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Bretagna, dove il mito incontra l’oceano

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21 Ottobre 2013

I menhir di Carnac

Un viaggio ai confini del Mondo, dove alte scogliere di granito affrontano l’Atlantico. Nella regione dei fari, delle maree, dei celti e delle loro leggende, dei menhir e dei giganti che li eressero; a ‘Penn-ar-bed’, il ‘Finis Terrae’ degli antichi, la mitica Cornovaglia


Per gli antichi romani era la ‘Finis Terrae’ – più in là solo onde terrificanti, mostri e fantasmi – per loro, i bretoni, è sempre stata ‘Penn-ar-bed’, letteralmente la ‘testa del mondo’. E dalle due visioni di un luogo si può trarre il primo insegnamento: per l’invasore prevale lo spavento, il timore per lo sconosciuto e l’ostile, per i nativi domina l’orgoglio di appartenenza, la consapevolezza di essere radicati in uno spazio leggendario e differente. Unico elemento comune, la percezione di un confine – naturale e mentale – oltre il quale non si può procedere. E come di fronte ad ogni confine sta a te scegliere da che parte stare: se quella terra ti appartiene lo interpreti come una formidabile protezione, se invece sei, o ti senti, un estraneo lo scenario diventa inquietante e respingente. In più, come inevitabilmente accade, la mente degli uomini modella reazioni e stati d’animo su geografia, geologia e panorami. E nella Bretagna occidentale – tra Finistère e Morbihan – ogni suggestione è modellata dal contrasto tra oceano e rocce, tra sabbie e onde, tra il verde delle praterie e il turchese di un mare onnipresente, costantemente percepito anche quando non lo si vede.


La sala del dolmen di Locmariaquer

Il disegno di questo confine – tra tutti i confini il più ancestrale – si manifesta attraverso un percorso astratto, aspro e imponente nelle forme, solo a tratti percorribile tra sentieri e stradine costiere, mentre in un continuo divenire appaiono speroni di roccia, punte di pietra che sfidano i marosi, promontori, baie, falaise, golfi e, all’orizzonte, fin dove approda lo sguardo, isole e scogli aguzzi. Un paesaggio reso ‘sonoro’ dall’infrangersi delle acque e dal vento, dove l’uomo ci ha messo, o ci ha potuto mettere, poco di suo: fari isolati, casette battute dal vento, qualche chiesa e qualche castello.
Se tra i vari indici per ‘misurare’ un territorio si inserisse quello relativo a miti e leggende la costa occidentale bretone – l’antica Cornovaglia – avrebbe pochi rivali. L’oceano burrascoso – metafora perfetta dell’altrove e dell’aldilà – ha sempre portato in scena un pantheon di terrorizzante varietà: mostri voraci, serpenti di mare, sirene, demoni, fantasmi, divinità furibonde e vendicative, vascelli maledetti. Tutti protagonisti di avventure sinistre e misteriose, raccontate e ripetute nelle notti di tempesta, quando – nei villaggi dei pescatori – la paura per il mare che andava quotidianamente affrontato si ingigantiva attraverso la narrazione, il ricordo, il timore di una sfida inevitabile e necessaria. Ambiente e geografia come fattore condizionante per il lo spirito e il carattere, certo, ma anche metereologia come elemento di frattura tra terrore e speranza, tra serenità e percezione del pericolo.

Tanto le coste bretoni trasmettono immagini drammatiche e spaventose durante le mareggiate, o quando il vento ulula di rabbia e il cielo scarica piogge sferzanti, tanto lo scenario appare di abbagliante e rassicurante bellezza nelle giornate limpide, terse, decorate dall’irresistibile turchese profondo dell’oceano, abile nel cancellare dalla mente ogni inquietudine. Due mondi paralleli e contrastanti sotto il medesimo cielo, due metafore della vita in continua alternanza, perché nel Finistère il tempo muta in continuazione, anche nella medesima giornata, anche a poche ore di distanza; imponendo un repentino ‘cambio delle vele’, in barca come nell’umore degli esseri umani. Ne consegue un profondo senso di fatalismo, una capacità di affrontare il provvisorio e l’imprevisto con la saggezza innata nei ‘popoli naturali’, lontana anni luce dal presente programmato delle civiltà metropolitane. Il nostro viaggio – che ci porterà dal Morbihan fino al faro di Pointe Saint Mathieu – parte nel luogo dove la storia si allaccia al mito, offrendoci più domande che risposte, sorprendendoci con emozioni che rimandano spediti verso le radici dell’umanità: Carnac. Benvenuti nella terra dei menhir!


‘La testa del drago’ a Pointe de Dinan

Nei dintorni di questo piccolo villaggio a pochi chilometri dal mare, si trovano tre grandi ‘allineamenti’ – Le Ménec, il maggiore, Kermario e Kerlescan – oltre a diversi tumuli (collinette artificiali con funzioni di mausoleo), dolmen (camere delimitate da pietre orizzontali, a volte con funzioni funerarie) e diversi siti di entità minore.
A dominare il paesaggio sono però proprio i menhir: imponenti rocce disposte in verticale – l’altezza varia da 1,50 a 3,50 metri, mentre il peso può raggiungere le 32 tonnellate – che compongono lunghi viali ordinati nel verde smeraldo dei prati. Se interrogate gli archeologi scoprirete… poco più di nulla.

Dei monumenti megalitici bretoni si conosce grosso modo la datazione – risalgono al neolitico, quinto e quarto millennio avanti Cristo – ed il loro numero originario: oggi se ne contano circa 4000, ma erano probabilmente oltre 13000. Il resto sono supposizioni, o meglio mito, pura e struggente incarnazione del mito. Falsa anche la credenza che li vuole opera dei celti, che li adorarono e ne fecero luogo di culto, ma che giunsero in Bretagna ‘solo’ a partire dal secondo millennio avanti Cristo. La nostra guida – Jean-Michel Bonvalet – ci spiega divertito: «è tutto colpa di Obelix, il costruttore dei menhir nella Gallia dei fumetti. In realtà dei loro creatori, come della funzione originale, sappiamo poco o nulla». Ad essere ancora più precisi non si può neanche parlare di ‘costruttori’, perché queste imponenti rocce di granito non vennero mai lavorate. Chi decise di installarle si limitò – si fa per dire, dato il peso… – a piantarle nella roccia e a disporle ordinatamente, evidentemente con uno scopo. Ma quale?
Si sa per certo che il sito di Carnac durante il neolitico era più vicino al mare, probabilmente proprio di fronte alla costa. Da qui la supposizione che i menhir ‘segnassero un confine’: tra l’erba e le sabbie, tra l’oceano e la terra, ma forse – più simbolicamente – tra il conosciuto e l’altrove, tra il mondo dei vivi e quello dei morti, delle divinità, delle presenze ultraterrene.


Il menhir ‘spezzato’ di Locmariaquer

Domande, pensieri, supposizioni, ma anche il tentativo di connettersi con qualcosa di antichissimo e ancestrale, che è impossibile non cogliere percorrendo prospettive concepite da antenati dei quali ignoriamo ogni cosa. Come è impossibile non riflettere sul gigantismo dell’opera: 13000 steli in granito, decine di migliaia di mani per spostarli e sollevarli, un disegno ciclopico del quale ci resta solo l’elemento più evidente e incancellabile: l’armonia con la natura e il paesaggio, un luogo ideale per ascoltare il vento, il silenzio e se stessi osservando lo scorrere delle nuvole. Così arrivi facilmente all’essenza, la smetti di farti domande, li tocchi lasciando scorrere quella evidente energia che arriva da lontano – sono pietre ‘abitate’, la storia coi suoi quesiti può attendere.

I celti, loro sì, ebbero meno dubbi di noi, o semplicemente un'altra sensibilità; se li trovarono di fronte e ci costruirono una fede attorno, se ne impossessarono adorandoli e architettando un mondo che li accogliesse. Ne sono stati i custodi per altri duemila anni e coi bretoni di oggi – i loro eredi – il cammino prosegue senza soluzione di continuità.
A Locmariaquer, sempre nei pressi di Carnac, il mito ha un’appendice di enigmatica imponenza. Qui si trova il menhir più grande di ogni epoca (18,5 metri di altezza, ma attualmente giace a terra spezzato in 4 frammenti): colosso sorprendente per dimensioni e fattura perché venne sia ‘eretto’ che ‘scolpito’. Tagliato in un granito del tutto estraneo alla zona, questo blocco di pietra, del peso di 280 tonnellate, venne portato a destinazione usando tecniche ancora ignote. Una volta eretto i suoi creatori lo levigarono utilizzando percussori in quarzo: un insieme di operazioni semplicemente sbalorditive se si pensa che vennero condotte oltre 6000 anni fa… Il magnifico gigante oggi giace a terra, distrutto dalla natura – o demolito – nel 4000 avanti Cristo; ma anche su questo episodio il mistero resta insoluto. Un’esperienza lungo la costa occidentale bretone non può prescindere dall’incontro con il mare vissuto a vela.

Lungo queste coste – nel golfo omonimo – si allenano i ‘Glénan’, discepoli di una tra le più selettive scuole velistiche al mondo. Non è un caso: il luogo è stato prescelto proprio perché il quoziente di difficoltà di questo mare ha storicamente pochi eguali. Chi ha imparato qui può andare ovunque. Ma ancora più degli sportivi, i veri depositari di ogni segreto sono i pescatori che, per generazioni, si sono guadagnati l’esistenza affrontando venti, onde e condizioni atmosferiche estreme. Basta una semplice escursione per rendersene conto.


La ‘baia dei trapassati’

In una mattinata di pioggia battente e vento teso ci siamo imbarcati con Federic e Jérome sul ‘Krog e Barz’ alla volta dell’isola di Houat. Il battello – 22 metri, 27 tonnellate, 210 metri quadrati di vele – si rifà alla tradizioni delle velocissime ‘langoustier’ di inizio ‘900 e viene ‘portato’ verso la sua destinazione da tutto l’equipaggio, ospiti compresi anche se neofiti. L’esperienza – se il clima è avverso – ha ben poco di turistico, ma aiuta a comprendere, ti cala in quell’atmosfera fuori dal tempo che impone la sfida – semplice quanto ardua – con una natura che non interpreta certo il ruolo di comprimaria.

Ma la padronanza di chi guida la barca è tale da rendere tutto possibile, le istruzioni (sarebbe meglio dire i comandi…) consentono una navigazione senza problemi anche quando l’equipaggio, come nel nostro caso, è composto da soli 4 elementi. Si arriva zuppi e infreddoliti, ma orgogliosi di una prova ‘vera’, anche se limitata a due ore di rotta.
L’isola di Houat ripaga ogni sforzo: un minuscolo borgo di pescatori dove la storia ha compiuto solo piccoli passi, una comunità serenamente autarchica come tre secoli fa, quando fondamentalmente si amministrava da sé: troppo piccola e povera per meritare un governo ed una guarnigione. A piedi si raggiungono grandi spiagge splendide e solitarie, scogliere affollate di uccelli marini, approdi silenziosi dove non esiste altro suono che il vento e il rumore delle onde. A questo punto il nostro itinerario piega con decisione verso Nord Ovest, dove il Finistère mette in scena i suoi confini oceanici.


Il faro La Veille a Pointe du Raz

L’obiettivo sono tre capi – la Pointe du Raz, le punte della penisola di Crozon e la Pointe Saint-Mathieu – dove il mondo sembra davvero finire per riprendere lontano, molto più lontano, oltre l’Atlantico. I capi bretoni si raggiungono attraverso stradine costiere che assecondano un cammino tortuoso e movimentato; calcolare il tempo necessario al tragitto sulla base del puro chilometraggio inganna come di fronte ad un miraggio. La Pointe du Raz – considerata il simbolo emblematico dell’estremo Occidente – è uno sperone di roccia alto 70 metri che separa il continente dall’isola di Sein. In mezzo il Raz de Sein, un braccio di mare che – secondo un diffuso detto bretone – «nessuno ha mai attraversato senza paura e senza dolore». L’incubo dei naviganti è ben segnalato dallo scoglio dove si erge il faro ‘La Veille’: acceso nel 1887 fu automatizzato nel 1995, fino ad allora intrepidi guardiani lo abitarono in condizioni ambientali sovente estreme. Dalla Pointe du Raz, piegando a destra, si supera la ‘baia dei trapassati’ per risalire all’altro capo che domina il panorama: la Point du Vent. In uno scenario di tale selvaggia imponenza si sono alimentate leggende millenarie. Proprio in questo tratto di costa il mito colloca la città di Ys: opulenta e maledetta, sarebbe stata inghiottita dalle onde per i malefici e la lussuria della principessa Ahes.

Ma è la stessa ‘baia dei trapassati’ a rappresentare l’invisibile confine tra la terra dei viventi e l’altrove. Su questa grande spiaggia dorata, dove probabilmente il mare restituiva il corpo dei naufraghi, si apriva una porta – o meglio un ‘porto’ – verso Avalon, il ‘paradiso delle delizie’, il luogo di residenza di tutti i santi, dove sorgeva il palazzo di cristallo, o più semplicemente l’aldilà dei meritevoli. Sembra anche accertato che le popolazioni celtiche imbarcassero da questa costa i corpi dei druidi alla volta dell’isola di Sein, dove trovavano gloriosa sepoltura. In tempi più recenti questa località – simbolo della forza minerale di una regione dove il granito affiora ovunque - incantò personaggi come Sarah Bernhardt, che aveva un formidabile senso del grandioso, e Anatole France, che la celebrò con queste parole: «Davanti a noi l’oceano, dove il sole si corica in un letto di fiamme, stendendo in lontananza la nappa magnifica delle sue acque che percuotono le rocce nere fiorite di schiuma. E dove l’isola di Sein, semplice e bassa, dorme sulla lama dei propri marosi». Altra penisola e altra leggenda.
A Crozon – meno frequentata e ancora più selvaggia della Pointe du Raz – si narra che i numerosi monumenti megalitici risalgano all’epopea della disfida tra i giganti del sovrano Kawr e i Korrigans, nani laboriosi e burloni amanti delle località abbandonate. La battaglia finale avvenne lungo la falaise, quando i giganti ‘affumicarono’ i piccoli nemici nelle loro grotte per poi imprigionarli – dove oggi sorge la Pointe de Dinan – con grandi massi di pietra che ancora dominano lo scenario.


Quimper

Prima di raggiungere Plougonvelin, ‘l’imbarcadero dei viaggi meravigliosi’, facciamo una rapida deviazione verso due località di arte e storia situate nell’immediato entroterra: Quimper e Locronan. La prima – antica capitale della Cornovaglia – propone un incantato centro storico con deliziose case a graticcio, dominato dalla elegante mole della cattedrale di Saint-Corentin. Centro di formidabili ceramisti, tradizionali ma anche legati al percorso cubista e Art Déco del movimento Ar Seiz Breur (‘I sette fratelli’), Quimper deve la sua mitica fondazione a Re Grandlon – padre della perversa Ahes – che edificò la città quando Ys venne annientata dai flutti. Locronan – classificato come uno dei più bei villaggi di Francia – è un piccolo gioiello medioevale di neanche 800 abitanti. Quella che fu la ‘fabbrica’ per le vele della Compagnia delle Indie oggi rappresenta il set cinematografico prediletto per decine di produzioni: ‘Tess’ di Polansky, l’Isola del Tesoro, D’Artagnan, innumerevoli serie televisive transalpine…

Ma il fascino di Locronan ha radici ancestrali ed è legato a uno dei più evidenti fenomeni di sincretismo religioso di tutta la Bretagna. La sua vicina foresta – la Montagne de Locronan – fu luogo sacro prediletto dalle popolazioni celtiche, che vi celebrarono riti e pellegrinaggi druidici. Nei secoli il cristianesimo prese il potere e tentò – invano – di sottomettere le credenze originarie. Col tempo si giunse ad una sorta di tacito compromesso, che permise di adorare l’antico sotto le forme del nuovo. I luoghi restarono i medesimi, ma le credenze assunsero forme inedite e meticce. L’esempio più evidente e spettacolare sono Le Troménies, grandi processioni che partono e tornano al villaggio dopo aver attraversato, in una serie di ‘stazioni’, la foresta sacra, dove sorgeva l’antico ‘Nemeton’, il tempio naturale. Ogni anno si tiene la ‘piccola Troménies’ di 6 chilometri, mentre ogni 6 anni (e l’evento accadrà proprio nel 2013, la seconda e la terza domenica di luglio) viene celebrata la ‘grande’, considerata il più lungo e articolato pellegrinaggio religioso europeo.


Locronan

Il nostro viaggio termina nella località che più di ogni altra sintetizza il fascino di questa terra ai confini occidentali: la Pointe Saint-Mathieu o ‘Penn-ar-bed’, la testa del mondo, l’imbarcadero dei viaggi meravigliosi. La vedi e ti dice tutto, perché nessuno dei simboli manca all’appello: c’è il faro – metafora ideale di ogni viaggio, di ogni approdo, la luce che indica la rotta ai naviganti portandoli al riparo dalla tempesta – c’è l’antica abbazia di San Matteo (i resti – a cielo aperto – di un monastero benedettino del VI secolo) – ci sono le rocce del capo che si alzano a 30 metri sul mare e due ‘steli crociate’ celtiche, che rimandano ai riti precristiani e al sincretismo religioso dominante su queste coste. Qui approdò il vascello che portò dall’Egitto le reliquie del santo – si narra in un giorno di tempesta, quando le rocce si spalancarono per far passare la nave… – e da qui partirono i monaci per evangelizzare l’Irlanda in un ‘viaggio meraviglioso’, dove – nella città degli angeli – incontrarono i profeti Enoch ed Elia. Tutto sembra essere accaduto in un solo luogo; il medesimo che esplori al tramonto (e poi di nuovo di notte, alla luce della grande lanterna del faro) consapevole di aver raggiunto ‘il confine’. Sei nella terra dei celti, dei santi, delle sirene e dei guerrieri; tra onde, vento e maree il visibile e l’invisibile danno al mito un valore concreto. Mai come tra le rocce di Penn-ar-bed comprendi che ogni viaggio ne prepara un altro, tutto da affrontare e ancora da scrivere, ignoto nei dettagli ma pronto per essere vissuto e raccontato.





Foto di Gianfranco Cappellano e Guido Barosio



Guido Barosio, giornalista, fotografo e scrittore, è direttore della rivista Torino Magazine.