diciamo che fa parte del sistema. E’ un personaggio dai connotati storici abbastanza precisi ( la sua immagine non è lasciata nel vago come tante altre) e, pur mantenendo una posizione defilata, non scompare subito dalla vicenda, ma realizza la promessa cappella. Sarà poi stato proprio lui ad imporre l’intangibilità di quel bosco che doveva essere sacralizzato ? La decisione potrebbe essere venuta su suggerimento di qualcuno, il parroco per esempio, verso il quale egli si era dimostrato così ossequioso, o da più in alto ancora. Quindi la figura di Garino e la nascita del Santuario di Forno non rientrano pienamente in quelli che gli studiosi chiamano “culti spontanei”, “che vengono dal basso”, ma sembrano scaturire dalla storia ed a contatto con le istituzioni. A questo proposito è utile accennare ad un caso di apparizione della Madonna, avvenuto a Tirano nel 1504 e descritto dallo storico Giorgio Cracco. Il protagonista, tale Mario Homodei, è singolarmente simile a Pietro Garino, nel suo ruolo di “innocente mediatore”. Modesto contadino, di una famiglia che aveva rivestito un certo ruolo sociale (insomma, facente parte del sistema), mentre cammina per strada è trasportato da una forza misteriosa nell’orto di un notabile del posto, rappresentante del potere francese. Qui ha una visione della Madonna, che gli chiede l’edificazione di un santuario, come condizione perché cessi la peste. L’Homodei viene creduto, al pari di Garino, ma, altrettanto devotamente, deve fornire solenne testimonianza alla presenza di ben tre notai, sei sacerdoti e vari altri testimoni. L’aspetto diverso, però, è questo. Nella prima stesura del racconto fu posto in primo piano il governatore, proprietario del terreno in cui avviene il prodigio, evidentemente per motivi di prestigio politico. Ma poco dopo la Curia vescovile di Como prenderà in mano la questione e procederà a riscrivere tutta la vicenda: il posto dell’evento diventa un altro, il notabile passa in secondo piano, l’Homodei quasi sparisce, i miracoli avvenuti dopo la visione sono ridimensionati di numero e si pone in evidenza come il prodigio sia conforme, questo contava, alla Rivelazione cristiana. In conclusione, vuole dimostrare lo studioso, nei racconti di fondazione chi decide è l’affabulatore, e non il mediatore. Il suo commento è piuttosto amaro: esistono due Chiese, quella delle istituzioni e quella di Maria, cioè dei “laici umilissimi” del popolo. Il Santuario di Forno Alpi Graie Quando si giunge al Santuario di Forno, il primo aspetto che colpisce è il suo posizionamento: l’accesso all’area sacra, fatto inconsueto, non avviene frontalmente, con vista sulla facciata, ma dalla parte dell’abside. Fin dai tempi di San Benedetto (ma la tradizione giunge addirittura, attraverso i secoli, dalla Mesopotamia) gli edifici sacri, di solito, guardavano ad oriente, spesso con varianti che consentivano di porre in evidenza un certo giorno dell’anno liturgico. Ricordiamo però che, a volte, l’orientamento di un edificio (il quale, di norma doveva appunto rispondere a precisi criteri, tenenti conto del dato astronomico) era condizionato dalla natura dei luoghi. Ad esempio la venerata Madonna del Trüc (Pessinea, Valle di Viù), posta su un’ardita rupe, volge necessariamente a nord. Ma, nel caso di Forno, non fu sempre così: fino al rifacimento del 1757 l’ingresso era invece rivolto verso il punto d’arrivo dei pellegrini, cioè l’occidente. Data l’esiguità dello spazio disponibile, malgrado l’effettuazione di sbancamenti, i lavori di ampliamento dell’edificio costrinsero a capovolgerne l’orientamento. D’altronde non si potevano deviare le vie di accesso sul lato del pendio verso valle, essendo questo delimitato dal Cinai d’la Madona con le sue valanghe.
Alla fin fine, però, adesso la facciata guarda verso est, verso il punto cardinale considerato per tradizione il più propizio e carico di significati simbolici. Ma il Santuario vanta un ben maggiore “privilegio” astronomico: il sole, dopo un breve periodo di “buio” invernale, torna a lambirlo proprio il primo di gennaio. Troppo emblematico per essere un caso. Non penso che tale ubicazione sia un’eredità dei Celti, per i quali l’anno cominciava il primo di novembre e le altre date importanti cadevano assai più avanti, con l’arrivo della primavera. Pur tenendo conto della vicinanza al solstizio d’inverno, bisogna pensare ad un’altra motivazione per tale coincidenza. Per la Chiesa Cattolica la celebrazione del primo giorno dell’anno ha una valenza liturgica minore, per cui anche questo canale pare essere precluso. Poiché il primo mese del calendario era diventato gennaio solo con la riforma giuliana, il dato di fatto ci riconduce all’antico mondo romano. A tale proposito l’antropologa Roberta Astori, attenta studiosa dell’argomento, mi ha fatto notare che proprio le calende di gennaio segnavano, presso i Romani, l’inizio delle importanti feste dei Saturnali, animate da uno spirito che potremmo definire carnevalesco e connesse con il prossimo ritorno della bella stagione. Potremmo quindi pensare, sempre a livello di ipotesi, che sul posto (ricordiamolo, un pianoro isolato con sorgente e bosco sacro) si siano celebrati per lungo tempo riti che richiedevano una sede appartata, ma anche idonea dal punto di vista simbolico. E quale miglior simbolo di rinascita che il ritorno del sole ? Gli antropologi Enrico Comba e Margherita Amateis riferiscono che alle calende di gennaio, ancora festeggiate quando già il Cristianesimo era diffuso, secondo le fonti storiche, molti erano soliti travestirsi da cervi o da capre o indossare maschere animali per abbandonarsi a frenetici rituali, che producevano una “eccitazione emozionale” tale che i mascherati non parevano nemmeno più uomini. Secondo gli autori tali travestimenti, le questue infantili, la preparazione di tavole per gli dei notturni, erano modi diversi per entrare, simbolicamente, in rapporto con i morti, dispensatori di prosperità. Stando così le cose non c’è da stupirsi che si sia voluto sacralizzare l’area del futuro Santuario: i Saturnali non si celebravano più, ma il luogo, nell’inconscio collettivo, restava collegato a residui di paganesimo. L’unica domanda che rimane insoluta è: perché si è intervenuti così avanti nel tempo ? Secondo quanto si narra, Pietro Garino avrebbe fatto costruire, sul luogo del prodigio, prima un semplice pilone, poi una modesta cappella, che risulta terminata già nel 1632. Nello stesso anno il parrocco ottenne da Torino il permesso di procedere alla benedizione. I documenti ci informano che la chiesetta, oltre ad essere fornita di paramenti, era pavimentata. Tale precisazione lascia intuire molto sulla rusticità degli edifici che nascevano dalla devozione popolare. Nel 1649 una Convenzione Arcivescovile mise a capo di tutto una sorta di consiglio d’amministrazione, comprendente il sindaco di Forno, il parroco, Pietro Garino ed un tesoriere, che doveva render conto degli incassi derivanti dalle offerte. Nel 1668 da parte della Curia si giunse addirittura a fissare il prezzo delle Messe. La cappella rimase tale fin verso la fine del ‘600. La visita pastorale dell’arcivescovo Beggiano, nel 1674, testimonia, sì, l’afflusso di pellegrini “a chieder grazie, far penitenza e dare elemosine”, ma anche la presenza di un solo altare, adorno di ex-voto, senza alcun cenno alla presenza di simulacri o effigi. Un primo sensibile rimaneggiamento fu attuato tra la fine del ‘600 e l’inizio del secolo successivo. Una visisita pastorale del 1730, infatti, segnala la presenza di un altare “medio”, di un tabernacolo ligneo e di una statua della Vergine dello stesso materiale, oltre ad accennare ad una certa ricchezza di ornamenti. Nel ‘700 le condizioni generali del Piemonte e dell’Italia migliorarono, anzitutto per il diradarsi delle guerre, cosicché numerose comunità poterono avviare il restyling dei loro edifici religiosi: restauri, ampliamenti, nuove costruzioni furono frequenti. Forno partì con un certo ritardo, poiché le forze erano state concentrate nella lotta per separarsi da Groscavallo. Nel 1750, comunque, fu realizzata la casa del custode, a forma di tozza torre arroccata sul pendio di fronte al Santuario. Non è un fatto unico: persino a Loreto si era dovuto provvedere ad una messa in sicurezza del sacro edificio. Nel 1757 il distacco fra le due comunità fu cosa fatta e, guarda caso, nello stesso anno iniziarono i lavori di ampliamento e ri-orientamento dell’edificio, che durarono fino al 1770, sotto la direzione di architetti luganesi. Un intralcio non da poco fu rappresentato dal crollo, nel 1765, dell’imponente muraglione di sostegno della spianata, che fu ricostruito (sempre in pietra a secco). Pochi anni dopo a Forno fu realizzata anche la nuova Parrocchiale, dedicata all’Assunta, nel segno di una evidente ripresa economica. Alla spianata antistante il Santuario, delimitata da un muretto ed affacciata sul vastissimo panorama di Forno, della valle e delle cime, si giungeva attraverso un’ampia arcata esterna sorretta da un muro, delimitante un portico. Essa segnava, anche materialmente, l’accesso allo spazio religioso vero e proprio e rivestiva un alto valore simbolico. Fin dalla preistoria il recinto era sempre stato l’elemento fondante della sacralizzazione di un territorio. Oggi, del manufatto, non resta che un isolato, insignificante, pilastro e il momento pregnante dell’ingresso è svanito. In compenso compare la cancellata che impedirebbe (il condizionale è d’obbligo) il passaggio degli stambecchi. E’ un esempio, e non certo l’unico, lo vedremo, di come, con il pretesto di “rendere più degno” un edificio di culto, si sia cancellato un elemento architettonico dal preciso significato culturale, dando prova di ben poca sensibilità verso la storia religiosa e non solo.
Il nuovo Santuario, con il coro e le cappelle laterali fornite di altare, fu oggetto di ulteriori interventi intorno alla metà del 1800, quando fu realizzata la nuova facciata, nel 1869. Nel frattempo era stato installato il piccolo campanile (in sostituzione del precedente), con benedizione della campana nel 1862. Nonostante tale serie di successivi ampliamenti, il Santuario rimase di dimensioni ridotte e non raggiunse lo sviluppo di Oropa o nemmeno di Prascondù. Il motivo sta nell’aspra natura del luogo, che non consentiva più di tanto. Ma, personalmente, mi sento più coinvolto da quel modesto edificio e dall’ambiente raccolto che lo circonda, che non da certe costruzioni imponenti, con lunghi porticati e spianate grandiose. Una delle cappelle interne è dedicata a Sant’Anna, il cui culto è ampiamente diffuso sulle Alpi, e non solo, come ha dimostrato l’antropologa Ariela Robetto. Anna non compare nei Vangeli ufficiali, ma solo nell’apocrifo Protovangelo di Giacomo, del II secolo, che narra l’infanzia di Maria; tuttavia è entrata profondamente nella venerazione cristiana con una serie di tradizioni e leggende. La venerazione nacque, ancora una volta, in Oriente verso il IV secolo, ma giunse in Occidente assai più tardi, mettendo, però, rapidamente radici. In area celtica la sua venerazione fu favorita dalla quasi omofonia con una delle deità locali più importanti, Dana/Ana (ma anche in Oriente, dove sarebbe nato il culto, esisteva, come si è detto, una divinità semi-omofona, Inanna). Nel culto e nell’arte l’importanza di Sant’Anna venne spesso evidenziata ponendola accanto ad una Maria fanciulla o giovane, raffigurandola così nel ruolo di una Grande Madre. Un esempio significativo è il dipinto di Leonardo. Non stupisce, quindi, l’estesa presenza sulle Alpi (pensiamo all’imponente Santuario di Vinadio) e, in particolare, nelle Valli di Lanzo di molti edifici a lei dedicati, dalla cappella del Vallone di Arnas (Usseglio) a quella dei Cornetti di Balme ed all’elegante chiesa di Almesio. A Forno era venerata come protettrice delle ragazze nubili (“fiess”) e delle puerpere, e veniva celebrata con una festa di valenza patronale. Non c’è libro o manuale turistico su Forno che non menzioni l’antico e prezioso altare del Santuario, eseguito in noce nero d’India ed avorio lavorati ad intarsio. Personalmente mi ero sempre chiesto come un manufatto artistico di tale valore potesse esser giunto in un modesto villaggio di montagna, ma le vie della storia sono complicate. La vicenda è piuttosto lunga e necessita di una premessa. Ne devo il racconto, come al solito, a Maria Teresa Serra. Dopo la lunga Guerra di Successione Spagnola Vittorio Amedeo II di Savoia aveva bisogno di rifarsi delle spese. Per questo, smantellato il Marchesato di Lanzo, trasformò i vari Comuni delle nostre valli e di altri territori in tante contee e ne mise in vendita l’infeudamento. A comprare il titolo di conte erano di solito importanti famiglie borghesi (notai, professionisti) di pianura, che volevano procurarsi un titolo nobiliare. Perciò, dal 1725, ci fu anche un Conte di Groscavallo (come di Forno, di Bonzo, ecc.), che era in buoni rapporti con il re. Intanto a Venaria era iniziato il restauro della chiesa di Sant’Uberto, che il progetto di restyling prevedeva molto più “degna”. Il bellissimo altare ligneo del Prinotto non bastava più; se ne volle uno marmoreo e il primo fu dismesso. Si pensò di destinarlo alla cappella del Beato Amedeo (IX) di Savoia nella cattedrale di Sant’Eusebio a Vercelli, ma l’idea non andò a buon fine. Allora si fece avanti il Conte di Groscavallo, il quale lo ottenne dal re, per utilizzarlo nella Parrocchiale del suo feudo, che si proponeva di ricostruire come gesto di liberalità. Tuttavia anche questo progetto, dopo varie lungaggini, non fu condotto a termine. I pezzi dell’altare, smontati, furono custoditi in una cappelletta contigua, finché essa non divenne fatiscente. Finalmente, o a fine Settecento o verso la metà del secolo successivo, si decise di utilizzare il manufatto per il Santuario di Forno, dove i lavori di ampliamento erano ancora in atto. Documenti sicuri ne attestano la presenza già nel 1845. Così l’opera abbellisce, a tutt’oggi, il sacro edificio. Nel 2018, tuttavia, si ritenne necessario un intervento di restauro, che, dopo una lunga polemica locale, fu correttamente eseguito, riportando il manufatto nel suo sito. Qui la Madonna Nera, coperta di una dalmatica, si erge dritta sul prezioso ciborio, con il Bambino in braccio. Rientra quindi nella seconda generazione di statue, venute dopo le Regine in trono attribuite al mondo celtico e romanico. A queste, però, si ricollega per lo sguardo fisso nell’infinito, immobile e distaccato. Non è un viso atto a suscitare emozioni, a donare dolcezza e conforto o condividere il dolore, tutti elementi che, in tempi più lontani, si ritrovano dal gotico in poi. E’ vero che l’attuale statua è solo una copia del simulacro rubato nel 1977, ma il modello a cui lo scultore si è ispirato resta quello delle Madonne Nere, con la loro astrazione metafisica di sapore orientale. Ma forse i pellegrini, presi dal loro angoscioso bisogno di una grazia, non ardivano nemmeno fissarla. Ai lati dell’altare, a ricordare l’origine di tutta la vicenda, stanno i due quadretti del Rocciamelone in un prezioso reliquiario barocco. La salita al Santuario si svolge sia lungo una stradicciola sia per mezzo di una scalinata. Quest’ultima era in funzione già ai primi del ‘700, mentre la seconda fu appaltata solo nel 1750, per consentire il passaggio alle cavalcature ed alle bestie da soma. E’ verosimile che all’inizio esistesse un unico modesto percorso, con alcuni tratti scalinati per vincere le pendenze. Essi furono poi via via ampliati, fino a giungere al capolavoro di 366 gradini, unico nel suo genere perfino in Europa. L’immagine della scala è di per sè simbolica, poiché richiama la salita verso Dio. Tuttavia tale numero, pari ai giorni dell’anno, ha un significato simbolico più nascosto, che è arduo individuare. Dovette subito esercitare un suo fascino ed un notevole prestigio, se trovò varie imitazioni in valle: lo testimoniano i percorsi scalinati per la cappella del Ciavanis, per quella della Frassi e per il Santuario di Santa Cristina. Fuori Piemonte ho ritrovato questo numero di gradini solo nel paese di Trivento, nel Molise, ma si tratta di un manufatto più recente e maestoso, non rustico. Alcuni santuari antichi e famosi sono dotati di imponenti scalinate d’accesso. Ad esempio a Rocamadour si sale alla cittadella religiosa con 216 gradini; invece 134, a Puy en Velay, introducevano direttamente nella cattedrale, come nel grembo della madre (e la gradinata è detta “scala del ventre”); 349 sono quelli del Santuario di Imbersago, risalenti al ‘600. E anche ad Oropa è un’imponente scalea a condurre allo splendore dell’ edificio. Ma in tutti questi casi il numero sembra casuale, non simbolico, e la fattura del manufatto è elegante, non espressione di un’iniziativa popolare come a Forno. Qui la scala si dipana lungo l’erto pendio con curve e controcurve, quasi a significare un’ascesa lenta e faticosa come la vita stessa. Quei rozzi gradini, nel tempo, furono risaliti in ginocchio da migliaia di pellegrini, tutti nella speranza di una grazia o di un perdono. Adesso non se ne vedono più, ma io conservo la memoria di quelli osservati da ragazzo: volti sofferenti, assorti nella recita dell’Ave Maria, espressioni che non si cancellano dalla mente.
I pellegrinaggi al Santuario di Forno erano “intervallivi”, poiché la gente giungeva anche dalla pianura e dalle valli vicine, persino dalla Savoia. Il Conte Francesetti di Mezzenile, nel ‘700, descriveva con meraviglia le cordate di persone, legate una all’altra, che risalivano i ghiacciai fino al Colle di Sea o al Col Girard per scendere a Forno. In tempi non lontani, riferisce Ariela Robetto, giungevano pellegrini scalzi e vestiti di una tonaca azzurra; erano chiamati “Madunìn” o “Celestìn”. Oltre alle ricorrenze comuni stabilite, prima fra tutte l’Assunta, ogni Comune della valle sottostante aveva il suo giorno per la propria processione annuale al Santuario. Rammento quanto narratomi da un’anziana montanara dei Tornetti di Viù: quand’era bambina, con la famiglia valicavano il Colle della Cialmetta, risalivano a piedi tutta la Val Grande e compivano in ginocchio la salita della scala. Molti pellegrini trascorrevano la notte al Santuario, in canti ed orazioni o compiendo novene, cioè girando in preghiera per nove volte consecutive intorno all’edificio (come d’altronde facevano gli antichi intorno ai massi erratici ritenuti sacri). Dagli anni ’50 del secolo scorso in avanti si procedette al “restauro” della celebre scala, cioè la si abbattè per intero ! e se ne rifece una nuova, “moderna e funzionale”, cominciando dal tratto più alto, probabilmente il più compromesso. Senza neppure un minimo, quanto meno, di senso storico, non se ne lasciò nemmeno un pezzetto come testimonianza di quella che era stata un’epoca. Lo scopo era ridurre l’alzata dei gradini e rendere “più agevole” il cammino (a parole i cambiamenti sono sempre per migliorare, benchè comportino dei costi non solo economici). Così gli scalini sono diventati circa 430, un numero senza rilevanza (e non 444 come qualche spiritoso ha affermato), che cancella l’antico significato. Sarebbe bastata una semplice operazione di ingegneria per salvare quel simbolico 366, ma oggi le tradizioni esistono per essere eluse (e d’altronde il numero accresciuto di gradini faceva incasso !). Lungo il percorso di salita erano situati un tempo tre sacelli (oltre ad altrettanti piloni votivi ancora in sede). Alla base si trova quello dedicato a San Giuseppe, tuttora esistente, con il pronao ed il tetto a doppio spiovente di lose, di recente restaurato. Un tempo la facciata era affrescata, ma poi tutto è stato cancellato da una bella mano di bianco, probabilmente nel secolo scorso. Ogni commento è superfluo. Forse ci si volle risparmiare la fatica di restaurare l’affresco. Spero che, prima o poi, non capiti la stessa sorte alla cappella di San Bartolomeo, alla periferia di Groscavallo, le cui pitture murali, di grande interesse, sono in stato di degrado. A circa metà del percorso di ascesa, in un evidente slargo presso un pilone, si trovava il sacello dedicato alla Natività, che la tradizione vuole edificato proprio da Garino. Più in alto, infine, in un punto di non facile identificazione, stava il terzo, intitolato a San Carlo (stiamo parlando dei soggetti dei due quadretti ritrovati sul Rocciamelone). Probabilmente già fatiscenti, crollarono o furono abbattuti nel 1765, quando ruinò il muraglione di sostegno, se non altro per recuperare i materiali. Comunque, tra le ricorrenze rituali del Santuario, oltre all’Assunta (15 agosto) e San Girolamo (30 settembre, anniversario dell’apparizione), si celebrano l’8 settembre (Natività), che richiamava a sua volta tantissimi devoti, e San Carlo (4 novembre), che chiude, per così dire, la stagione ed ormai è quasi deserto. Tornare al Santuario, oggi Mi ricordo ancora di quando, da ragazzo, salivo al Santuario di Forno. Appena uscito dal paese, varcavo il ponticello di legno sulla Stura e mi trovavo nei prati: distese d’erba rigogliosa e fiorita, attraverso cui scorreva una semplice stradina di terra. Nei pressi sorgevano gli orti. Dopo un tratto in piano il tracciato si avvicinava al pendio boscoso di Navers, saliva leggermente, costeggiando un oratorio, per poi restringersi, delimitato da un muro a secco. Se ne vedono ancora pochi resti, ingombri di vegetazione, che guardo con rimpianto. Nessuno ha pensato di segnalare questa esile presenza con un cartello, a titolo di memoria, ma è evidente che dell’antica stradina non importa più nulla a nessuno. In basso si scorgevano il muretto della “strà d’le crave” ed altri prati verdissimi. Il tracciato proseguiva in leggera pendenza, fino al ponticello di legno sul Sea, dal quale si poteva intravvedere la cappella di San Giuseppe. Di lì cominciavo la salita vera e propria, in genere su per la scala scoscesa. Oggi questo mondo non esiste più, naturalmente perché l’alluvione del ’93 ha sconvolto il paesaggio. Ma gli uomini avevano già fatto prima la loro parte, dando una bella botta, persino più distruttiva. Negli anni ’60 l’istituzione ecclesiastica e quella amministrativa locali si erano trovate d’accordo per un “grandioso”progetto: una carrozzabile che portasse fino ai piedi del Santuario (erano gli anni in cui i sindaci proponevano la funivia con la Francia o il tunnel per Ceresole da Monastero). Così sarebbe stato più agevole l’accesso per i pellegrini, ne sarebbero arrivati di più ! Come se i pellegrini, quelli veri ... In pochi anni la sterrata è diventata un’autostrada, mangiandosi fette di prato, su cui si parcheggiano indisturbate le vetture. Chi passa di lì in estate respira tutta la polvere che vuole. I prati (quelli che l’inondazione non si è mangiata) mostrano un’erba stenta, arata dai cinghiali, ma soprattutto costellata di pietre, usate dai “turisti” come sedili o focolari. Al piccolo oratorio lì vicino avevano persino rubato alcune lose di copertura per cucinare l’irrinunciabile carne alla piastra. Ripenso agli anziani che toglievano con cura ogni sasso dai pascoli. Di controlli da parte di una qualsiasi autorità locale o meno, ovviamente, nessuna traccia. E i pellegrini ? Sono quasi scomparsi. Si vede un po’ di gente solo nelle due feste comandate, ma sono di più quelli che bivaccano nei prati. In agosto le Messe pomeridiane al Santuario sono quasi deserte. La strada si è rivelata soltanto una scriteriata operazione di turismo di massa, che ha accompagnato ed accentuato il degrado dell’ambiente. La salita lungo la scala nuova è più agevole, non c’è che dire. Nell’ascesa ci accompagnano le colonnine della recenteVia Crucis: in pietra moderna, chiara (tutt’intorno la roccia è scura), squadrata a macchina, con immagini di metallo stilizzate. Il tutto non si attaglia proprio ad un ambiente che trasuda antico. La ripida stradina è stata ampliata, e questo era indispensabile per portare su con il trattorino i materiali occorrenti per gli interventi di restauro (necessari e meritevoli) al Santuario ed alla Casa del Pellegrino. La lastricatura non è rustica, ma di pietre levigate: quandoè bagnata di pioggia o coperta di foglie umide, non ve la raccomando, visto il rischio di cadute. Solo giunti alla spianata finale incontriamo qualcosa di positivo: nella Casa del Pellegrino è stato aperto, per merito di volontari, il piccolo Museo dedicato agli ex-voto.
Ho raccontato tutto questo non per sfogo autoreferenziale, ma per denunciare la situazione che si è creata intorno a quello che era il cuore pulsante della fede in valle. La festa del Santuario di Forno era sempre stata una ricorrenza puramente religiosa, senza nemmeno il tradizionale incanto (vendita all’asta dei prodotti a beneficio della chiesa), mai accompagnata da quei balli e scampagnate, tipici di altri santuari, che altrove hanno finito per prevalere. Tempo fa mi diceva con tristezza il Maestro Perrone di Chialamberto, lucido interprete della cultura locale: al Santuario del Ciavanis non andrebbe quasi più nessuno se non dessero polenta e spezzatino. A Forno non si è scesi a tanto, ma sono subentrati desolazione e silenzio. E’ stata attuata un’opera di destrutturazione culturale, cancellando la storia e lasciando l’ambiente in abbandono. L’antropologo Giuseppe Profeta ha scritto: “Le sopravvivenze reggono all’urto dei tempi solo se rispondono alle esigenze del gruppo sociale che le conserva e se hanno un minimo di giustificazione funzionale nella società che le accoglie”. L’antico gruppo sociale che viveva le tradizioni, cioè i montanari, si è pressoché dissolto. La società è cambiata: un lungo periodo di assenza di guerre, l’avanzato sistema sociale, il progresso della medicina e il messaggio dei mass media hanno rimosso il “pericolo” e perfino l’idea della morte dalla nostra vita, annullando il “rischio esistenziale” di cui parlava Dini. Perciò non sussiste più la “voglia” di conservare il mondo spirituale del Santuario, o dei Santuari. Eppure non ci si rende conto che basterebbe poco a far cambiare il vento: durante i due conflitti mondiali, in tempo di laicismo e decristianizzazione già imperanti, tra i soldati al fronte erano tornate a correre, nel segno della paura, oltre alle preghiere ed alle devozioni, le copie dell’Epistola apotropaica di papa Leone. Conclusioni Al momento di tirare le somme della mia ricerca, devo ammettere che l’argomento si è rivelato complesso e “scivoloso”. Ho acquisito alcuni dati storici e culturali che ignoravo, ma non tutto ciò che speravo. I punti da chiarire erano numerosi, e molti sono rimasti tali. Le Madonne Nere, la loro origine, il momento del loro arrivo e diffusione sul territorio italiano ed europeo, restano secondo me un enigma, che non si può pensare di risolvere in base a chiavi interpretative ideate a priori, tipo l’esoterismo. Viste l’assenza o l’insufficienza di dati storici, si possono formulare soltanto delle ipotesi, le quali, tramite una traccia di fili sottili, sembrano ricondurre in Oriente, ma senza spingersi oltre. Troppo estese e ramificate sono le loro radici. Certo, nel caso del mondo celtico, che aveva un suo culto degli inferi, un incontro sincretico fra Iside e la Madre Terra è ragionevolmente ipotizzabile. Per quanto concerne i “racconti di fondazione”, con gli episodi di apparizioni e ritrovamenti, è corretto configurare (nella maggior parte dei casi) il punto di partenza come “bisogno” del sacro e del soprannaturale, ma proiettare tutto il discorso solo in chiave di matrice popolare dei culti locali, nati dal basso, mi sembra riduttivo, così come non mi pare idoneo ricondurre l’affabulatore a semplice voce narrante. Quando, e se veramente, accade il prodigio vissuto da un “ingenuo” (così ripetitivo nei suoi elementi costitutivi da sembrare, appunto, precostruito, come nelle agiografie medievali o nelle fiabe), deve subentrare una mano organizzatrice che convogli, o manipoli, la “base” verso un obiettivo, che può essere un’esaugurazione, l’espansione di un culto, un aumento della devozione, una riconversione sulla giusta via, il tutto sotto la regia dell’istituzione, che conduce all’edificazione di una cappella come segno tangibile. Alla fase “spontanea” subentra quella del controllo: pensiamo ai “processi” davanti a testimoni per Pietro Garino o Giovannino Berrardi. Come poi venga raggiunto “l’obiettivo”, per dirla in termini moderni, è questione di marketing, cioè di porre nella luce migliore possibile l’evento al pubblico dei fedeli, in modo da esercitare un’attrazione. Per questo, ad esempio, nei territori intorno a Puy en Velay o a Loreto, veri poli di influenza spirituale, fioccano le cappelle e le Madonne diventano nere. A questo punto diviene importante vantare la presenza di una reliquia (Loreto possedeva addirittura la casa della Madonna) o di un’effigie dipinta da San Luca (?), capaci di attirare prodigi, e farne correre la fama. Ma di pari importanza, sempre per parlar moderno, è lo sponsor: la presenza di un personaggio come San Bernardo, l’appoggio di una casa nobiliare o addirittura regnante (come i Savoia), il supporto di un’istuzione come i Gesuiti. Dopodiché, per dirne una, San Vito di Nole rimane una cappella fra i boschi e Loreto diventa la roccaforte che è; il Ciavanis resta una candida chiesetta fra i pascoli e Sant’Anna di Vinadio, pur tra le montagne, cresce come un castello. L’antropologia, nel trattare i “racconti di fondazione”, descrive il quadro soffermandosi su forme e colori, ma non ci spiega come è stato dipinto. La storia vorrebbe illustrarcene il quando e il perché, ma non ha i documenti necessari. Ricordiamo gli atti distrutti negli incendi, le statue rubate o bruciate. E il Santuario di Forno? Mi sono sempre chiesto come questo modesto villaggio abbia potuto originare una fede ed un afflusso di devoti così grandi. Evidentemente, a partire dall’input fornito dal prodigio di Garino, si seppero giocare buone carte. Come non lo sappiamo, poiché proprio gli atti notarili relativi all’episodio sono andati a fuoco, ma qualche spinta ci fu. Ancora una Relazione sullo stato delle chiese del 1868 cita la presenza di reliquie, e questo era fondamentale per il prestigio di un santuario. Il riferimento alla Casa Lauretana ha la sua notevole importanza. Il bacino di utenza era molto ampio. Tutti elementi che contribuirono a determinare l’enorme seguito tra i fedeli. D’altronde queste carte furono giocate su un territorio dove la tradizione devozionale era stata continua ed intensa e ben si prestava al nuovo culto. Il seme non cadde fra le ortiche. La fama crebbe, ma solo fino ad un certo punto. Per nostra fortuna quello di Forno non è diventato un mega-santuario di fama internazionale, con strade e piazzali di parcheggio. La sterrata basta e avanza. La configurazione stessa dello spazio disponibile e la sua dimensione non hanno consentito una ampliamento eccessivo, e il distacco politico dalla Savoia e dai suoi devoti deve aver avuto il suo peso. Così il sacro edificio ha conservato il suo aspetto raccolto. Quanto all’abbandono ambientale di oggi, esso rientra in un fenomeno storico troppo globale per fermarlo. Il mistero delle Vergini Nere - prima parte |