Esoterismo

Il problema della morte

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23 Luglio 2021
 La "pesatura dell'anima" del defunto giunto nell'Aldilà secondo le credenze dell'antico Egitto
La "pesatura dell'anima" del defunto giunto nell'Aldilà secondo le credenze dell'antico Egitto

Parlare della morte suscita un vago disagio. Si ha l’impressione di evocarla e di concedersi vittime impotenti di un destino altrimenti evitato. Nella società contemporanea, sedotti e suggestionati dal consumismo, la morte è più che mai diventata argomento tabù. Eppure si muore


Esiste il problema

Perché parlare della morte? L’uomo di questo secolo sembra aver superato il problema della sua fine terrena con molta disinvoltura.

Gadgets elettronici, conquiste tecnologiche, nuovi prodotti del mercato consumistico e problematiche sociali sembrano aver esorcizzato questa arcaica problematica in maniera definitiva.

Addirittura, voler parlare della morte in questo secolo può sembrare inutile e anacronistico. L’uomo moderno considera questo evento alla stregua di un vero e proprio tabù; chi mai ne parla come di un argomento sereno da discutere tra amici? Al contrario, si rifugge l’idea della morte tuffandosi nelle distrazioni che il nostro tempo ci offre sempre più generosamente.

L’individuo rifugge la noia perché può portarlo di fronte ai problemi più scottanti della propria vita.

Ed è così che molti spiriti brillanti finiscono per anestetizzare il proprio senso della vita con l’uso della droga o davanti alla televisione... E quando non usa queste evidenti droghe, l’uomo che fugge l’idea della morte si rifugia nelle cose che egli considera, o dichiara di considerare, più pratiche e immediate come il “conto in banca”, la carriera, il crearsi una famiglia.

Ma il problema della morte non è rinviabile. E’ il più immediato dei problemi.

Noi infatti, che ci piaccia o no, conviviamo ogni istante con la morte. Questa è parte integrante della nostra vita così come lo sono le nostre azioni quotidiane.

La "pesatura dell'anima" del defunto giunto nell'Aldilà secondo le credenze dell'antico Egitto
”L’Uomo e la morte” di Giancarlo Barbadoro, Edizioni Triskel

Morire è facile, così come è altrettanto difficile, ma comunque inevitabile, anche se non ci si pensa e si cerca di sostituirla con quanto è possibile. Alla morte non si sfugge.

Ma non ci si deve preoccupare poi troppo. La morte è una situazione in armonia con la nostra stessa esistenza. Essa non ci toglie nulla di quanto possediamo, poiché noi non possediamo nulla; in realtà, noi crediamo di possedere quanto il fato o il caso ci ha concesso di usare per il nostro bisogno o per il nostro diletto.

Noi siamo nati insieme alla morte. Essa è una condizione sine qua non della nostra stessa nascita; avrebbe potuto essere diverso, ma non è successo.

Dobbiamo rassegnarci alla morte. Non per dichiarare il nostro estremo fallimento nei confronti della vita che vogliamo a tutti i costi conquistare per poterla dominare, ma per renderci conto del problema che essa rappresenta sul piano della nostra esistenza e, di conseguenza, per poterla affrontare con tutta la ragione di cui siamo capaci e di cui la natura ha voluto elargirci per il suo oscuro disegno.


Cos’è la morte?

Al di là dell’aspetto scontato del macabro, a cui la facile speculazione dei romanzieri e dei registi ci hanno tristemente abituato, la morte di per sé non è altro che un momento di passaggio da una condizione di vivente ad un’altra di non vivente.

C’è un momento estremo della vita cronologica dell’uomo, in cui esso termina di esistere come identità capace di comunicare con gli altri esseri umani.

Noi diciamo che un uomo morto è morto, e con questo definiamo secondo la nostra credenza laica o fideistica la sua situazione riferita alla nostra identità di viventi.

Ma noi sappiamo che tutto è relativo alla nostra identità di osservatori. Quando noi diciamo che uno è morto, lo diciamo come se il fenomeno riguardasse anche lui.

In realtà noi non sappiamo cosa avviene per lui. Noi sappiamo solo cosa avviene per noi viventi.

Noi possiamo dire che lui ha cessato di poter comunicare con noi che apparteniamo ad una certa dimensione spazio-temporale, e che la sua struttura si decompone sino a sparire nella forma antropomorfa che conoscevamo di lui.

Insomma, noi riusciamo a dare una spiegazione del fenomeno sino a quando il nostro codice genetico, custodito nel Profondo del nostro mentale, ce lo consente sulla scorta dell’esperienza ancestrale che ha potuto accumulare.

Ma siamo sicuri che anche lui si dia per morto? Siamo sicuri che alla sua scomparsa psicomotoria ed al successivo decadimento della struttura antropomorfa corrisponda effettivamente anche per lui la chiusura di un qualche interruttore alla luce della vita che conosciamo, e che si faccia buio per l’eternità?

Ce la sentiamo di fare una simile affermazione con tanta leggerezza? Se il problema fosse così semplice e ci fosse una unica e sola risposta, allora laicismo e confessionalismo o, se vogliamo, materialismo e spiritualismo, non avrebbero più nulla da dirsi e da contraddirsi...

Comunemente, l’uomo distratto identifica la sua esistenza nel ciclo definito di nascita-vita-morte.

Della nascita non ricorda, salvo rari casi, assolutamente nulla. Ma comunque si spreca a poetizzarla nei versi delle poesie e delle canzoni, gli dedica solenni melodie e la esalta quale speranza della sua vecchiaia nell’attesa del nipotino che gli possono dare i propri figli.

Mandala tibetano che raffigura il percorso descritto nel Bardo Todol, il libro tibetano dei morti
Mandala tibetano che raffigura il percorso descritto nel Bardo Thodol, il libro tibetano dei morti

Ci può mai essere controsenso maggiore? L’uomo teme la morte, ma non la nascita che altro non è, se crudamente si analizza il fenomeno, che la condizione per cui l’uomo si espone alla morte.

La propria vita, quale seconda tappa della sua esistenza, l’uomo la celebra con le sue azioni, inconsapevoli o no, che possono innalzarlo alle cronache o schiacciarlo nell’anonimato della storia.

Di questa seconda tappa l’uomo fa comunque un vero e proprio mito. Sembra che essa sia la sola cosa che possieda da difendere disperatamente al di sopra di ogni ragione e convenienza.

C’è chi si fa prete, c’è chi si veste dei panni del rivoluzionario, c’è chi coglie l’occasione di sopravvivere facendo l’operaio, c’è chi cerca di diventare un quotato professionista e chi cerca di dare la scalata al potere sociale.

Se la nascita è livellatrice, certamente non lo è la vita adulta dell’uomo. Le sue manifestazioni eterogenee sono indubbiamente interessanti, ma certamente poco edificanti, in ogni caso.

La vera protagonista è la morte. Unico punto di arrivo per tutti, così come la nascita è il solo punto di partenza.

La morte è anche un evidente traguardo che nasconde di per sé un grande, anzi, un determinante segreto.

L’uomo, purtroppo, invece di capire la morte e quanto essa rappresenta, la teme. L’associa alla tristezza ed alla fine delle cose terrene: gli affetti, il possesso delle cose utili e delle cose belle, le grandi e nobili gesta incompiute. Ma quante cose ignora l’uomo che persegue queste idee?

Egli ignora che il suo egocentrismo lo seduce con una effimera promessa di vita eterna lungi dall’impossibile morte.

Egli ignora che non è altro che un cattivo attore che recita sul copione che gli è dettato dal codice genetico di un corpo prigioniero delle apparenze sensoriali, e non un attore che è capace di recitare a soggetto usando il palcoscenico che gli è offerto dalla natura.

Egli ignora che tutti i valori a cui crede, in realtà non esistono sul piano oggettivo dell’esistenza, ma se li è creati da sé stesso per abitudine, o per pigrizia di cercare qualcosa di più di quello che aveva. Se non quando addirittura la società etnico-culturale in cui è nato lo ha forgiato come volevano i padri fondatori della comunità.


Il concetto di aldilà

Tuttavia quando l’uomo pensa alla morte, e qualche volta ci pensa, non può fare a meno di chiedersi cosa può accadergli in quel momento.

È inevitabile che si chieda cosa c’è dopo la morte, e soprattutto se c’è un dopo.

Il confronto con la morte porta a superare la percezione ordinaria dell'esistenza provocando una "visione" interiore che mostra la sua reale natura fenomenica
Il confronto con la morte porta a superare la percezione ordinaria dell'esistenza provocando una "visione" interiore che mostra la sua reale natura fenomenica

Ma c’è un dopo? È naturale rispondersi che, visto quanto la natura, per non parlare di Dio, si è data da fare per creare la specie umana, sia abbastanza improbabile che voglia lasciar sprecato un simile “capolavoro”, e che senz’altro ci debba essere un dopo.

Un discorso troppo facile, alla cui tentazione le varie religioni non hanno saputo resistere, istituzionalizzando ed elargendo rivelazioni, presunte o vere, che affermano effettivamente l’esistenza di un aldilà dopo la morte.

I cristiani hanno descritto un loro paradiso, i mussulmani anche, e l’orientalismo non è stato da meno.

La medicina moderna, da tenere in maggior conto della ricerca eterodossa per via della spiccata metodologia scientifica che la distingue, ha anch’essa sondato questa possibile dimensione con una serie impressionante di ricerche e di esperimenti sui morenti, con il risultato di confermare l’esistenza di un “qualche cosa” che sembra dover esistere dopo la morte, assicurando così la sopravvivenza dell’uomo.

Ma molti problemi affiorano da questi esperimenti.

Se l’uomo effettivamente sopravvive alla morte, non è più da chiedersi se ciò può verificarsi, ma piuttosto perché l’uomo sopravvive dopo la morte.

Ed a questo punto non possiamo non accorgerci che la domanda è sempre la stessa: perché l’uomo esiste? Da dove viene? E dove va?

E noi possiamo migliorare la domanda, chiedendoci perché esiste anche dopo la morte, in un’altra dimensione non comunicante con mezzi ordinari con il nostro mondo dei viventi.

Posto che l’aldilà esista veramente.


Da: ”L’Uomo e la morte” di Giancarlo Barbadoro, Edizioni Triskel. Edizione postuma ampliata e aggiornata con le ultime ricerche dell’autore

www.giancarlobarbadoro.net

 

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