Megalitismo

I misteri di Rapa Nui

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01 Settembre 2011

Moai presso il vulcano Rano Raraku

Viaggio in un “posto impossibile”, sulle tracce della tradizione dell’umanità


L’Isola di Pasqua non è uno strano isolotto con qualche misterioso testone di pietra. E’ un ritaglio preciso di un antico e sacro passato dell’intera umanità.

Il senso delle architetture che costellano l’isola è lo stesso che anima Stonehenge, Carnac, Machu Picchu, la Valle di Susa e tutti gli altri luoghi in cui la civiltà dei Megaliti ha lasciato il segno sui cinque continenti …

Ma procediamo con ordine.

Il 5 aprile del 1722 una flotta di tre velieri olandesi, guidata dal navigatore Jacob Roggeween, avvistava nel Pacifico meridionale un’isola fino ad allora sconosciuta agli Europei: forse il lembo di terra più isolato del mondo, circondato da circa 4.000 km di mare in ogni direzione.

Per i cristiani era la domenica di Pasqua: fu così che Rapa Nui divenne “l’Isola di Pasqua”.

“Rapa Nui”, il termine con cui i nativi ancora oggi identificano la loro terra, significa “Grande Luce”, nell’idioma di derivazione polinesiana tuttora usato sull’isola: c’è forse un intero mondo spirituale dietro a questa denominazione, che ci propone una lettura inconsueta delle vicende pasquensi.


I misteriosi Moai dell’Isola di Pasqua

Parliamo di un isolotto aspro e impervio (nulla a che vedere con gli atolli e le spiagge da cartolina dei Mari del Sud): un triangolo di circa 20 km per dieci, con approdi difficili, circondato per lo più da scogliere e dirupi rocciosi e scarso di vegetazione. Il mare è subito molto profondo e spesso mosso; i venti possono essere anche gelidi, non esistendo alcun ostacolo tra l’Antartide e l’isola.

Però, Rapa Nui ha delle caratteristiche straordinarie.

A cominciare dai dati storici e antropologici, come ad esempio:

- all’epoca della “scoperta” dell’isola da parte degli Europei esistevano già tutti gli ahu, i misteriosi monumenti in forma di grandi altari su cui poggiavano e poggiano i moai, le gigantesche sculture antropomorfe

- numerosi visitatori nel tempo, compresi i primi missionari cattolici, riportano che non esisteva alcuna religiosità legata a questi monumenti: intorno agli ahu i Pasquensi celebravano riti e talora seppellivano morti di rango, ma più per soggezione o rispetto nei confronti di un mitico passato che non per fede vissuta; anzi, a dispetto della grandiosità e della solarità degli ahu, la religiosità dei nativi considerava sacri altri luoghi molto più discreti e raccolti, come il villaggio cerimoniale di Orongo, con le sue basse capanne in pietra, o alcune grotte istoriate da graffiti e petroglifi

- tra i miti locali, rivestiva grande importanza quello del Tangata Manu, l’Uomo Uccello, indecifrata divinità cui si rendeva onore in una grande festa primaverile e che richiamava ad un essere in grado di andare e venire tra cielo e terra

- la civiltà pasquense incontrata dai primi visitatori occidentali era originata da Hotu Matu’a, un personaggio tra storia e leggenda che, in un’epoca non ancora chiaramente definita dagli storici (le varie stime vanno dal 400 al 1400 d.C.), aveva guidato una colonizzazione di quasi certa origine polinesiana ed era stato il primo re, sacerdote e legislatore nella Rapa Nui dell’era moderna

- l’etnologo tedesco Sebastian Englert, forse il massimo studioso dell’isola (visse a Rapa Nui tra il 1923 e il 1969 e ne fu anche cappellano, essendo frate cappuccino), riferisce che, secondo la tradizione locale, la gente di Hotu Matu’a sapeva che in epoche remote l’isola era già stata abitata e parlava di un leggendario popolo di giganti dagli occhi azzurri e dalla pelle chiara …


I Moai di Ahu Tongariki

- lo stesso Englert e altri ricercatori riportano nomi mitologici che gli antichi Pasquensi davano alla loro isola: i più suggestivi sono “Te pito o te henua” (l’ombelico del mondo) e “Mata ki te rangi” (occhi che guardano il cielo) …

Forse non era un caso: forse i colonizzatori avevano cercato di andare verso una “grande luce”, un luogo considerato come punto di riferimento, ai limiti tra la Terra e il Cielo, dove trovare traccia di un percorso non solo di colonizzazione ma anche spirituale, rivolto a dimensioni diverse dal terrestre quotidiano.

Ed è così che ci appaiono i Moai: guardiani dallo sguardo intenso e perennemente rivolto al cielo, situati su altari che li pongono in posizione rialzata, nulla lasciando all’osservatore se non la visione della pietra e del cielo stesso.

Le colossali e affascinanti statue ci portano inevitabilmente ad altri dati di fatto che riguardano l’inspiegata archeologia dell’isola.

In primo luogo, colpisce la grandiosità delle costruzioni: esistono sull’isola ben 245 ahu corredati da oltre 600 Moai. In pratica, l’intero periplo di Rapa Nui e molte località dell’interno sono disseminati di altari e statue, tanto da far pensare ad un unico grande centro cerimoniale che andava ben oltre le necessità di una popolazione che non ha mai superato i 5-6.000 individui: lungo gli impervi percorsi che costeggiano e attraversano l’isola lo sguardo si posa in continuazione su strutture (la maggior parte distrutte o in stato di decadimento) che fanno pensare a quanto solenne dovesse essere l’architettura dell’isola nei tempi d’oro.


Un Moai di Ahu Tongariki

I Moai sono certo la cosa più stupefacente, anche perché non è mai stato riscontrato che gli autoctoni possedessero le conoscenze scientifiche e le tecnologie che dovevano essere all’origine delle misteriose costruzioni: chi, quando, per quale motivo e con quali incredibili conoscenze eresse più di 600 colossi il più alto dei quali supera i 20 metri d’altezza?

Ma l’isola non è solo questo: è anche ricca di tumuli, cerchi di pietre, strutture a torretta dette tupa simili ai nuraghi sardi o ai kiva dei Nativi d’America, basamenti megalitici per costruzioni ancora inspiegate, addirittura moli e monumentali attracchi in pietra …

Abbiamo anche identificato un menhir, intagliato allo stesso modo di un omologo dell’antichissima città di Tiahuanaco in Bolivia, delle “vasche” in pietra che ricordano la tradizione delle pietre forate presenti nelle antiche civiltà native di tutto il Pianeta … Così pure, una piccola statua che ricorda da vicino le sculture sacre dei tiki dell’antica Polinesia.

Inoltre: la tecnica costruttiva degli ahu è identica a quella degli edifici megalitici diffusi su tutto il pianeta, con gli stessi perfetti incastri di pietre enormi tagliate e posizionate chissà come, con assoluta precisione; così pure un enigma sono i giganteschi pukao, copricapi in pietra che venivano costruiti separatamente e poi issati sulle teste dei moai con misteriosa sapienza ingegneristica.

Secondo il mito, Hotu Matu’a fuggiva da una terra devastata da un’inondazione (immagine che potrebbe retrodatare la sua storia a epoche molto antecedenti …), portando con sé, a salvaguardia delle conoscenze di questa terra, 67 tavole in legno incise con caratteri di una scrittura sconosciuta: tavole identiche sono visibili ancora oggi e vengono chiamate kohau rongo rongo, dal nome dei maori rongo rongo, la casta sacerdotale detentrice della capacità di leggere e riprodurre l’antico idioma.

L’ultimo maori rongo rongo morì intorno al 1860 dopo essere stato deportato come schiavo da pirati peruviani: da allora, nessuno è più stato in grado di decifrare la misteriosa scrittura.

Ma c’è un dato sorprendente: i caratteri rongo rongo sono incredibilmente simili a quelli della scrittura delle città pre-ariane di Moenjo Daro e Harappa, appartenenti alla civiltà dell’antica Valle dell’Indo e risalenti a un periodo storico databile tra i 3.300 e i 1.300 anni a.C. La straordinaria similitudine è stata accuratamente studiata da ricercatori dell’Università del Cile, di Santiago, una delle più antiche istituzioni universitarie delle due Americhe.

Ricordiamo poi che anche l’idioma polinesico tradizionale dell’isola (ancora oggi conosciuto ma sempre meno parlato) contiene termini che sono inspiegabilmente identici a quelli di linguaggi lontani anni luce, come il sanscrito e l’egiziano: uno fra tutti è Ra-a, che significa Sole sia nell’antico Egitto che su Rapa Nui.


La pietra forata di Ahu Vinapu

Ce n’è abbastanza per formulare ipotesi che sono ben lontane dalla storiografia ufficiale.

D’altronde gli USA, sempre molto attenti a ciò che va al di là dell’ordinario, non solo hanno fortemente voluto la costruzione del piccolo aeroporto locale ma hanno anche effettuato - pochi lo sanno - ricerche top secret nell’area del Rano Kao, conosciuto come il maggior cono vulcanico dell’isola ma probabilmente cratere meteorico.

In definitiva, a noi sembra naturale un’ipotesi: in tempi molto antichi, sicuramente anteriori alla recente colonizzazione di Hotu Matu’a, Rapa Nui ha vissuto la stessa esperienza che ha dato origine su tutta la Terra al fiorire del Megalitismo.

Un’esperienza che fa dell’isola un posto davvero “speciale”.

Difficile parlare di un incontro con Rapa Nui come di un viaggio, una vacanza … E’ un luogo dove ci si può sentire in un lontanissimo altrove ma nello stesso tempo a casa, immersi nella percezione di un mistero che non è solo storico e archeologico ma tocca le corde più profonde del rapporto che ci lega alla Natura, al mistero di esistere.

Un’esperienza di portata molto più ampia di tutti i tentativi di interpretazione fatti dalla scienza ufficiale, un’esperienza che può trovare la sua chiave nel simbolico atteggiamento dei Moai: tutti, indistintamente, hanno le mani riunite all’altezza del ventre in una chiara postura di meditazione. Tra le mani, qualcosa di indecifrabile, un piccolo segno, come un piccolo oggetto regolare: forse una gemma?