Leggende e Tradizioni

Gli Ayoreo, tra antiche tradizioni e riti primitivi

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01 Febbraio 2015

Anziano Ayoreo


Gli Ayoreo sono una popolazione di cacciatori e raccoglitori, che una cultura di semi-nomadismo porta a spostarsi in un’estesa zona del Gran Chaco boreale. Il loro habitat comprendeva il territorio tra il Rio Grande e il Rio Paraguay e, da nord a sud, si estendeva dalla zona a est di Santa Cruz de la Sierra in Bolivia (la Gran Chiquitanía) fino alle colonie del Chaco Paraguayo. Prima del contatto con i bianchi, si spostavano in un’area che va dal 16° al 21° parallelo sud e dal 57° al 63° meridiano. Occupavano quindi un’area delimitata sia da confini naturali sia dalle tribù indigene circostanti, che non permettevano una facile penetrazione nei rispettivi territori. Con queste vivevano in costante stato di belligeranza, e i giochi, fin da bambini, erano volti ad allenarli in previsione di un attacco.

Il territorio Ayoreo è distribuito tra vari gruppi, in continuo spostamento e con denominazioni quanto mai aleatorie. Gli spostamenti possono dipendere dalla conformazione geografica del luogo, dalla presenza di tribù vicine o da fatti occasionali di particolare rilevanza. «‘Gosode’ vuol dire ‘la Gente di’, ‘il Popolo di’ – mi dice Ejéi, un caro informatore che mi ha adottata nella sua famiglia -, davanti a questa parola ne mettiamo un’altra per indicare il luogo speciale dove viveva un gruppo. Quello su cui comandava mio padre, Ejeiné, si chiamava ‘Uechamitó Gosode’, che significa ‘Coloro che vivono dall’altro lato’, perché gli ‘Uechamitó Gosode’ vivevano dall’altro lato della laguna. I nostri nemici del sud hanno il nome di ‘Guidái Gosode’ ‛Il Popolo della dimora antica’».

Nel loro habitat originario, protetto dal bosco spinoso impenetrabile del Chaco [detto ‘zarzal’ in castigliano], dove per nove mesi l’anno non cade la pioggia, sono riusciti per molti secoli a restare immuni dalla penetrazione di colonizzazione. Gli Ayoreo hanno incominciato ad accostarsi alla ‘civiltà’ occidentale soltanto dal 1947, per iniziativa di alcuni missionari cattolici ed evangelici [i primi dei quali hanno pagato con la vita la loro abnegazione]. Certuni di questi gruppi hanno peraltro conosciuto la cultura ispano-americana soltanto alla fine degli anni Sessanta.


Samané mentre soffia su un paziente

Restano poi alcuni nuclei ayoreo che vagano ancora allo stato nomade nelle aree del Chaco, tra Bolivia e Paraguay, liberi e senza contatti con i ‘civilizzati’ con i ‘Coñone’ [1]. Mantengono quindi ancora la cultura tradizionale; quelli di una certa età hanno vissuto allo stato ‘naturale’ per molti anni, conservando perfino la memoria di non tanto antiche pratiche antropofagiche.

Le difficoltà d’accesso a un’area tuttora poco esplorata hanno facilitato la conservazione, per millenni, di materiale unico, che ora rischia un veloce degrado. In tale contesto è chiara l’importanza di un lavoro di carattere atropo-etnologico e linguistico, sia per facilitare i rapporti interpersonali sia ad evitare che un patrimonio scientifico-culturale, così ricco, vada totalmente perduto.


Segreti che non vanno svelati

Accostarsi alla popolazione Ayoreo presenta tuttora forti difficoltà. Per molto tempo ha vissuto quasi totalmente isolata, in ambienti geografici alquanto ardui, quali il Gran Chaco e il Pantanal. Queste zone sono di difficile accesso e si caratterizzano per un clima particolare, che può variare, in breve, da pochi gradi sotto zero a oltre cinquanta all’ombra. Gli Ayoreo mantengono un forte attaccamento alla propria lingua, di cui vanno molto fieri, mostrando una notevole resistenza ad apprendere quella dei vicini.

Molte notizie rischiano di perdersi (e certamente molte si sono già perse) per mancanza di un’interpretazione corretta del recondito significato di alcune parole. I depositari dei più profondi segreti e rituali sciamanici sono soprattutto gli anziani, i quali, purtroppo, non conoscono le lingue a noi note e continuano a comunicare esclusivamente in Ayoreo. Lo studio della lingua è quindi un fatto imprescindibile per una migliore comprensione dei rituali sciamanici. Ovviamente l’impresa non è certo facile, poiché gli Ayoreo sono estremamente guardinghi, quando si tratta di parlare delle loro credenze. Solo alcuni, gli iniziati, conoscono i segreti sciamanici, e vi sono forti proibizioni e severi castighi per chi svela i segreti ai non iniziati.


Un giovane Ayoreo

S’incrociano qui due paure contrastanti: da un lato temono che il rivelare la propria ritualità profonda possa innescare gravi conseguenze; dall’altro, il timore reverenziale verso le nuove religioni, i cui dettami impongono di dimenticare tutto ciò che concerne la loro antica sapienza e religiosità. Queste due forze convergono in un unico risultato: far completamente dimenticare l’antico glorioso passato. Nella maggior parte dei casi l’informatore è disposto a parlare solo se gli è garantito l’anonimato, che lo metta al riparo da possibili rimostranze. Solo dopo molti anni e dopo essere stata adottata ed inserita in uno dei clan Ayoreo, ho potuto essere considerata a tal punto parte della loro realtà, da essere introdotta al loro mondo mitologico, misterioso e sorprendente. A quel punto molte storie che, all’inizio erano state raccontate in forma frammentaria, tanto che non se ne poteva captare il senso, sono apparse d’improvviso chiare. L’intera leggenda era evidentemente ben presente nella mente dell’informatore fin dall’inizio, ma questi non voleva rivelarne il profondo significato. «Il ‘puyac’ [la cosa proibita] non si può raccontare!»: così minacciavano i grandi sciamani, i ‘daijnane’.

Al momento dei nostri primi contatti con gli Ayoreo non era neppure chiaro se si trattava di ‘adode’ [racconti] o ‘sarode’ [formule con una specifica finalità magica]. Questi si pronunciano solo in casi speciali, ad orari prestabiliti e, se non si raccontano nella forma corretta, possono sortire l’effetto contrario. Tante volte, perciò, le nostre domande s’infrangevano contro un’inspiegabile cortina di silenzio e di paura. Riunendo, però, i racconti apparentemente senza importanza, a poco a poco appaiono i grandi cicli della creazione del mondo e dell’epoca in cui tutti – animali, piante, astri ed esseri inanimati – erano Persone. Queste si opponevano alla grande divinità, Dupade, che voleva manipolarli e trasformarli secondo i propri desideri. Si opposero, facendo appello alla propria individualità, ognuno con le proprie caratteristiche e le proprie profonde conoscenze, lasciando agli altri, come beneficio, una vasta serie di raccomandazioni e precetti, oltre alle formule magiche curative.

Nelle storie mitologiche delle Persone che trovano la forza di trasformarsi in esseri della natura, sono racchiuse le antiche e vere conoscenze. Se si perderanno queste, tutta l’antica storia e identità Ayoreo andranno perdute.


Le origini del Mondo

La concezione delle origini del Mondo, secondo gli Ayoreo, si discosta totalmente dalle nostre teorie dell’evoluzione, anzi possiamo definirla un’evoluzione al contrario. «Al principio tutti erano uomini e non vi erano altro che Persone».


La foresta degli Ayoreo

Tutte le piante o animali hanno avuto origine da un Ayoreo (il vero Uomo), che, per volere o per carattere, mostrava una precisa inclinazione verso di loro. In quest’ordine di ‛trasformazione’ troviamo anche il Cielo, la Terra, gli Astri e i sentimenti umani, come ‘Pajé Sereningã́i’, l’Amore, ‘Pijninaquéi’, l’Allegria, e ‘Sumajningái’, la Rabbia o Coraggio. Persino gli Strumenti utilizzati dagli Ayoreo sono personificati ed hanno un’individualità ed autonomia d’azione, con tutti i ‘puyade’ [tabù] che ne conseguono; erano tutti Persone, offertesi volontariamente per tale impegnativo compito.

«All’origine del mondo non vi erano né piante né animali, solo gli Ayoreo vi erano sulla terra, poi le persone si dissolsero in piante e animali». Su questa legge della creazione si basano i miti del principio ed origine delle cose. Il primo a subire questa trasformazione è stato Caratái, il Giaguaro, per il suo grande e feroce desiderio di carne. «Caratái era persona, grande e forte, però si convertì in animale per voler mangiare carne cruda. A quell'epoca non vi erano le cose cotte, perché ancora non vi era il fuoco tra gli uomini, Giaguaro si mise a mangiare solo carne cruda, così si trasformò in animale, Caratái stesso aveva deciso questo».

«Alle origini alcuni si abituavano a mangiare cibo crudo e altri no, vomitavano. Quelli che si adattarono, si trasformarono in animali, gli altri furono gli uomini. Nessuno aveva il fuoco, loro non avevano nulla di fuoco e cercavano il sistema di crearlo. La donna, Diquitadé, lo scoprì, con suo marito Diquitadí [2]. La donna disse a suo marito: “Perché non trovi il sistema per far fuoco ?”. “Va bene, così potremo mangiare cibi cotti”. Lui andava a caccia, andava làaa, lontano, però non aveva il fuoco; lui trovò un albero speciale, strofinò la diquitadé dentro la diquitadí e uscì brace; riuscirono ad accendere il fuoco e insegnarono alla gente come si fa».


Lo sciamanesimo

Alla base dello sciamanesimo troviamo un essere particolare, Pujopié, con caratteristiche di giaguaro o di persona. Il Tabacco ha origine da lui, anzi Pujopié, è la Jopié, la forza sciamanica per eccellenza, l’essenza stessa del Tabacco. Pujopié vive probabilmente dentro al Tabacco, perché il daijnái, lo sciamano, per ricevere Pujopié, deve prima bere il succo spremuto o fumare il tabacco. «La gente ha molta paura di questo Pujopié; la pelle di Pujopié è simile a quella di Caratái, Giaguaro, tutta maculata, aveva la sua forma, però non è un giaguaro».

Le persone più coraggiose, quando appare questo essere particolare, lo inseguono e colpiscono: «Il sangue scorreva su coloro che lo colpivano e lo ricevevano sopra il loro corpo. Dicono che questo sangue, quando cadeva, aveva potere, per essere ‘daijnái’ e ‘daijné’, la sciamana, per questo vi sono anche sciamani donne. L’intenzione degli Ayoreo era, inizialmente, di uccidere Pujopié, perché era un essere molto speciale. Invece l’intenzione di Pujopié era di impossessarsi della mente della gente, così le persone possono profetizzare il falso, l’unico veritiero è Chungúperejna [il Condor delle Pianure o Aquila Reale]».



Il territorio Ayoreo

L’iniziazione sciamanica

Tra gli Ayoreo non troviamo una vera e propria iniziazione sciamanica da parte di un altro daijnái. Neppure un momento di preparazione nella selva, lontano da tutti, come abbiamo potuto raccogliere presso i Toba del Paraguay. Il giovane Ayoreo, semplicemente, sente d’essere pronto al grande momento e accetta di sottoporsi alla prova. Può venir assistito da un daijnái, che limiterà il proprio intervento a poche raccomandazioni. «Bene, gli Ayoreo, quando erano nella foresta, raccoglievano tabacco silvestre, lo spremevano, proprio il succo di tabacco; se io volevo diventare stregone, lo bevevo, bevevo il succo del tabacco. Se il suo corpo sopportava questo liquido, se non lo vomitava, l'apprendista mangiava questo intruglio di tabacco, questo è più forte. Così questo gli fa effetto; quando inizia, dicono che gli viene molto calore e usciva acqua dal corpo».

«Io ho visto a Tobité il daijnái Asidé; domandò: “Chi di voi potrebbe essere capace di ricevere Pujopié, per essere daijnái?”. Loro avevano trent’anni. Alla mattina Asidé iniziò, per prima cosa, a pestare le foglie del tabacco, con il parangué [pestello], nel pugutabí [mortaio di legno rettangolare], doveva spremerle per ottenere puro succo. Riempì con il succo due bajodie [recipienti tondeggianti di legno o zucca]. Arrivarono i due giovani, nel luogo in cui devono bere, era sotto un tetto di foglie. Dicono che non deve mangiare nulla, quando uno vuol prendere succo di tabacco».

In alcuni casi l’iniziato non riesce a trattenere il liquido ingerito e vomita. «Loro bevono e restano come morti; io ho visto uno, coricato al suolo, e disse che apparvero animali che parlavano come persone, lui deve fare quello che gli dicono gli animali, perché se no perde il suo spirito. Dicono che uno prende un bagno, va a bagnarsi e resta pulito, e non mangia altro, e mangia tabacco verde. Dopo uno resta come morto, anche per diversi giorni. Bisogna stare attenti e tenere lontano da lui il fuoco, perché è molto potente e gli può togliere tutta la sua forza. Quando si sveglia, già ha forza, già ha il suo Puopíe, Puopíe è il suo potere. Ho visto, sono arrivate tante persone che mi han detto: “Devi fare questo, questo, e sarai daijnái”. Quelli sono gli spiriti che hanno parlato. Loro dicevano: “Ubbidisci, devi fare questo, questo, questo” Superate le difficoltà dell’iniziazione, al daijnái è sufficiente fumare per ricevere Puopíe».

Lo stregone cura aspirando la malattia come cosa viva e malvagia. «Lui curava molto curioso la malattia, lui diceva che era cosa putrida, la malattia. Lui succhiava, dove sentiva la malattia, lui succhiava, con la bocca, toglieva. Hanno paura di Puopíe, perché lui uccide qualunque uomo o donna. Così, un tempo, gli Ayoreo, quando uno diventava stregone, lo consideravano molto pericoloso, così uccidevano lui». Il suo corpo doveva poi essere bruciato, per neutralizzare la sua forza malefica.


Aurora su Pantanal

In questo c’è una forte contraddizione: il guaritore serve per aiutare a vivere più a lungo, però al tempo stesso è pericoloso; così il suo potere può uccidere le persone, e di conseguenza egli può essere eliminato prima che arrechi danno. Troviamo analoga contraddizione nell’uso dei miti: i loro racconti, adode, o le formule, sarode, possono essere utilizzati per scopi buoni, ma molte volte servono anche per ottenere l’effetto contrario.

Tra gli Ayoreo la stregoneria occupa un posto importante e permea tutte le loro azioni. Ogni fenomeno naturale riceve una connotazione magica e, solo con un intervento ‛sovrumano’, può essere contrastato. Lo sciamano è, quindi, un uomo potente, che, con il suo forte ascendente sul gruppo, si accosta e talvolta si contrappone al capo tribù, il dakasuté. Talvolta il ruolo di comandante e di stregone si concentrano nello stesso dakasuté, ma deve trattarsi di un grande capo.


I Sarode

Che cosa sono i sarode? «Era l’epoca della gente antica, quando si formavano gli alberi, loro parlavano, ognuno indicava come deve essere la cura, i sarode sono le indicazioni; dicevano: “Tu devi fare così e così”. I sarode erano i segreti di ogni essere della natura. Il serpente parlava e riusciva a curare; però molto proibito raccontare, così nessuno mi raccontò. Perché “mooolto proibito”, disse papà; se qualcuno raccontava, lo mordeva subito un serpente. Gli Ayoreo della selva usavano sarode, che sono formule magiche segrete, solo pochi le conoscono, solo coloro che hanno poteri speciali. Quando, per esempio, una sta male e uno sciamano conosce i sarode, li applica a lei, così lei sana, si trasmette questo potere soffiando».

L’enunciare la formula scatena la forza dell’Antenato mitico, ma, se non la si pronuncia correttamente, si può ottenere l’effetto contrario. Per questo, tra gli Ayoreo, sono molto apprezzate le persone disposte a curare con i sarode. Questi sono chiamati ‛sarode irajasode’, ossia ‛coloro che hanno la capacità di pronunciare le formule’.

Il sarí, ritmicamente pronunciato come una cantilena, ha una struttura di base, composta di più parti. All’inizio vi sono due frasi: nella prima l’Antenato si presenta (‘io sono…’), nella seconda esalta il proprio grande potere. Poi si fa riferimento all’azione centrale della storia, adói, con il momento d’intervento curativo; da ultimo sopravviene la calma, l’essere si tranquillizza, la malattia scompare, la ferita risana. Terminata la formula, il sarode irajatái soffia verso l’alto, quasi a volersi liberare di un male incombente o per mandare lontano quest'afflato magico-malefico.


Capanna Ayoreo

La cura avviene mettendo la bocca sul corpo del paziente, nel punto malato. Il modo di agire è lo stesso del daijnái, il più potente sciamano. Il daijnái, però, compie le sue azioni in un grande silenzio; in questo caso, invece, il culmine della cura consiste in una serie di formule pronunciate dal sarode irajatái. «Il sarode irajatái ha un’altra forma di raccontare, tutta particolare, mette la bocca, come il daijnái, sulla parte colpita [mi fa vedere], lui soffia, mentre il daijnái succhia. Per prima cosa, con la saliva, la sputa, la spalma su tutto il corpo e, di lì, inizia a parlare [in forma di cantilena]: “Iooo sono il Torobochi! Iooo sono il Torobochi! Iooo sono il Torobochi! Nessuno mi può ferire, nessuno mi può ferire, nessuno mi può ferire! Mi colpirono con l’ascia al collo, mi feriscono, mi feriscono, mi feriscono, pak, pak, pak, risuona il legno, mi colpiscono, mi colpiscono, mi colpiscono, si taglia la corteccia, si apre la polpa ! Iooo sono il Torobochi! Iooo sono il Torobochi! Iooo sono il Torobochi! Io regalo questa formula, questa formula, questa formula, io regalo. Già si secca [la ferita], si secca, si secca; cicrí, cicrí, cicrí, suona la ferita, suona, suona; già si chiude, si chiude, si chiude; è rimarginata, rimarginata, rimarginata; il paziente si calma, si calma, si calma”. Il soffio viene raccolto nel pugno chiuso e mandato verso l’alto, tendendo il braccio».


Asojná e la sua festa

I primi sarode furono lasciati da Asojná. Sono molto forti e pericolosi: «Quando la gente le chiese, ad Asojná, se poteva lascia un sarí, ella lasciò questi, sono sarode molto forti, perché sono i primi [Asojná è considerata la prima sciamana, la sciamana per eccellenza], molto puyade, essi sono i più forti che esistano”.

Asojná, divinità potente e vendicativa, è considerata dagli Ayoreo la padrona del miele selvatico e, al pari di questo, il suo carattere ha molte sfaccettature. Il miele della selva, infatti, può essere: dolcissimo, amaro, piccante o, addirittura, velenoso; gli indigeni devono stare molto attenti a raccoglierlo.


Primo bambino ayoreo tra due bianchi

Gli Ayoreo ne hanno un gran timore; però, stranamente, non sono quasi mai restii a parlare di lei, dei suoi attributi e della grande festa che si fa in suo nome. Eppure ciò rientra nei segreti che bisogna conservare. «Se ne racconti la storia, impazzisci; se la ascolti, diventi sordo». Più che il timore, prevale il piacere di ricordare una tradizione alla quale sono molto affezionati, probabilmente per la devozione che li lega ad Asojná, divinità cui sono legati più strettamente che al Dio cristiano.

Oppure si tratta della semplice gioia nel ricordare una festa alla quale hanno sempre assistito da bambini, anche se come semplici spettatori, con l’aspettativa di poter partecipare attivamente. La nuova religione, introdotta nelle Missioni, ha abolito la festa; una vera tristezza persiste nei racconti, come qualcosa di cui sono stati defraudati. È possibile che gli Ayoreo percepissero Asojná come un essere potente, ma molto più vicino alla loro mentalità che non Dupade, il grande Dio, così trascendente ed esigente.

Asojná detta una grande quantità di regole, che si accentuano al momento della festa a lei dedicata. Poi arrivano le piogge, la natura si risveglia e d’improvviso termina, per gli Ayoreo, il momento difficile. Vi è abbondanza di cibo e d’acqua; da questo momento anche le dure regole di Asojná cessano di esistere. È come una grande liberazione per il popolo Ayoreo, che torna a vivere un’esistenza felice, d’abbondanza, senza i grandi timori dei mesi precedenti, dell’epoca nella quale Asojná poteva portare persino alla pazzia, se si contravveniva ai suoi ordini.

Se non entriamo nella mentalità degli Ayoreo e non riusciamo a percepire le grandi difficoltà che comporta il vivere in un ambiente tanto inospitale per molti mesi all’anno, non riusciamo a capire le ‛strane’ regole di Asojná. Gli Ayoreo vedono Asojná come un essere vendicativo, però anche buono e generoso, che ricompensa quelli che seguono i suoi ordini.

La festa di Asojná si divide in due parti, nettamente distinte, a simbolizzare i due grandi periodi dell’anno nel Gran Chaco. Durante la prima vi sono regole durissime: è totalmente proibito bere, mangiare, piangere, imprecare, litigare o fare all’amore, l’astinenza è assoluta. Nella seconda parte, della Festa vera e propria, dopo una simulazione di pioggia, gli uomini ricevono il permesso di nutrirsi con abbondanza di cibo e di bere un delizioso liquido, fatto di acqua e miele.


Gabriella Enrica Pia, antropologa, ha vissuto per anni a stretto contatto con il popolo degli Ayoreo


[1] ‛Coñói’, ‛Coñóne’, è il termine Ayoreo [solitamente tradotto in spagnolo con ‛Gente blanca’, ‛il Bianco’] per designare ogni individuo, anche indigeno, non appartenente alla loro etnia. Ha significano negativo e dispregiativo [‛Colui che dice cose insensate’].

[2] Diquitadé e Diquitadí sono le due parti dello strumento con cui gli Ayoreo accendono il fuoco, sono di legno, la prima è un bastone, sottile e diritto, che è fatto ruotare, velocemente, tra le mani, il secondo è la tavoletta con i fori dove si inserisce il bastone. La frizione, dei due elementi, crea la brace per il fuoco.

 

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