Esoterismo |
L’alchimia nell’arte: dal mito di Fetonte al Dadaismo |
11 Ottobre 2021 | ||||||||||||||||||||||||||||||
La storia millenaria del linguaggio ermetico dell’interiore
L’Alchimia nell’immaginario collettivo viene accostata a quella pratica metallurgica in vigore nel periodo medievale che si compiva in quegli ambienti oscuri, fumosi, fuligginosi, ma allo stesso tempo affascinanti, che erano i laboratori alchemici. In questi ambienti segreti l’athanor, il misterioso forno alchemico, alimentato anche dalla fede e dalla ragione dell’operatore, era il veicolo con il quale gli alchimisti sperimentavano la trasmutazione del vile piombo nel nobile oro, la Pietra Filosofale con cui ottenere l’Elisir dell’immortalità. Vedremo che questa visione rappresenta solo un aspetto superficiale. L’operatività alchemica aveva in realtà una doppia faccia, un duplice fine: una essoterica, manifesta, che consisteva nella pratica metallurgica in quanto tale, una chimica ante litteram potremmo dire, ed una esoterica che usava la simbologia della trasformazione dei metalli per perseguire un’altra trasformazione, di natura simbolica, quella della propria sfera interiore. Le sue origini sono molto lontane, si perdono nella notte dei tempi, al confine con la sfera del mito. La ritroviamo nella cultura egizia, diffusa come una vera e propria scienza riservata però ai soli sacerdoti iniziati alla sua arte.
È a questo periodo storico che infatti si fa risalire la sua nascita “ufficiale” ad opera del misterioso personaggio Ermete Trismegisto, da molti ritenuto lo stesso dio Thot, artefice della famosa Tavola Smeraldina, il primo compendio ermetico che la leggenda vuole sia stato inciso su una tavoletta di smeraldo con una punta di diamante e il cui testo comparve per la prima volta nella sua versione integrale in un’iscrizione araba del IX secolo. Seguendo la traccia dell’origine, diciamo divina, dell’alchimia, attribuita nella leggenda appunto al dio egizio Toth, troviamo ulteriori elementi che ci proiettano in un’era ancora precedente che sconfina nel mito. Secondo la tradizione dell’antico druidismo europeo in un’epoca ancestrale, quando l’umanità non aveva ancora le sembianze attuali, il nostro pianeta fu teatro di un evento straordinario, la discesa di entità provenienti dallo spazio nella zona dell’attuale Val di Susa, in Piemonte, che apportarono agli esseri che popolavano la Terra di allora un bagaglio immenso di conoscenze, un patrimonio che segnò profondamente l’evoluzione futura dell’umanità. Stiamo parlando di un mito che fu ripreso dalla cultura greca che lo rese noto come “la caduta del carro di Fetonte”, un mito che nella sua essenza è comune ancora oggi a moltissime tradizioni dei popoli nativi di tutto il pianeta. Tra i tanti saperi dispensati da questi “dei” c’era anche la scienza dell’interiore, un corpus di conoscenze strutturate in forma di dottrina che indicavano il processo evolutivo insito nell’universo, che l’individuo poteva osservare e riprodurre su attraverso la propria trasformazione. Un percorso che poteva portare l’uomo a crescere spiritualmente isolando il proprio vero sé interiore, la consapevolezza, la coscienza, la senzienza, il proprio spirito, a seconda di come si voglia chiamare la natura trascendente dell’uomo, dalle nebbie illusorie del mondo materiale e sensoriale. Per illustrare questo processo Fetonte usava la metafora del fuoco, l’elemento in grado di fondere in una pietra aurea le scorie superficiali, mettendo in luce la brillantezza residua della sua essenza dorata.
Se riflettiamo un istante sul significato di questa metafora, ci accorgiamo immediatamente che è essa è diventata di fatto il principio operativo e l’insegnamento filosofico e metafisico alla base della ricerca alchemica, che da allora fino ai giorni nostri fu trasmesso in modo segreto e riservato. Ma perché si chiama alchimia? Il termine fu coniato dalla cultura araba; infatti la parola proviene da al-kimi che significa chimica, che somiglia però anche all’arabo chema che significa segreto, portandoci così a tradurre il termine con chimica segreta, ad indicare sia un’operatività esteriore, che doveva però rimanere occulta perché invisa al potere temporale e religioso che la additò sempre come una scienza dannata e una pratica diabolica e stregonesca, atteggiamento che in realtà subì un radicale cambiamento nel periodo rinascimentale, sia un processo interiore che usava le proprietà trasmutative dei metalli come metafora di trasformazione individuale, anche questo da eseguire con grande segretezza e discrezione per preservare i suoi principi di libertà e conoscenza che, ovviamente, andavano in contrasto con i valori disarmonici ed oppressivi del potere. Quindi l’alchimia è stata sempre vista come una dottrina ermetica, perché in entrambi le sue manifestazioni aveva sempre un carattere iniziatico, riservato cioè a chi era attratto da essa e si mostrava puro nei suoi confronti e in grado di manipolarla e utilizzarla per le sue potenzialità intrinseche. Quel che i nostri antenati appresero dagli insegnamenti di Fetonte fu che la trasformazione interiore si sovrappone al processo evolutivo presente in Natura, quella dinamica basata sull’interazione degli opposti che ha messo in moto sin dal momento iniziale della vita del nostro universo la trasformazione della materia grezza in una dimensione astratta e consapevole. Un processo inarrestabile ed eterno di cui anche noi inevitabilmente siamo partecipi, consapevoli o meno. Pertanto il cuore del pensiero alchemico non è altro che una metafora dell’espressione degli archetipi evolutivi presenti nel linguaggio della Natura.
Osservando e riproducendo il percorso a tappe evolutive che essa ci offre, si ripercorre con il potere evocativo dei simboli “ermetici” le fasi del compimento della Grande Opera, altro nome con cui si indica spesso la realizzazione spirituale alchemica. L’opera alchemica essoterica, oltre a occultare la vera Opera, ha avuto l’indubbio merito di aver creato le basi della chimica moderna, checché ne dicano gli scienziati accademici, soprattutto nel periodo rinascimentale, come già detto, grazie soprattutto agli studi del medico svizzero Philippus Aureolus Bombast von Hohenheim, più noto come Paracelso (1493-1541), da tutti considerato il fondatore dell’alchimia moderna. Grazie al suo contributo da questo momento storico l’alchimia viene alla luce e rispetto alla dimensione occulta che la contraddistingueva assumerà ben presto la veste di una vera e propria scienza che appassionerà sempre più i salotti per bene della nobiltà e dei potenti sovrani. La sua influenza finì per conquistare, un secolo dopo, anche una mente scientifica e razionale come quella di Isaac Newton nel cui archivio personale di documenti matematici e filosofici fu rinvenuta la traduzione della leggendaria Tavola Smeraldina della quale esaltò la saggezza e la conoscenza in essa contenute. Tantissimi sono i personaggi della nobiltà, del potere politico e di lignaggio reale del periodo rinascimentale che si occuparono apertamente della scienza alchemica, in particolare, ad esempio, la potente famiglia dei Medici di Firenze. Ad essa è infatti legata la costituzione della Fonderia medicea, nata durante il Cinquecento per volere di Cosimo I a Palazzo Vecchio di Firenze. Venne poi trasferita dal figlio Francesco I al Casino di San Marco divenendo un luogo in cui pittori, artisti, artigiani, erboristi ed alchimisti si ritrovavano e potevano sperimentare nuove ricette per produrre farmaci, così come esercitarsi nella produzione di porcellana, oppure ancora cercare nuovi metodi per la lavorazione del vetro e per plasmare i metalli e la materia. Pensiamo poi alla regina Cristina di Svezia che nel secolo successivo, diede vita durante il suo lungo soggiorno romano, alla sua famosa “Distilleria Alchemica”, apprezzata così tanto che intorno ai suoi laboratori transitava mezza Europa: tra i personaggi illustri che la frequentarono il gesuita Athanasius Kircher, che fu ispiratore nell’ombra delle meravigliose opere scultoree di Gian Lorenzo Bernini, fino all’illustre astronomo Cassini.
Il ruolo di Cristina di Svezia fu molto importante nell’entourage del Marchese di Palombara, appassionato alchimista, che a Roma intorno al 1650 nella sua Villa sul colle Esquilino realizzò un vero e proprio laboratorio alchemico in cui, secondo fonti del folklore locale, riuscì a produrre la Pietra Filosofale e la cui formula venne fissata mediante iscrizioni simboliche sullo stipite della porta del suo antro, che da quel momento divenne la leggendaria Porta magica di Roma. Se il periodo rinascimentale e poi il barocco sicuramente hanno rappresentato il culmine dello sviluppo dell’interesse per l’alchimia, non va dimenticato che anche la storia e l’arte del Medioevo sono costellate di preziosissime testimonianze riconducibili alla scienza alchemica. Prima fra tutte l’opera di Dante Alighieri, il poeta per eccellenza, che nei versi della sua Divina Commedia ha occultato tutto il corpus della filosofia ermetica, a conferma dei suoi interessi esoterici e dei suoi più che consolidati contatti con i Cavalieri del Tempio, i famosi Templari, che è risaputo nutrissero, sotto le spoglie essoteriche dell’ordine monastico-cavaliere secolare, un grande interesse per l’alchimia e le scienze esoteriche, influenzando e ispirando quindi l’opera dantesca. Dante stesso, del resto, ci conduce per mano verso questa interpretazione; infatti nei suoi versi ci invita più volte a cercarne il significato nascosto: "o voi che avete gli intelletti sani/mirate la dottrina che s'asconde/dietro il velame delli versi strani."(Inf. IX, 61-63). E non a caso la questione della drammatica fine templare è ampiamente affrontata dal grande poeta che descrive la triste vicenda del Tempio come qualcosa di sinistro, accusando senza veli i responsabili della distruzione dell’Ordine, bollati con parole più dure di quelle riservate ad altri malvagi. Ma non è solo questa particolare interpretazione ermetica a fare della Divina Commedia un testo d’alchimia medioevale, cioè un testo che tratta della trasformazione della materia e della realizzazione dell'Opera. Sotto l’aspetto manifesto l'alchimia è l'opera di trasmutazione dei metalli per mezzo del fuoco con lo scopo di ottenere l'oro dei filosofi: un principio operativo che, è importante ricordarlo, ricalca molto da vicino quello incontrato all’inizio di questo testo a proposito della conoscenza elargita all’alba dei tempi dal mitico Fetonte agli uomini che incontrò sul pianeta dopo esservi giunto dallo spazio. Il metallo di partenza è il piombo, pesante, oscuro, simbolo della condizione della materia, anche quella umana, e ancorata verso il centro della Terra dalla gravità terrestre.
Attraverso una serie di passaggi si giunge all'ottenimento dell'oro filosofale, alla materia trasmutata, sublimata, perfetta, piena di luce che consentirà, detto in termini alchemici, la conoscenza aurea. Una sintesi estremamente schematica per definire il senso più intimo dell’alchimia attraverso la metafora della trasmutazione dei metalli. In realtà gli alchimisti erano consapevoli di procedere in un cammino spirituale, che aveva l’obiettivo di liberare dalle catene della materia e dalle nebbie della mente la scintilla divina, il vero sé consapevole, che vi era imprigionato. Il processo operativo con cui si procedeva può essere condensato nel famoso motto alchemico “solve et coagula”, dove con la prima operazione si intendeva la disgregazione dei legami della materia e le certezze illusorie della mente, rappresentate entrambe dalla natura pesante e oscura del piombo, la fase di putrefazione dell’opera al Nero chiamata per questo Nigredo. La seconda esortazione operativa serviva per scioglierli, scomporli, nei suoi componenti primari (i quattro elementi). Nella seconda fase, detta Albedo o “opera al Bianco", attraverso ripetute distillazioni e coagulazioni si attivava un processo di purificazione in cui veniva isolato il lapis philosophorum dal quale ottenere l'oro. Il risultato aureo ottenuto andava inteso metaforicamente come l’ottenimento dell’oro spirituale, il ricongiungimento con l’Assoluto primordiale, la conclusione della Grande Opera, la Rubedo o opera al Rosso. In altre parole, l’alchimista dopo aver disciolto l’illusorietà dei dati ricavati dalla materia e dalle tante personalità dei numerosi “Io” che convivono in lui e confliggono fra loro, fattori che limitano il libero arbitrio per gettarlo in balia di bisogni indotti, si compie un atto di ricomposizione della propria individualità servendosi dei dati effettivamente necessari alla propria esperienza consapevole, dati raccolti alla luce della nuova conoscenza raggiunta: si giunge cioè alla “spiritualizzazione della materia”.
Questo processo di trasformazione, ottenuto manovrando sapientemente gli opposti della dualità con cui la realtà si manifesta, lo porta a realizzare in sé un processo di sintesi, lo stesso principio unitario da cui la vita ha avuto origine, insieme alla percezione di esserne parte integrante e interconnessa. In questa fase, non esiste più la separazione tra sé stesso e l’altro, poiché è consapevole che la stessa fonte di vita dentro di lui è in tutto il creato. Questo è il cuore dell’alchimia, il lato esoterico, l’aspetto interiore in cui l’alchimista opera su sé stesso; nell’alchimia essoterica invece l’alchimista prende l’insegnamento alla lettera, infatti vuole trasformare la materia che sta al di fuori di sé con pratiche mirate a trasformare il piombo in oro. L’alchimista essoterico di fatto è anche un chimico a tutti gli effetti, che miscela essenze e modifica la materia attraverso la combinazione dei quattro elementi terrestri. Molti sono ancor oggi i termini usati in chimica che derivano dagli antichi alchimisti, come ad esempio alambicco, alcool, elisir ecc., ma è sicuramente riduttivo considerare l’alchimia una semplice protochimica; abbiamo visto infatti che la pratica essoterica è da sempre stata un modo molto efficace per celare il suo vero significato di rinascita spirituale, un concetto che per i suoi impliciti principi di libertà e conoscenza, è stato di sicuro inviso al potere di ogni tempo. Chiarito per brevi linee il significato esoterico della via alchemica, torniamo a Dante per individuare l’effettiva presenza nel suo poema di elementi riferibili allo stesso processo trasmutativo. Egli parte da una selva oscura e si porta verso il centro della terra occupato da Lucifero, seguendo di fatto le indicazioni esoteriche contenute nel termine V.I.T.R.I.O.L., l’acrostico composto dalle lettere iniziali delle sette parole del motto alchemico latino “Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem” (Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta), dopo essere disceso nei sette gironi dell'Inferno. Poi parte da una piaggia del monte Purgatorio, in basso, e giunge in cima al monte dopo aver superato sette balze. Volerà quindi per i sette cieli, giungendo oltre le stelle fino alla rosa mistica, simbolo dell’Illuminazione spirituale. È evidente come Dante abbia voluto strutturare simbolicamente la Divina Commedia in relazione alla trasmutazione dei metalli, riproponendo il percorso alchemico. L'Inferno rappresenta il forno alchemico, l'atanor: la storta, il contenitore a forma ovoidale ad esso collegato, in cui avvengono le vaporizzazioni e le distillazioni di liquidi, che ha sulla sommità un prolungamento obliquo detto "collo", è identificabile con la "natural burella" la galleria sotterranea attraverso la quale Dante e Virgilio giungono alla piaggia del Purgatorio.
L’elemento fuoco, il principale artefice della fucina alchemica, assume nel poema dantesco i tre diversi significati corrispondenti alle tre fasi della Grande Opera: nell'Inferno è energia che brucia, che incenerisce, che bolle, che fonde, nel Purgatorio è fuoco che purifica, nel Paradiso è luce che trascende la forma e i sensi. Il linguaggio alchemico che ha attraversato millenni di pratica occulta con la poesia di Dante assume una struttura narrativa molto ben definita e in un certo senso da questo momento inizia ad emergere da quella condizione di pratica segreta che la caratterizzava, iniziando ad influenzare notevolmente in modo palese le forme di espressione artistica correnti, in particolar modo il mondo della pittura. L’apice di questo nuovo processo di affermazione dell’alchimia lo troviamo, a distanza di quasi due secoli, nella produzione artistica del grande pittore e incisore tedesco Albrecht Dürer. Le sue opere, in particolare il suo capolavoro “Melencolia I” del 1514, un 'incisione al bulino la cui tecnica vedremo ha di per sé già una chiara valenza ermetica, diedero un fortissimo impulso alla scienza alchemica, che da questo momento in poi fiorì notevolmente, uscendo definitivamente dalla dimensione occulta in cui era relegata fino a quel momento e suscitando l’interesse di personaggi di spicco della classe borghese e della nobiltà. Il pensiero ermetico di Dürer trovò una sponda molto robusta, per quei tempi, nel processo di rivalutazione del linguaggio alchemico che, poco prima di lui, fu intrapreso da Martin Lutero, l’autore della Controriforma della Chiesa, soprattutto in chiave di speculazione religiosa. Il teologo iniziatore del Protestantesimo si profuse infatti con enfasi in lodi per la metafora di riscatto della materia operato dall’alchimista, chiamato non a caso l’artefice, quando si raccoglie in meditazione davanti ai suoi "fornelli”. Secondo Lutero «la buona arte dell'alchimia» riesumava «veramente la filosofia degli antichi saggi» e a parte «la grande utilità nella lavorazione dei metalli» era da prediligere «per i suoi significati allegorici e nascosti che sono bellissimi, significando la resurrezione dei morti nel giorno del Giudizio». Da queste affermazioni si deduce che Lutero aveva ben chiaro il significato simbolico dell'alchimia, ovvero la sua natura di operazione compiuta nella dimensione materiale e allo stesso tempo spirituale. Tornando all’alchimia nell’arte bisogna premettere che il fiorire di questa scienza dell’interiore nel Rinascimento non è casuale ma trova una spiegazione nel fatto che l’idea di arte in quel periodo era concepita come "imitazione della natura", imitazione delle apparenze esterne.
L’artista in questo senso diventava l’artefice creativo e tale definizione si sposa bene con l’operatività dell’alchimista che in effetti, come è stato chiarito all’inizio dell’articolo, non fa altro che applicare un procedimento su sé stesso imitando quello creativo esistente in Natura: un processo misterioso assimilabile a quello che ha portato l’energia primordiale del Big Bang a trasformarsi in materia e poi in vita senziente. Tornando a Dürer la sua opera primaria, Melencolia I, rappresenta una figura alata in atteggiamento meditativo; scura nel volto, tiene in mano il compasso ed è circondata da una serie di oggetti e strumenti, con un putto anch'esso alato e un cane, mentre nel cielo, contro un sole nero come fosse in eclisse, elemento questo di grande interesse esoterico, si staglia un pipistrello recante la scritta che dà il titolo dell'opera. Il primo elemento ermetico dell’opera che richiede un’interpretazione è il significato del numero I, ma ancor prima dobbiamo soffermarci a riflettere sulla sua tecnica esecutiva dal momento che fu proprio Dürer ad inventare l’”acquaforte”, una tecnica di incisione al bulino molto interessante e affascinante perché riproduce, di sicuro non casualmente, delle suggestive coincidenze con il processo alchemico: innanzitutto il principio attivo che nell’alchimia aveva il compito di consentire il procedimento di trasformazione della materia, il solvente conosciuto come Mercurio o acqua mercuriale, era chiamato, oltre che con questo termine, con molti altri nomi tra cui quello appunto di “aqua fortis”. Nel procedimento di questa particolare tecnica artistica, sono presenti altre sorprendenti analogie con l’alchimia: una lastra di metallo, la base materica, un acido che la corrode (l'acqua mercuriale che dissolve la "materia prima"), il fuoco che scalda il metallo, le fasi della trasformazione che avviene con il processo di incisione della lastra resa possibile dalla malleabilità del metallo ottenuta con la sua fusione. La fase dell’incisione, fra l’altro, può avere di per sé un significato esoterico, quello cioè di fissare in modo indelebile l’esperienza spirituale che man mano viene alla luce nel processo alchemico interiore. Il risultato di queste operazioni, insieme alle pause di attesa tra un procedimento e l’altro, è il raggiungimento di una “forma”, la raffigurazione finale, l’opera compiuta come trasmutazione della materia grezza di partenza.
Interpretando i numerosi elementi che compongono la raffigurazione di Melencolia, e riferendoci allo stesso numero I, si deduce che Dürer volesse alludere alla prima fase del procedimento alchemico, la Nigredo o Opera al Nero, il primo gradino di una scala che simboleggia il percorso iniziatico per giungere all’illuminazione. L’opera è infatti pregna di tantissimi elementi riconducibili a questo stadio dell’Opera, che meriterebbero di essere esaminati uno ad uno ma che per ragioni di spazio non potremo approfondire interamente, limitandoci a descrivere quelli che più di altri evocano in modo molto palese un significato alchemico. Già il nome stesso dell’opera si presta a molti significati ma è probabile che la spiegazione più convincente sia che "Melencolia'' stia per "melanosi" o Nigredo, che è appunto la prima fase dell'opus: o meglio per "materia al nero", ovvero la materia nello stato di Nigredo. Sullo sfondo dell’opera si staglia un sole nero in eclisse che rappresenta il classico "sol niger" che si riferisce all'inizio del processo. La sua luce è offuscata ma risplenderà al termine dell'opus. Lo stesso identico principio filosofico esoterico che è presente nella tradizione dell’antico sciamanesimo druidico, che ha ereditato e trasmesso fino ai nostri giorni la prima forma della scienza alchemica dell’interiore, quella ricevuta dall’umanità dei tempi ancestrali come narrato nel mito di Fetonte che abbiamo incontrato all’inizio. Secondo questa antichissima filosofia il sole nero sta a simboleggiare lo spirito (il Sole) temporaneamente offuscato dai limiti dei sensi e delle suggestioni della mente, rappresentate dall’eclisse, che però è destinato a tornare a splendere nel momento in cui l’eclisse terminerà la sua fase di occultamento.
Se la Nigredo sembra essere la fase che l’artista ha voluto mettere in evidenza come processo iniziale dell’opera alchemica, non mancano certo una serie di elementi che alludono chiaramente anche alle fasi successive. Mentre la Nigredo corrisponde alla morte, allo stato di "separazione" e solitudine, tutti stati d’animo che vanno intesi nella loro valenza iniziatica, le fasi successive si realizzano attraverso un processo di "unione dei contrari": il maschile e il femminile, il caldo e il freddo, l'acqua e il fuoco sono in alchimia i simboli più comuni degli “opposti”. Nella stampa del Dürer infatti la massa incandescente ma oscurata del sole traccia una scia a mo’ di cometa, come se stesse precipitando verso l'acqua per rendere possibile la sintesi, l'unione dei contrari appunto, e dare così inizio al passaggio alla seconda fase dell'opera. La presenza dell’arcobaleno che cinge, inscrivendolo, il Sole rappresenta l’unione di tutti i colori e quindi l'annuncio del compimento dello sviluppo del processo. Il concetto della sintesi, dell’unitarietà raggiunta con il congiungimento degli opposti si può leggere anche nella presenza del "quadrato magico" collocato come fosse uno sportello sulla parete del forno alchemico, l’atanor, che fa da sfondo alla scena. Come in tutti i quadrati magici, (vedi il Sator) i numeri indicati non sono casuali ma sono disposti secondo una sequenza precisa che si incrocia in entrambe le direzioni per produrre in ogni riga sempre lo stesso prodotto, in questo caso 34. Questa cifra magica è composta dai numeri 3 e 4 che rappresentano la triade e la tetrade archetipali che sottendono alla struttura dell’universo, e quindi anche dell’uomo, e che qui, proprio per la loro natura, sembrano essere gli ingredienti selezionati da infornare nell’atanor per sostenere e alimentare il processo di trasformazione in atto. Anche in questo caso siamo di fronte al simbolismo della magica unità (in questo caso numerica) in cui sono confluiti come per incanto tanti diversi numeri. Sono presenti ulteriori elementi che alludono al proseguimento dell’opera, a partire dalle ali della donna "negra" e "malinconica ", attributi questi che simbolicamente abbiamo visto si riferiscono alla prima fase, che ora appare seduta, quasi pesantemente ancorata sulla "terra", ma che al termine del processo alchemico potrà volare e librarsi nel cielo dell’Illuminazione, simboleggiando quindi una potenzialità latente che potrà finalmente esprimersi in tutto il suo splendore.
Gli altri elementi presenti sono una borsa chiusa, deposta ai piedi della donna, che appare vuota ma che, conclusa l’opera, si riempirà del simbolico oro, la ruota forata di pietra a fianco della donna, che secondo alcune interpretazioni suggerisce il ritmo ciclico con cui il processo riprenderà senza fine o anche, secondo altre esegesi che l’hanno associata ad una macina, alla triturazione, alla scomposizione della materia. È molto più probabile invece, considerando il significato simbolico che la ruota forata ha in tutte le antiche tradizioni del pianeta, a partire dallo stesso sciamanesimo druidico, che voglia esprimere il cerchio sacro dell’esistenza, la ruota dell’universo che girando ospita il processo evolutivo e rigenerativo della vita e quindi l’evoluzione dell’individuo: un altro modo simbolico e universale di rappresentare il processo alchemico della natura che non poteva mancare in una puntuale rappresentazione allegorica del sentiero spirituale in cui si incammina l’iniziato. Infine vediamo la scala a sette pioli appoggiata all'athanor: è un simbolo che ricorre spesso nelle raffigurazioni alchemiche perché allude alla progressione delle sette operazioni in cui normalmente si suddivide la prima fase dell'opus. Sette è un numero magico, la somma tra il tre e il quattro, ossia i numeri del "quadrato magico" che, abbiamo visto, dà sempre trentaquattro. Il tre simboleggia la ternarietà dell’esistenza, la struttura dell’uomo e dell’universo, mentre il quattro rappresenta la dinamica che consente il processo evolutico presente nello stesso. L’arte del Dürer, da quel momento storico in poi, non sarà certamente l’unica ad esprimere delle forti contaminazioni alchemiche. Sono veramente tanti, ad esempio, i grandi pittoriche che tra l’inizio del Cinquecento e nel Seicento hanno prodotto capolavori della storia dell’arte dal significato nascosto della scienza ermetica.
Sandro Filipepi (conosciuto come il “Botticelli”) nel 1481 realizzò il famosissimo dipinto della “Madonna del Magnificat”, detto il Manifesto dell'Arte alchemica. "Magnificat" era il nome dell'inno musicale dedicato alla prodigiosa opera compiuta da colui che riusciva a portare a compimento le quattro fasi del processo di trasformazione della materia. L’autore con questo dipinto raffigurò una semplice Madonna con Bambino in presenza di cinque angeli, ma interpretando il dipinto con l’allegoria alchemica assume un significato assai più complesso. I colori alchemici con i quali raffigura gli angeli che accerchiano la Madonna sono quelli delle fasi dell’opus e non a caso l’angelo con la veste rossa abbraccia in senso di stretta unione quelli vestiti di giallo (che rappresenta la Citrinitas, simbolo del processo intermedio tra i primi due stadi non sempre indicata nelle fasi) e nero, mentre in fronte a loro ce ne è uno vestito di bianco. I due angeli con la veste tengono la corona d'oro (la ruota, simbolo della Perfezione) che ricade sul capo della Vergine e di conseguenza su quello del figlio. Un altro grande pittore del Cinquecento, il Parmigianino, si dedicò moltissimo allo studio e alla pratica dell’alchimia, come del resto molte cronache dell’epoca testimoniano, producendo capolavori che al di là dell’iconografia apparente celano un significato più intimo e nascosto: nella Madonna dal collo lungo compare l’elemento simbolico del vaso-uovo, simbolo di rinascita spirituale e rigenerazione, contenitore della pietra filosofale. Anche Michelangelo non fu da meno nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo in Firenze in cui ha tratto ispirazione dal simbolismo alchemico per la costruzione della cupola, la cui architettura venne ripartita con uno schema geometrico chiaramente allusivo alle quattro fasi e ai quattro elementi, molto simile per altro a quello richiamato spesso nei trattati di cabala.
L’elenco dei pittori alchimisti sarebbe davvero lungo e dovrebbe includere anche personaggi del calibro di El Greco, Hieronymus Bosch, Giorgione, Tiziano, Caravaggio, Giovanni Stradano che dipinse un’opera con un titolo che di per sé è già un programma: “Il Laboratorio dell’alchimista”. Uno stuolo di geni della pittura che hanno segnato con le loro opere il periodo più ricco della storia della pittura. Ora lasciamoci alle spalle quel fervente periodo di produzione artistica ispirata o commissionata dall’alchimia e proiettiamoci in tempi a noi più recenti, inizio del XX secolo, per scoprire se anche in questo periodo esistono testimonianze artistiche di stampo alchemico che confermino come il linguaggio ermetico sia rimasto immutato in tutte le epoche perché tramandato da un continuum tradizionale che ininterrottamente dall’alba dei tempi ha accompagnato l’uomo nella ricerca della spiritualità, un’esigenza che di fatto non ha limiti di tempo, né di spazio, né di espressione. Ed eccoci quindi alle prese con Marcel Duchamp, un artista davvero straordinario quanto geniale, irriverente e ribelle (famosa la sua dissacrante versione della Monna Lisa con tanto di baffi e pizzo apposti sul viso) quanto il movimento culturale a cui appartenne, il Dadaismo. Per inquadrare l’opera di questo artista all’interno del pensiero ermetico bisogna premettere che il Dadaismo o semplicemente Dada era un movimento culturale che spaccò i dettami del pensiero dominante dell’epoca prefiggendosi di rivoluzionare e di rifondare il mondo, di rifiutare, opponendovisi, la realtà convenzionale. Rappresentava quindi una spinta verso la ricerca dell’Assoluto, di una sorta di dimensione suprema e totale dell’Essere, che esprimeva la condizione naturale dell’individuo raggiungibile senza il condizionamento di precetti ideologici o religiosi, ma seguendo un percorso interiore improntato ad un’esperienza diretta, come quello di natura iniziatica.
I dadaisti vivevano Dada come se fosse un atteggiamento areligioso ma allo stesso tempo che si rifaceva al mistero umano. In un certo senso questa corrente di pensiero era in parte influenzata dalla filosofia Zen e dal pensiero taoista, assumendo nei confronti della realtà un atteggiamento di distacco e con la volontà di agire in maniera evanescente per raggiungere l’Illuminazione, ispirandosi alla logica del nonsense che segnò la maggior parte delle opere prodotte da questo movimento artistico. All’interno del Dadaismo la maggior parte degli esponenti caratterizzarono il loro operato limitandosi ad adottare un approccio al quotidiano non conformista, ma nel caso specifico di alcuni dadaisti, questo atteggiamento nascondeva un intento superiore che sconfinava nel metafisico, o ancora più misteriosamente, si ispirava alla realizzazione di una sorta di Opus Magnus, il famoso percorso alchemico finalizzato alla produzione della Pietra Filosofale. Marcel Duchamp, ad esempio, con piglio molto ambizioso affermò di voler operare ampliando il proprio orizzonte di veduta in modo tale che non si limitasse a realizzare una trasformazione della vita bensì una trasmutazione da una realtà all’altra, da uno stato normale dell’Essere ad una dimensione “oltre”, superiore, mistica e fuori dal tempo. Anzi, Duchamp precisò che il percorso artistico e creativo “assume tutt’altro aspetto quando lo spettatore si trova in presenza del fenomeno della trasmutazione”; attribuisce quindi alla creatività dell’artista la capacità di infondere nello spettatore la stessa esperienza estatica vissuta nel processo di trasformazione presente nel proprio atto creativo; un fenomeno questo che può, per certi versi, essere paragonato all’arte culinaria, dove la sapiente trasformazione degli elementi primari conduce alla gaudiosa degustazione della sostanza finale che si porta in tavola. Egli utilizzò il termine trasmutazione, prendendolo in prestito dal linguaggio iniziatico degli alchimisti, proprio per evidenziare la natura eccezionale della ricerca di questo particolare gruppo di artisti basata su di una visione iniziatica dell’arte, strettamente correlata all’antico sapere della tradizione alchemica e ai suoi insegnamenti esoterici, magici e mistici. Questo breve viaggio nella storia dell’arte ci ha rivelato che il pensiero alchemico non può essere ricondotto semplicemente ad un linguaggio filosofico aulico, ad una speculazione salottiera fine a sé stessa perché, come abbiamo visto, è sempre stata in realtà per l’uomo di ogni tempo una pratica di vita ispirata all’insegnamento mistico della Natura. L’espressione artistica è diventata quindi il veicolo con cui ogni individuo ha nel tempo trasferito in una forma l’armonia creativa che otteneva dalla ricerca e dalla scoperta della propria dimensione interiore e del suo rinnovato rapporto con la vita. L’opera d’arte rimane quindi la traduzione, la materializzazione, del suo processo di risveglio ad una nuova vita. Una visione della vita ricca di magia, come magiche sono le opere prodotte dall’intuizione del mistero che sottende alla vita stessa. Un profondo mistero racchiuso nell’unitarietà dell’Assoluto dell’esistenza e nell’interconnessione tra tutte le cose dell’Universo, il fenomeno oggi conosciuto come “entanglement”, che è il principio fondante anche del pensiero alchemico moderno che non a caso ha ispirato il concetto di “alchimia quantistica”. Marco Pulieri, ricercatore della Ecospirituality Foundation, conduce la trasmissione “Archeomistery World” su Radio Dreamland www.radiodreamland.it |