Storia

Scansar la peste

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07 Luglio 2020
Affresco all’ingresso di quello che fu il lazzaretto dei Cornetti  (Balme – foto Gianni Castagneri)
Affresco all’ingresso di quello che fu il lazzaretto dei Cornetti (Balme – foto Gianni Castagneri)

Le epidemie del passato nelle Valli di Lanzo


Eravamo tutti convinti che le pestilenze del passato rimanessero soltanto un lontano seppur doloroso ricordo. Gli impedimenti dovuti al diffondersi di un pericoloso virus, ci riportano invece a situazioni che pensavamo definitivamente sconfitte. A ricordarci la diffusione delle trascorse pestilenze, restano numerose cappelle devozionali, disseminate su tutto il territorio e intitolate a San Rocco (ben 14 nelle valli) considerato, talvolta in accostamento al precedente culto per San Sebastiano, il protettore contro la peste. 

La malattia contagiosa grave e spesso mortale che di tanto in tanto insorgeva e falcidiava la popolazione era detta, quando non era ben definita, con un appellativo del dialetto locale che era già un programma: “mourtéri”. 

Nelle Valli di Lanzo la peste del 1348-49, quella descritta magistralmente da Boccaccio nel Decamerone, quasi spopolò il territorio. Uccise probabilmente anche la marchesa Margherita di Savoia, che fino ad allora aveva condizionato le scelte politiche della comunità e che aveva stabilito la sua residenza nella non lontana Ciriè. A causa della mortalità che decimò i valligiani in quella situazione, si fu addirittura costretti a rinunciare per un biennio alla coltivazione delle importanti miniere d’argento del Trione, nel comune di Groscavallo.

Per contrastare la diffusione delle pestilenze sul ponte del Diavolo di Lanzo, costruito quasi duecento anni prima, nel 1564 fu costruita una porta per evitare che i forestieri portassero la peste già dilagata in Avigliana e zone limitrofe. Il passaggio obbligato veniva chiuso allo scoppiare di epidemie per impedire la circolazione dei forestieri e preservare quindi il borgo e le sovrastanti valli. Nei pressi del ponte, ad uno degli ingressi del paese, non a caso fin dagli inizi del 1500 era stata costruita la cappella di San Rocco, edificata a salvaguardia dalle epidemie; in origine, con ogni probabilità, era un torrione all’interno del quale alloggiava la guarnigione posta a difesa dell'ingresso alla città.

La cappella del Pian di Ceres è invece definita “cappella della Peste” dal momento che fu costruita all'epoca della pestilenza che colpì le Valli nel 1575. Si trova infatti nel bosco fuori dal centro abitato, è aperta sul davanti ed è capace di contenere soltanto il sacerdote celebrante. I borghigiani assistevano alla messa sparpagliati sull’erba o fra gli alberi, per evitare qualsiasi contatto con le altre persone. Sempre a Ceres vi è una cappella dedicata a San Rocco nel centro del paese, costruita nel 1599 e affrescata nel 1634. A Balme, dove sempre nel 1599  si fa guardia ai Cornetti per isolare gli appestati, è ancor oggi individuabile l’antico lazzaretto, con l’unico ingresso sovrastato da un piccolo affresco sacro.

Ad Ala di Stura, il 30 luglio 1630 Gio. Giacomo Genoa, sulla strada pubblica del forno della frazione Villar, nel dettare il proprio testamento impone agli eredi che un anno dopo la sua morte  sia costruita “una Capella bella, e suffitiente che si possi Celebrare messa nel sedime presso la casa desso testatore detto il Chianaverio”, all’interno della quale siano fatti dipingere la Vergine santissima con il bambino in braccio, e sui lati San Rocco, San Sebastiano (anch’esso  invocato e raffigurato a protezione contro la peste), e San Vito. 


Balme - La cappella di San Rocco all’ingresso del paese, abbattuta nei primi anni '30
Balme - La cappella di San Rocco all’ingresso del paese, abbattuta nei primi anni '30

La penuria di cibo

Il tentativo di accaparrarsi le derrate alimentari visto anche in questi ultimi tempi all’esplodere dell’emergenza per il coronavirus, fa pensare a quando le epidemie infierivano su situazioni di penurie alimentari già fortemente compromesse dalle guerre e dalle condizioni ambientali. 

La povertà di risorse, la difficoltà a produrre e acquistare il cibo, il clima impietoso che devastava le già insufficienti coltivazioni, portavano a debilitare le persone che faticavano maggiormente a difendersi dai contagi. 

La carestia, fenomeno per il quale una larga percentuale della popolazione è così denutrita da morire di inedia o di malattie correlate, era un termine assai diffuso e ricorrente. Le Valli di Lanzo, nei secoli scorsi, furono provate da frequenti e terribili circostanze nelle quali i prodotti del suolo non bastavano a provvedere il necessario alla vita della numerosa popolazione e la mancanza di mezzi appena discreti di comunicazione rendeva difficile l’importazione delle derrate occorrenti. Ogni fallanza nei raccolti locali voleva dire miseria estrema; se poi il raccolto era misero anche nella vicina pianura nella cronaca si scriveva la terribile parola fame. Le grandi pestilenze, le frequenti inondazioni, l’imposizione di pesanti balzelli, oltre ai contributi speciali richiesti in caso di guerre, contribuivano grandemente ad impoverire queste popolazioni. Alla drammatizzazione di scenari talvolta apocalittici, contribuivano le infezioni animali come quella che a fine Settecento si propagò in tutti i paesi delle valli, decimando il bestiame. Spesso le poche vacche, talvolta una sola, costituivano la principale se non l’unica fonte di sostentamento alimentare, il cui decesso gettava intere famiglie nella disperazione. Per questo non stupisce la presenza di ex voto che ringraziavano per la sopravvivenza di un bovino.

Eppure anche le classi più agiate malgrado la maggiore disponibilità, praticavano diete profondamente squilibrate per la grave carenza di sali minerali e di vitamine, dovute all’assenza quasi totale nel vitto di frutta e ortaggi crudi, elementi protettori e difensivi dell’organismo umano, necessari per un corretto sviluppo fisico e intellettuale e per un’autodifesa immunitaria nei confronti di molte malattie infettive. 

Durante la peste del 1599 a Lanzo si pagavano le vivande per i sotterratori, per i monatti e per le donne che prestavano servizio ai malati. Venivano dati loro pane, toma, vino, carne. Agli appestati invece si somministrava vino, pane e si preparavano le “panàde”, una sorta di timballo di pane, burro e formaggio cotto in poca acqua, oppure “acqua cotta”, una zuppa di verdure, oltre a fornire medicamenti fatti con “erbe e droghe”. 

Facile immaginare come la risposta degli organismi dei malati non potesse che essere inadeguata, preda di infezioni che avevano gioco facile a prosperare in organismi debilitati e resi fragili da rimedi del tutto empirici. Del resto non c’era altra cura che aspettare: solo chi superava la quarantena, periodo che poteva variare in base al morbo, era sicuro di guarire.


La peste del 1630

Le pestilenze successive del 1599 e quella descritta nei Promessi Sposi del 1630, che quasi disertarono Torino, fecero nella nostra zona meno vittime che altrove, grazie alla tempestività dei solerti provvedimenti: si posero guardie al Ponte del Diavolo e alla porta delle Teppe, al Pian della Mussa, al Col Girard e all'Autaret per far cessare il transito dei viandanti, che evidentemente già all'epoca erano numerosi; si nominarono commissioni di sanità; se v’era qualche casa infetta o se ne aveva il sospetto si ponevano guardie intorno ad essa per impedire ogni contatto.

Annotazione di pestilenze su documento d’archivio
Annotazione di pestilenze su documento d’archivio

Le misure di contenimento già allora prevedevano la necessità di dotarsi di quelle che oggi abbiamo mutuato in autocertificazioni. Il 7 settembre 1564 fu vietato l’ingresso delle valli a chiunque, “salvo habbi suva bolletta dal luogo donda viene contrassegnata del sigillo di Lanzo”, documento che doveva essere mostrato al ritorno. Si intimava inoltre il divieto a chiunque sul territorio di preparare analoghe certificazioni. Disposizione che venne ripetuta nel 1577, ai primi giorni di gennaio del 1600 e di nuovo nel 1630.

Il 24 aprile 1630, si riunì la Credenza di Lanzo, che dispose l'allontanamento di quanti fossero sospettati di contagio. Ne fecero le spese in particolare i più poveri che spesso erano già debilitati dalla penuria alimentare e che più facilmente potevano essere portatori del morbo. Si posero allora guardie ai ponti del Rocho (del Diavolo) e del Tesso; si presero provvedimenti per trovare granaglie e viveri di scorta per poter adeguatamente fronteggiare una eventuale quarantena. Il 4 maggio successivo il Magistrato della Sanità dichiarò Lanzo e i territori limitrofi sospetti di contagio, per cui dispose l'isolamento del territorio e sospese il commercio per quella che oggi chiameremmo zona rossa, con pene rigorose per gli inadempienti. 

Passarono pochi giorni e di nuovo davanti al Giudice vi fu un’altra riunione per assumere urgenti disposizioni: la difficoltà ad approvvigionarsi di derrate alimentari gettava del resto molte famiglie nella disperazione, per cui si ordinò che due persone fossero deputate all'acquisto di vettovaglie da chi ne disponesse e che queste venissero distribuite tra i bisognosi. Al tempo stesso i due incaricati “potranno proveder delli medicamenti et altri rimedij necessari contra il mal contagioso”. Si costruirono capanne oltre il fiume Stura o al fondo dell’Uppia per riparare le persone ammalate e per quelle sospette che non avessero concluso il periodo in isolamento. Il Giudice accogliendo la richiesta dei sindaci, ordinò alla parrocchia di Lanzo di “instituire la quarantena” che dovette essere comunicata “con sono di trombe e voce di crida”, con proibizione durante i quaranta giorni di uscire dalle proprie abitazioni per evitare i contatti tra persone, ad eccezione dei capi di casa che dovevano provvedere ai bisogni delle loro famiglie, ai lavoranti di campagna ed ai pastori. Inoltre si comandò ai sindaci di provvedere almeno a due guardie che vigilassero sul rispetto degli ordini emanati. 

Intanto la peste non si fermava e dilagava nelle valli. Dopo una brevissima incubazione, compariva nel soggetto colpito una febbre altissima e delirio. Poi, in base alla virulenza potevano manifestarsi i meno gravi “bubboni”, rigonfiamenti nel punto del contagio avvenuto generalmente con roditori o pulci del ratto, oppure gravissime affezioni polmonari e setticemie, trasmesse da uomo a uomo, che portavano brevemente al decesso.

Il ponte della variante alla strada provinciale di Chialambertetto – Foto Gianni Castagneri
Il ponte della variante alla strada provinciale di Chialambertetto – Foto Gianni Castagneri

Fin dai primi avvisi le comunità delle valli si preoccuparono di porre sbarramenti per impedire il giungere di persone dalle zone contagiate. Ad Ala si presero provvedimenti in tal senso ponendo guardie al Ponte delle Scale, all’epoca punto obbligatorio di passaggio per l’alta valle. Ciò nonostante la situazione precipitò ugualmente e il morbo contagioso imperversò per ogni dove. Il 4 giugno un Ordine del Magistrato generale della sanità sospese la “libera pratica col luogo di Cantoira” e prescrisse ai comuni vicini di rinchiudersi con sbarre. Queste barriere erano ben custodite nella regione del Boschietto dagli uomini di Ceres e al di sopra presso i Prati della Via da soldati che già in precedenza erano acquartierati nella zona di Chialamberto. 

A Cantoira infuriò la trasmissione dell'epidemia, tanto che gli atti sui registri parrocchiali si interruppero perché anche il parroco Michele Rochietto si ammalò e morì per il contagio.

Si costruirono allora diverse capanne dall’altra parte della Stura, ben distanti dai paesi. I vecchi raccontavano di aver sentito dire che i viveri, come il pane, venivano lanciati attraverso il torrente evitando in ogni modo di avvicinarsi agli appestati. Sfogliando gli atti notarili conservati nell’Archivio di Stato di Torino si trovano testamenti di tanti “tocchi dal mal contagioso”, ossia contagiati, che dettavano le loro ultime volontà a distanza di sicurezza dal notaio e dai testimoni. Così si viene a sapere che la peste regnava al Col San Giovanni, a Voragno, a Ceres, a Coassolo, alle piazzette di Usseglio. A Lemie morì il curato, il reverendo Antonio Cerva di Nole.

A Balme nel mese di luglio molti si affrettarono a comunicare ai notai le loro ultime volontà. Secondo le ricerche di Don Giuseppe Tuninetti, a Ceres tra il 1627 e il 1629 (dove probabilmente era già attivo un focolaio pestifero) scomparvero 138 persone, ad Ala tra il 1627 e il 1633, 77 e nello stesso periodo 87 furono i morti per il contagio a Cantoira e ben 312 ad Usseglio. Praticamente non vi furono paesi immuni tranne Groscavallo e Forno di Groscavallo. Ma lì, nei boschi del vallone di Sea sopra a Forno, era apparsa la Madonna a Pietro Garino, con la promessa che se il popolo avesse pregato non sarebbe giunta la peste. 

Ma la Madonna apparve al Garino solo il 30 settembre del 1630, e la morte nera era già diffusa per tutte le valli. 

Come mai non era dilagata anche nel territorio di Groscavallo? 

Da Chialamberto in su si erano verificati pochi episodi, ad esclusione di un caso non ben chiaro a Volpetta e uno in una capanna sul rio Vercellina, al confine tra Migliere e Pialpetta, dove era deceduto un valligiano probabilmente già contagiato che fuggito da Torino cercava di raggiungere la sua abitazione.

La risposta è contenuta in un vecchio registro di Groscavallo che elenca le tante spese affrontate durante questo triste periodo. Purtroppo è scritto con una orribile grafia, con abbreviazioni e con un inchiostro che traspare da una pagina all’altra sovrapponendo così la scrittura. Si riescono un po’ a stento ad individuare i numerosi esborsi effettuati per portare denari, pane, formaggio, burro e anche vacche ai soldati del “Regimento del Baron di Chiaveron”, di stanza alle sbarre di Chialamberto. Si trova anche l’annotazione di alcuni personaggi intenzionati a salire a Groscavallo e che furono fermati impedendo loro il passaggio, a dimostrazione che la guardia funzionava e che quindi il territorio da Chialamberto in su era ben protetto, preservato così dalla terribile pestilenza.


Una cartolina di Balme nel 1972
Una cartolina di Balme nel 1972

Empirismo e medicina

Nel corso delle pestilenze che colpirono il nostro territorio il ricorso alla medicina fu spesso illusorio. I pochi medici, pagati da tutti i comuni e mal distribuiti sul territorio, erano talvolta coadiuvati dai barbieri, cavatori di sangue e praticoni che con decotti, tisane ed impiastri curavano gli ammalati. Nell’agosto del 1575 il barbiere di Lanzo Mastro Giacomo Sereno venne incaricato di verificare i segni di contagio sui cadaveri e di darne informazione alle autorità sanitarie. L’anno dopo si invitavano gli speziali lanzesi a procurarsi in sufficienti quantità le composizioni necessarie a por riparo dai contagi la popolazione.

Nelle situazioni difficili, anche dove esistessero dottori, questi potevano soltanto fornire sacchetti di erbe odorose da fiutare o, al massimo, qualche suffumigio. Si riteneva infatti che le malattie infettive si diffondessero nell’aria attraverso i propri miasmi e per questo gli stessi sanitari si dotavano di maschere al cui interno veniva posto un fazzoletto imbevuto di aceto ed erbe aromatiche. Chi era colpito dalla pestilenza o temeva di esserlo, come in genere avveniva per ogni altra malattia complessa, spesso non poteva far altro che ricorrere ai conforti della religione. Tuttavia la popolazione cercava ugualmente in ogni modo rimedi medicamentosi da poter utilizzare all'occorrenza, anche solo per rassicurazione. 

Uno di questi, risalente forse a inizio Ottocento, è una sorta di ricetta contro il morbo del colera, ritrovata in un vecchio registro parrocchiale di Groscavallo, inviata da un missionario in Siria al fratello. Il rimedio prevede: “Spirito di vino a gradi 24, canfora raffinata, laudano liquido, essenza di menta piperita. Si versa il tutto in una bottiglia, la si agita ben bene, e la si tura ermeticamente. In caso di necessità se ne mettono alcune gocce in poca acqua e si somministrano al contagiato 4-5 volte al giorno. In caso di peggioramento si aumenta la dose. La cura sarà sospesa al miglioramento delle condizioni di salute”.

Nei documenti che riportano notizie sulle epidemie del passato, a differenza di quanto si legge nei Promessi Sposi e in altri racconti, nelle Valli e a Lanzo non si ritrova mai notizia di possibili untori. La convinzione generale era che la peste si trasmettesse con il contatto umano e attraverso i vestiti di lana e di cotone. Per questo era proibito filare la lana, considerato che nell’azione di filatura le donne bagnavano le dita con la saliva per attorcigliare il filo, operazione che poteva essere ritenuta cagione di contagio. Per l’emergenza del 1599  si riscontrano molte spese per far bollire i panni dei malati e per bruciare erbe aromatiche per purificare l’aria.


La guerra di Crimea

Un caso particolare risale alla guerra di Crimea, conflitto originato da una disputa fra Russia e Francia sul controllo dei luoghi santi della cristianità in territorio ottomano e combattuto tra il 1853 e il 1856. Francia ed Inghilterra chiesero un appoggio al governo piemontese e il Presidente del Consiglio Cavour inviò prontamente una delegazione di 15.000 uomini. Nei mesi precedenti l’arrivo dei piemontesi, i francesi e gli inglesi erano già stati colpiti da una sequela di malattie. Affezioni che non mancarono di contagiare subito i nostri soldati. Alla fine del conflitto, a fronte dei 38 italiani morti in battaglia se ne contarono 2.278 per colera, 1.340 per tifo, 452 per malattie comuni, 350 per scorbuto. Tra le perdite compaiono anche alcuni soldati delle Valli di Lanzo, impiegati in quella guerra dimenticata. 


La peste nei Promessi Sposi
La peste nei Promessi Sposi

Altre epidemie

Il passare del tempo e delle emergenze non scongiurava le eventualità di infezioni. Nel 1772 una grande epidemia di influenza maligna si diffuse per diversi mesi in Francia. È probabilmente la stessa che l’anno dopo raggiunse Chialamberto, Bonzo e Groscavallo. Oltre a diversi abitanti contrassero la malattia anche il parroco don Genina e il cappellano di Groscavallo, che restarono indisposti per circa otto mesi. Per tale ragione non si trovavano preti che andassero a dir messa nei vari paesi. Nei registri di Balme il 1777 è ricordato per la forte mortalità alla quale seguì una carestia che durò per almeno cinque anni.

Nel 1808 durante  la dominazione di Napoleone, il Prefetto  E. Vincent, del Dipartimento del Po,  preoccupato  dell’impennata delle morti da vaiolo registrate a Torino, per arginare la propagazione esponenziale del virus  emise un decreto attraverso il quale si  organizzava  a Torino un Comitato generale della vaccinazione collegato  con altri due Comitati per il Dipartimento di Susa e per quello di Pinerolo. Da poco infatti Edward Jenner aveva scoperto il vaccino. 

Membri di questi Comitati erano diverse personalità del mondo scientifico, medici, farmacisti, chirurghi e non solo ma magistrati, direttori e membri universitari ed anche rappresentanti ecclesiastici.

Questi incaricati  batterono in lungo e in largo i tre Dipartimenti, operando nell’arco di due anni una vasta campagna di vaccinazione. I medici impegnati  in questa operazione dovevano compilare  un elenco delle  persone vaccinate, mentre i sottoprefetti  dovevano  registrare  i nominativi dei contagiati, se erano guariti o deceduti, o ancora se erano rimasti sfigurati o gravati da altre complicanze, specialmente agli occhi. In tanti rimanevano con la pelle del viso bucherellata, segni che erano riportati sui documenti, sui libretti di lavoro o alle visite di leva. 

Il vaiolo comparve ancora in Piemonte tra il 1828-29. 

Nel 1885 si ha notizia della difterite che colpì Viù.


L’influenza spagnola

Altre volte i contagi riguardavano valligiani impiegati in guerre lontane. Conflitti ed epidemie, del resto, sono spesso andati a braccetto. Ancora vi è memoria dei tanti giovani combattenti valligiani che sopravvissero alle terribili battaglie della Prima guerra mondiale, ma nulla poterono contro il dilagare dell'influenza spagnola che sconvolse il mondo tra il 1918 e il 1920, causando la morte solo in Italia di 600 mila persone, soprattutto all'interno di ospedali da campo allestiti frettolosamente nei pressi del fronte orientale. Alcune volte erano gli stessi militari a tornare a casa o in licenza a diffondere il virus. I soldati di Ala impiegati nella Grande Guerra, come forse anche altri, avevano stipulato un’assicurazione che in caso di morte prevedeva l’erogazione di 600 lire alla consorte o ai figli minori. Ad una disperata vedova alese che aveva richiesto l’indennizzo, fu risposto che essendo il marito morto di malattia non poteva essere risarcito, dato che la polizza era stata stipulata solo per i casi di ferite da guerra.

Secondo una statistica dei caduti nel ’15 -’18,  nei comuni delle Valli di Lanzo, in media il 40 per cento risulta essere scomparso a causa di patologie riscontrate al fronte: malaria, tifo, polmonite (che era poi la famigerata spagnola). Situazione ancora peggiore toccò ai prigionieri, tenuti in condizioni spaventose e per l’ottanta per cento falcidiati dalle malattie. La metà delle morti di giovani balmesi in questa guerra non avvenne in battaglia ma nelle corsie degli ospedali o in prigionia.


La storia nel bene come nel male si ripete e oggi come allora le misure di contenimento, sia pure facilitate dai progressi medici e tecnologici, rimangono simili: isolamento, assistenza ai malati, sostegno alla popolazione con viveri e misure economiche. E per alcuni, in mancanza di efficaci soluzioni razionali, il ricorso all'intercessione divina. Dalle situazioni epidemiche, rimane un insegnamento simbolico che dovrebbe essere accettato in ogni situazione. È racchiuso in un concetto espresso ben quattro secoli fa dal poeta inglese John Donne, ed è un pensiero di cui nelle piccole comunità, almeno nei momenti difficili, si è sempre fatto tesoro: “Nessun uomo è un'isola, completo in se stesso; ogni uomo è un pezzo del continente, una parte del tutto”. 

(da Barmes News n. 54)